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Mons. Pompili: ‘L’atto di fede’ per passare dalle macerie del terremoto alla speranza

Si intitola ‘L’atto di fede’, ispirandosi all’omonimo quadro di Magritte, la lettera pastorale del vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, partendo dall’esperienza del terremoto. La lettera è divisa in otto capitoli, di cui il primo, che ne costituisce anche la premessa, ha come sottotitolo ‘Il terremoto ci riguarda tutti’, in cui il presule scrive: “Il terremoto non è più una notizia che riguarda altri.

Dopo il 24 agosto e il 30 ottobre è una realtà tatuata sulla nostra pelle, memorizzata dalle nostre fibre. Tutti noi abbiamo nelle orecchie, negli occhi e nelle gambe il rombo sinistro di una potenza che smuove e sconvolge. Attimi interminabili di terrore che intorpidiscono i sonni inquieti e che rendono sensibili anche al minimo fruscio, possibile avvertimento della fine. Si è accorciato il nostro sguardo. Viviamo alla giornata, come i malati terminali. Ci ritroviamo così inebetiti, silenti, chiusi in noi stessi. Pudichi rispetto alla paura, specie quando abbiamo a che fare con i bambini e gli anziani che ci sono affidati, così poco capaci di elaborarla e contrastarla”.

Il vescovo ha constatato come la gente sia cambiata interiormente a causa della paura del sisma, iniziando dai gesti semplici e quotidiani: “Chi ha perso gli affetti più cari non sa più cosa desiderare, il vuoto che sente all’intorno diventa opprimente. Chi ha perduto tutto si chiede cosa fare e si smarrisce rispetto a un futuro senza volto. Non siamo più gli stessi. E’ cambiata persino la posizione che assumiamo nel letto, una volta superata la paura che blocca in macchina o nel camper”. Non trovando una risposta plausibile alla paura la gente ha pensato di essere stata abbandonata anche da Dio; ma il vescovo si è ‘scagliato’ contro questo ‘profetismo’ di sventura, invitando a leggere la storia di Giobbe: “C’è chi è arrivato a dire, o a scrivere, che il terremoto è una punizione divina. Dovrebbe rileggere il libro di Giobbe. Scoprirebbe l’insensatezza e la falsa religione del ‘teorema della retribuzione’.

Come se ‘ce lo siamo meritati’ possa essere una risposta alle nostre domande addolorate. L’idea di un Dio che premia e punisce in questo modo è infantile. Lascia il cielo drammaticamente vuoto. La nostra sofferenza apre lo sguardo a un Dio diverso: quello che fa appello alla piena maturità dell’uomo, alla sua totale responsabilità, rinunciando a ogni paternalismo, a ogni manifestazione pietosa”. Partendo quindi dal quadro di Magritte (L’atto di fede, 1960) che dà il titolo alla lettera pastorale,  raffigurante una porta chiusa dall’interno, ma aperta sul cielo, il vescovo reatino invita a vivere una ‘fede adulta’: “Il Dio cristiano è un Dio per adulti. E se pure non si è mai pienamente adulti, questa consapevolezza ci aiuta a vincere la tentazione di un rapporto infantile e narcisistico con il Signore, ci salva dal vizio di fare di Dio un ‘tappabuchi’, come diceva Bonhoeffer, per turare le falle nelle nostre conoscenze”.

E per vivere ‘faccia a faccia’ con Dio mons. Pompili suggerisce un cammino diviso in tre tappe: “La prima è appunto il rifiuto di un’idea retributiva: essere consapevoli che ‘Dio non ha voluto punirci’. La seconda è lasciare spazio al dolore: ‘Fino a quando, Signore?’ Si può essere arrabbiati con Dio: è l’impazienza della speranza. La stessa che, col suo linguaggio paradossale, descrive Lutero: ‘Ci sono lodi più splendide in certe bestemmie di disperati che salgono in cielo, che in tante lodi compassate di persone che stanno bene’. La terza tappa, infine, è il momento del ‘credere senza garanzia’. E’ riconoscere che per credere non c’è bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. Non si ama Dio perché esaudisce i nostri desideri, né lo si odia se il male piomba nelle nostre vite. Giobbe, alla fine, è capace di amare Dio ‘per nulla’.

Ciò significa uscire completamente dal ciclo della retribuzione, di cui la lamentazione resta ancora prigioniera. E’ una saggezza attraverso la sofferenza (‘nonostante’, ma anche ‘grazie a’, perché sempre il dolore ci dà occhi nuovi)... Un consenso al di là del desiderio”. In questo consiste l’atto di fede, che da il coraggio di passare dalle macerie alla speranza: “Vuol dire riuscire a generare scintille di gioia anche in mezzo alle situazioni più difficili, custodire la speranza anche di fronte alle macerie. E’ fare dell’atto del morire un atto di vita, sulle orme di Gesù. Aiuta a elaborare il lutto sapere che la gioia è ancora possibile quando si abbandona tutto. E’ la via della ‘libertà secondo la speranza’... Rinnovati da questa sofferenza, abbiamo in dono la libertà di immaginare ciò che altri, appesantiti dalle cose, non hanno più il coraggio di vedere”. Prendendo spunto dal quadro di Magritte mons. Pompili invita a guardare la vita dalla prospettiva della ‘porta sfondata’: “Eppure in questo attraversare in prima persona le macerie di un mondo da ricostruire siamo anche, noi per primi, a guardare la vita dalla prospettiva di quella porta sfondata. Pronti a quel salto non garantito che è l’atto di fede adulta.

Più vicini alla verità, più capaci di sentire nelle fibre del nostro essere che si può vivere, con dignità e umanità, senza muri, ma non senza fede. Che poi è corda, legame, senso della connessione di tutto con tutto. Sapere che ogni nostro gesto, parola, silenzio porta inevitabilmente qualcosa nell’universo, dà forma al mondo”. Da questa nuova ‘visione’ si può dare forma al mondo nuovo, vivendo la ‘perfetta letizia’ di san Francessco: “Siamo nella condizione di rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto. Di dare forma con ogni nostro gesto al mondo nuovo che nascerà dalle macerie.

Facciamolo con fede adulta, tenendoci per mano, invitando chi ancora sta dietro le porte chiuse a camminare con noi. Non è gioia a buon mercato Forse allora scopriremo una volta per tutte la profondità e la radicalità della ‘perfetta letizia’, di cui parla il nostro san Francesco. Non una gioia a buon mercato che seduce e poi abbandona, ma qualcos’altro che nella sua stesura più antica risuona nell’acerba, ma espressiva lingua italiana del Trecento”. Di qui la proposta di leggere il celebre testo dei Fioretti, riportato a conclusione della lettera.

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