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Un servizio di EWTN News

Diplomazia pontificia, focus di inizio anno sui cristiani perseguitati

Un cristiano prega in una delle chiese distrutte di Aleppo, Siria. La Siria è uscita dalla top ten dei Paesi più a rischio per i cristiani, ma le ferite della guerra sono ancora fortissime

Quale è la situazione dei cristiani perseguitati del mondo? Uno dei compiti della diplomazia pontificia è, appunto, quella di occuparsi dei cristiani sul territorio. E così diventano fondamentali i rapporti e i numeri, che aiutano a dare le dimensioni del rapporto sul campo. Questa settimana è stato pubblicato il rapporto di Open Doors, che si definisce una "missione non denominazionale" a favore dei cristiani perseguitati, e che nasce in ambito cristiano evangelico. La sua classifica annuale sulle nazioni più a rischio è uno strumento di riflessione, e dà una panoramica di quello che accade nel mondo.

La World Watch List di Open Doors

Sono 215 milioni i cristiani perseguitati nel mondo. Ma dove c’è maggiore pericolo per i cristiani? Al primo posto della triste “top ten” di Open Doors c’è la Corea del Nord, il più pericoloso Paese al mondo in cui essere cristiani: si stima ci siano 70 mila cristiani imprigionati nei campi di lavoro.

Al secondo posto, l’Afghanistan, praticamente scomparso dalle cronache. Lì non è permesso a nessun cittadino di essere cristiano, né di convertirsi al cristianesimo. Lo scorso dicembre, in una intervista a Fides di qualche tempo fa, padre Giuseppe Moretti, missionario barnabita, aveva sottolineato che “la missione dei cattolici in Afghanistan è fatta di una particolarità: può essere solo di testimonianza silenziosa”. L’Afghanistan è tra i Paesi che non ha alcuna relazione diplomatica con la Santa Sede, e la presenza dei Barnabiti è dovuta solo alla concessione data dal governo afghano nel 1983 di un assistente spirituale presso l’ambasciata italiana.

Al terzo posto c’è la Somalia, citata da Papa Francesco nel suo discorso al Corpo Diplomatico della Santa Sede per la grave crisi della siccità che la sta colpendo. Ma la Somalia è luogo pericolosissimo per i cattolici, la sede episcopale è vacante dall’assassinio del vescovo Pietro Salvatore Colombo nel 1989, la lista dei martiri vede anche una suora recentemente beatificata, Leonella Sgorbati, e i luoghi di culto sono diventati bersaglio dei fondamentalisti.

Quindi, appena un gradino sotto il podio della vergogna, il Sudan, che fu visitato da Giovanni Paolo II e che fu evangelizzato in tempi antichissimi. Eppure, ora la maggioranza islamica punisce una eventuale conversione al cristianesimo con la pena di morte per apostasia. In Sudan, c’è anche un programma di demolizione delle chiese.

Altri Paesi della top ten: Pakistan, Eritea, Libia, Iraq, Yemen, Iran.

Rispetto alla classifica del 2016, si registra il ritorno della Libia tra i primi dieci Paesi in cui i cristiani sono a rischio, e l’uscita della Siria dalla top ten, complice anche la fine del conflitto con l’ISIS che però non ha ancora risolto tutti i problemi sul territorio. L’Egitto è al 17esimo posto a causa degli attentati che soffrono i cristiani copti – 128 cristiani egiziani sono stati uccisi lo scorso anno da attacchi per motivazioni religiose. In generale, il rapporto mette in luce che la situazione in tutto il Medio Oriente è peggiorata in questi anni, anche con l’ingresso della Turchia nella lista a causa della “progressiva islamizzazione del Paese”.

Entra in lista il Nepal, dove sono cresciuti gli estremisti indù. Sitauzione sempre complessa in India, che ha visto lo scorso anno abusi mentali o fisici su 23.793 cristiani, in una situazione che va deteriorandosi sin dal 2014 a causa delle leggi anti conversione.

Emergono segni di persecuzione nel Sud Est Asiatico, in Malesia e Indonesia, ma anche alle Maldive, un altro dei Paesi in cui lasciare l’Islam è punibile con la morte.

Uno sguardo speciale per la Nigeria, che vive ancora il dramma degli attentati di Boko Haram: si conta che lo scorso anno siano stati uccisi più di 2 mila cristiani.

