Tripoli, 06 February, 2017 / 9:00 AM
Alcuni mesi fa il commissario europeo all’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, aveva proposto di aumentare i respingimenti da parte dell’Europa, affermando che il patto firmato nel marzo scorso con la Turchia, in cambio di € 6.000.000.000, è funzionante: “L’accordo funziona. Il numero degli arrivi nel territorio greco è diminuito sensibilmente”.
A queste parole si è subito opposto don Mussie Zerai, direttore dell’Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo: “Certamente conoscerà il rapporto dell’Onu che ha denunciato che oltre 400.000 bambini sono vittime della carestia, in Nigeria, a causa della situazione provocata dai miliziani fondamentalisti di Boko Haram.
Anzi, secondo l’Unicef, 75.000 rischiano di morire di fame nei prossimi mesi, al ritmo di 200 al giorno. Senza contare le uccisioni, i rapimenti, i saccheggi che investono interi villaggi, gli attentati, le stragi e tutto il nord del paese precipitato da anni sotto il controllo diretto dei fondamentalisti fedeli all’Isis.
E allora qualcosa non torna se ripensiamo alle sue dichiarazioni, diffuse da tutti i media europei, secondo cui non occorre cambiare i criteri delle nazionalità dei rifugiati da accogliere e ‘ricollocare’ in qualcuno degli Stati dell’Unione”.
Padre Mussie Zerai è un sacerdote scalabriniano di Asmara, che da profugo è arrivato in Italia nel 1992 quando aveva 17 anni, fondatore dell’associazione umanitaria Habeshia, candidato al Nobel per la pace nel 2015, inserito dal settimanale Time tra le 100 personalità più influenti del 2016 nella categoria ‘pionieri’, che adesso ha pubblicato la sua autobiografia, scritta con il giornalista della Rai, Giuseppe Carrisi.
Perché in Europa si continua a parlare di emergenza?
“La comunità internazionale, l’Europa, l’Italia sanno bene quali sono le vere cause, ma per affrontarle devono pagare un prezzo. L’ultimo accordo commerciale con l’Africa, solo per fare un esempio, è tutto a svantaggio di quel continente. Questo poi si ripercuote sulla gente, in termini di mancanza di infrastrutture, istruzione, cure… Per non parlare del fenomeno del land grabbing che toglie terra e risorse vitali a intere popolazioni. Poi ci stupiamo di tutti questi migranti che cercano una vita migliore altrove”.
Ed allora ci siamo fatti spiegare meglio chi sono coloro che fuggono dal continente africano, elencando gli Stati: “Sono soprattutto giovani che fuggono dalle guerre. La Somalia implosa e in preda alla guerra civile, con i miliziani di Al Shabaab, affiliata ad Al Qaeda, che mettono a segno una media di oltre 900 attentati l’anno, con centinaia, migliaia di morti e, anche qui, una siccità e una carestia che investono milioni di uomini e donne.
Il Mali dove, contrariamente a quanto si continua a dire in Europa, la guerra esplosa con la rivolta del 2012 nelle regioni del nord, il cosiddetto Azawad, non è mai finita, come dimostra la lunga, quotidiana catena di attacchi, attentati, agguati, uccisioni. Il calvario del Darfur, la martoriata regione del Sudan che non conosce pace da anni e che alimenta, appunto, un flusso costante di profughi che vedono nella fuga l’unica via di salvezza dalle violenze di ogni genere perpetrate dalla polizia del regime di Al Bashir, i famosi ‘diavoli a cavallo’.
Lo Yemen, travolto dalla guerra tra sciiti e sunniti: anche qui migliaia di morti e milioni di profughi o sfollati, disperati scacciati dalle loro case e dalle loro città anche dalle bombe e dalle armi che l’Europa (e l’Italia in particolare) vende, insieme agli Stati Uniti, ad una delle fazioni in lotta.
O, ancora, il Gambia, soggiogato per anni da una dittatura feroce, che speriamo sia stata davvero scacciata dalle elezioni di qualche giorno fa. O la Repubblica Centrafricana. O lo stesso Niger, scelto dall’Europa per farne un grande ‘hub’ di smistamento per i profughi ma che sembra tutt’altro che sicuro, in seguito alla crescente escalation di attacchi terroristici da parte di Boko Haram dalla Nigeria e di jihadisti di Aqim e dell’Isis dal Mali”.