La sottile persecuzione nel cuore dell’Europa

Sono questi i numeri della persecuzione riconosciuta dei cristiani. Ma poi c’è una persecuzione nascosta, anche quella pericolosa. Il Cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, ha parlato la scorsa settimana con Aiuto alla Chiesa che Soffre di un esodo di cristiani che sta avvenendo in Bosnia. Il Cardinale ha spiegato che “è ancora più difficile per i cattolici difendere i diritti fondamentali”, e per questo “più di 10 mila cattolici stanno lasciando la Bosnia Erzegovina ogni anno”.

Una emorragia, ha spiegato il Cardinale, che è stata ereditata dalla guerra del 1992-1995, la quale ha fatto sì che almeno 250 mila fedeli diventassero rifugiati, “espulsi dalle loro case”, e senza ricevere alcun supporto “politico o finanziario per il loro ritorno”, mentre “gli accordi di Dayton non sono stati implementati” e a soffrire è stata soprattutto la minoranza cattolico-croata.

“Se non ci saranno più croati qui – ha detto il Cardinale – non ci saranno più cattolici, perché la maggior parte dei croati sono cattolici. Per questo è importante creare una situazione di eguali diritti”.

Il Cardinale Puljic ha spiegato che il problema principale è guarire le ferite della guerra, “perdonandosi gli uni con gli altri”. Un tema, questo, che fu centrale durante la visita di Papa Francesco a Sarajevo, nel giugno 2015.

Il Focus sulla penisola coreana

Il discorso di Papa Francesco al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede ha toccato anche il tema della pace nella penisola coreana. La Santa Sede segue con attenzione le vicende nella penisola coreana, e allo stesso tempo i vescovi della Corea del Sud sperano che Papa Francesco possa mediare nella crisi con il Nord Corea, aprendo ponti di dialogo con gli Stati Uniti.

L’incontro dell’8 gennaio con gli ambasciatori è stato anche l’ultimo atto ufficiale dell’ambasciatore Jonghyu Jeong, che è stato lo scorso 11 gennaio in visita da Papa Francesco. Arriverà presto il nuovo ambasciatore, Baek-man Lee, cattolico praticante battezzato Giuseppe, un ex giornalista che durante la presidenza Moohyean Rho è stato segretario e consulente di comunicazione del presidente. Tra le sue attività, quello di cooperatore dei Gesuiti in Corea, con i quali ha svolto varie attività umanitarie, tra cui una missione in Cambogia per i ragazzini mutilati dalle mine rimaste dalla guerra di Indocina.

Angola e Santa Sede, presto un accordo di cooperazione

Angola e Santa Sede, passi avanti verso un accordo di cooperazione. La volontà di dare una forma giuridica alle buone relazioni tra i due Paesi è emerso in un incontro il 9 gennaio a Luanda tra l’Arcivescovo Petar Rajic, nunzio apostolico in Angola, e il ministro degli Affari Esteri angolano Manuel Augusto. Il progetto di una accordo quadro tra i due Stati dura da diversi anni, e ora si attende che il documento sia completato dal ministero degli Esteri.

In una conferenza stampa a seguito dell’incontro tra il nunzio e il ministro degli Esteri, l’arcivescovo Rajic ha sottolineato che è importante che tutte le istituzioni della Chiesa - diocesi, congregazioni religiose e scuole cattoliche, ma anche le istituzioni educative e sanitarie – siano riconosciute come entità legali.

L’accordo con l’Angola si aggiungerebbe ai più di settanta che la Santa Sede ha in vigore con Stati e autorità regionali. Due, in particolare, gli accordi che la Santa Sede ha firmato nel 2017: il 3 febbraio, l’Accordo quadro tra la Santa Sede e la Repubblica del Congo sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e lo Stato; e il 22 agosto, l’Accordo tra la Segreteria di Stato e il Governo della Federazione Russa sui viaggi senza visto dei titolari di passaporti diplomatici.

In tempi recenti, va segnalata l’entrata in vigore dell’accordo tra Santa Sede e Palestina nel 2016, e l’accordo tra la Santa Sede e Capoverde nel 2013, il primo accordo siglato con una nazione ex possedimento coloniale.

(La storia continua sotto)

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La situazione in Repubblica Democratica del Congo

Guardando al contesto africano, Papa Francesco aveva menzionato nel suo discorso dell'8 gennaio la difficile situazione nella Repubblica Democratica del Congo.

Padre Donatien Nshole, segretario generale della Conferenza Episcopale Nazionale Congolese, è stato parte delle delegazione che ha incontrato la scorsa settimana il presidente delle repubblica del Congo, Denis Sassou Nguesso. Nguesso è presidente della Conferenza Internazionale della Regione dei Grandi Laghi, cui aderiscono Angola, Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo, Kenya, Uganda, Rwanda, Sudan, Tanzania e Zambia.

La delegazione ha chiesto alla presidente Nguesso di evitare il peggio in vista delle elezioni della Repubblica Democratica del Congo, che regoleranno la successione al presidente Kabila. Il 31 dicembre, la manifestazione di laici cattolici a Kinshasa è stata repressa in maniera violenta, con un “attacco sproporzionato” nelle parole dell’arcivescovo Mariano Montemayor, nunzio aposotlico in Repubblica Democratica del Congo.

L’attenzione sulla situazione in Siria

Lo scorso 9 gennaio, Husam Eddin Ala, ambasciatore di Siria presso il Vaticano, ha incontrato l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, “ministro degli Esteri” vaticano, per parlare delle relazioni bilaterali e dell’attuale situazione in Siria nella Regione.

Lo comunica l’agenzia siriana SANA. Secondo l’agenzia, l’ambasciatore ha ringraziato dell’interesse del Papa per la regine, ha sottolineato le vittorie dell’esercito siriano contro l’ISIS, ha stigmatizzato la decisione degli Stati Uniti (il riferimento indiretto è alla decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele) e le aggressioni turche e israeliane sulla Siria.

La Santa Sede ha ribadito l’interesse della Santa Sede a supportare ogni sforzo per trovare una soluzione pacifica alla crisi in Siria per trovare stabilità nella Regione, nonché il supporto della Santa Sede alle risoluzioni ONU sulla Terrasanta. La Siria è stata uno dei primissimi scenari dell’attività diplomatica di Papa Francesco, che promosse, il 7 settembre 2013, una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Siria e in Medio Oriente.

Il viaggio in Cina del Consiglio Ecumenico delle Chiese

Il Consiglio Ecumenico delle Chiese sta celebrando i suoi 70 anni con un viaggio in Cina. Il segretario generale del CEC, il pastore luterano Olav Fykse Tveit, ha dato il via all’anno di celebrazioni con un culto tenutosi il 7 gennaio nella chiesa metodista Chongwenmen di Pechino.

Fondato ad Amsterdam il 22 agosto 1948, il CEC è formato da 348 chiese membro. La Chiesa cattolica partecipa in qualità di osservatore, essendo parte del movimento ecumenico ma non accettando la denominazione di Chiesa per le altre confessioni cristiane, perché l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica.

È da notare come le confessioni protestanti abbiano comunque più possibilità di penetrazione in Cina, cosa dovuta anche ad una maggiore malleabilità nei rapporti con il governo. Mentre la Chiesa Cattolica è impegnata in una difficile trattativa sulla nomina dei vescovi – Pechino non accetta l’autonomia della Santa Sede nel nominare i vescovi, e spesso ne nomina personalmente –, i culti protestanti sembrano godere di una maggiore libertà.

Già nel 1950, con il Movimento delle Tre Autonomie (autogoverno, autofinanziamento e autopropaganda) nato dal Manifesto cristiano, le Chiese protestanti si misero dalla parte del governo di Pechino, dichiarandosi favorevoli alla riforma agraria e proclamando la loro estraneità alle potenze imperialiste. E i cattolici, per molti versi (non ultimo il loro essere legati all’autorità del Papa) sono considerati parte di queste proteste imperialiste.

Forse non è un caso che la morte dei vescovi Luca Li Jingfeng e di Mattia Yu Chengxin, avvenuta tra novembre e dicembre, è stata comunicata mettendo in risalto proprio la persecuzione che i due avevano affrontato dichiarandosi contrari al movimento delle Tre Autonomie.

C'è da notare che il Movimento delle Tre Autonomie, che raduna le comunità protestanti ufficiali, conta attualmente 20 milioni di aderenti, mentre sono 80 milioni i cristiani protestanti non ufficiali. Questi ultimi hanno dovuto soffrire la distruzione della chiesa della lampada d'oro di Linfen lo scorso 9 gennaio. La chiesa era stata costruita con il contributo di tutti i 60 mila fedeli di Linfen, una città di 4,5 milioni di abitanti.

Il governo cinese ha una campagna di demolizione delle chiese che non risparmia nemmeno le chiese riconosciute: dal 2013 al 2015 sono state distrutte più di mille chiese.

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