Ma come si può aiutare l’Africa?
“L’Africa è il continente più ricco di tutti gli altri in materie prime e in potenzialità agricole. Non ha bisogno di aiuti, ha bisogno di giustizia. La più grave povertà dell’Africa oggi è la povertà di leadership. Non ci sono leader che mettono il benessere della gente al centro del loro programma.
E’ l’Africa che deve aiutare se stessa. Anche riscoprendo la sua cultura, le sue radici. Il ruolo della cultura e della spiritualità può essere decisivo. La mia esperienza ne è una prova. Avevo sentito la mia vocazione già a 14 anni, quando ero ad Asmara. Ma mio padre, che era emigrato quando avevo 4 anni, telefonava una volta al mese a mia nonna con la quale vivevo, dicendo che dovevo studiare e decidere una volta maggiorenne. Poi anche io sono andato via dall’Eritrea e la vocazione è tornata forte nel 2000, l’anno del giubileo”.
Quando ha cominciato a ricevere le chiamate dei migranti in pericolo di vita?
“Le prime risalgono al 2003 e venivano dai barconi. Poi, un giornalista italiano, Gabriele del Grande, mi ha messo in contatto con alcuni eritrei nelle carceri libiche. Ascoltavo le loro storie e mi dicevo che non potevo limitarmi a tradurre. Dovevo denunciare. E fare qualcosa in prima persona. Non erano solo storie drammatiche di migrazione, ma di violenze, torture e tratta di esseri umani”.
Allora ci può spiegare cosa sta avvenendo in Libia?
“Ai tempi di Gheddafi, si stimava che ci fossero 22 centri di detenzione, dove i migranti subivano trattamenti disumani e abusi, soprattutto le donne che venivano sistematicamente violentate dai militari. Oggi le cose non sono cambiate, anzi. Continuo a ricevere telefonate di gente terrorizzata. Quel Paese è una polveriera. Non sai mai in che mani finisci. I vari gruppi si passano i migranti come se fossero merce. Ognuno mette la sua tassa e il suo prezzo”.
Come giudica le politiche migratorie dell’Europa?
“L’Europa avrebbe potuto fare bene, certamente meglio di come sta facendo, dotandosi di strumenti più adeguati ed efficaci. Nel mondo ci sono 65.000.000 di profughi. L’Europa ne ha accolto poco più di 1.000.000. Ci sono Paesi e continenti come l’Africa che si fanno carico di 9 rifugiati su 10 presenti nel mondo”.
L’ultima domanda riguarda il suo Paese, l’Eritrea: “All’estero l’Eritrea è un paese apparentemente ‘tranquillo’… Ma per chi ci vive non è così! In Eritrea vivono una situazione di schiavitù legalizzata. I giovani non hanno diritti e non hanno prospettive. Il loro futuro è rubato dal servizio militare a tempo indeterminato, senza uno stipendio decente per sé e la propria famiglia.
Per questo, pensano che sia preferibile morire tentando la fortuna piuttosto che morire lentamente e inesorabilmente nel proprio Paese. Si dice che siano quasi 2.000 ogni mese. Circa il 10% della popolazione eritrea è fuggita all’estero negli ultimi anni. In passato dall’Eritrea partivano prima i mariti, poi facevano i ricongiungimenti. A volte le donne si fermavano in Sudan o in Etiopia.
Ora che i Paesi europei bloccano anche i ricongiungimenti, le donne partono tentando anche loro la fortuna. A volte sono giovanissime o incinte o con bambini piccoli. Spesso il loro viaggio è ancora più drammatico. Ma sono sempre di più quelle che arrivano con i barconi… Però gli eritrei non vogliono rimanere in Italia. Chi è rimasto spesso finisce su un marciapiede o vive in palazzi fatiscenti in condizioni di precarietà. Sono scappati facendo grandi sacrifici e rischiando di morire per avere futuro e una vita dignitosi e si ritrovano a vivere in condizioni disumane”.
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