Kiev, 18 November, 2016 / 10:00 AM
È stato dal Papa lo scorso 10 novembre, e ha sicuramente riportato della situazione in Ucraina. Lo può fare con una certa libertà. Perché Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore della Chiesa Greco-Cattolica ucraina, conosce il Papa dai tempi in cui questi era il Cardinale Bergoglio e l’altro il responsabile della comunità greco-cattolica di Argentina. Da quando è scoppiato il conflitto, l’arcivescovo Shevchuk è stato una voce forte del suo popolo. E la prima settimana di novembre è stato con il Consiglio delle Chiese ad Est dell’Ucraina, in una zona grigia che racconta molto della guerra dimenticata che sta avendo luogo in Ucraina.
Beatitudine, recentemente è stato in una “zona di guerra”. Quali sono le sue impressioni? Quali le situazioni che ho trovato?
Più propriamente, sono stato in una cosiddetta zona grigia, insieme al Consiglio delle Chiese e delle Organizzazioni religiose ucraine. Si tratta di una Organizzazione Non Governativa che rappresenta il 95 per cento delle comunità religiose ucraine, di cui fanno parte tutte le Chiese ortodosse, tutte le Chiese protestanti, i cattolici di ambedue i riti (latino e greco-cattolico), ma anche ebrei e musulmani. Fondato 20 anni, il Consiglio si è riunito per la 25esima volta. Si trattava in un certo senso di una seduta “giubilare” che abbiamo voluto fare proprio in questa zona grigia per dare un messaggio di solidarietà sia alla gente che ai soldati che difendono la zona.
In che cosa consiste la zona grigia?
È una zona colpita dalla guerra, e poi successivamente liberata. In particolare, siamo stati nella città di Kramatorsk, che – come la città di Slaviansk – ha vissuto l’occupazione del 2014, ma ora può raccontare la sua storia di liberazione. Nella zona si vedono molte tracce del dolore dell’occupazione, ci sono tante cose distrutte, ed è una zona fortemente militarizzata, con una linea che divide il territorio controllato dallo Stato ucraino. C’è un continuo afflusso di persone che cercano di scappare dalla zona occupata per andare nello Stato ucraino.
Quale è il messaggio che volevate dare con questa visita?
Prima di tutto, volevamo stare vicino ai soldati ucraini che per il terzo inverno staranno in questo campo di combattimenti, dove non si è mai riusciti ad arrivare ad una tregua. Volevamo dare un segno di speranza per questi giovani ragazzi. E poi, volevamo dare un messaggio alle persone che vivono in questa zona. Ci sono tante persone disposte ad accogliere gli altri, proprio lì dove spesso le strutture burocratiche o militari non riescono ad operare questa accoglienza. Quindi, abbiamo voluto riconoscere l’impegno di queste persone, la loro “diaconia”, ovvero il loro servizio. Perché questa zona grigia, che in modo diretto è divisa da questa linea di combattimenti, è una zona dove nessun organismo statale è capace di portare né alimenti né medicine.
Chi vive ancora in questa zona?
Gli anziani, che non hanno dove andare, e se i nostri collaboratori di Caritas non portano loro il pane non hanno nemmeno nulla da mangiare. E le donne con i bambini piccoli, che hanno spesso paura di andare via. Restano accanto i loro piccoli mentre i mariti sono lontani, vivono nei sotterranei settimane e per mesi, perché per settimane cadono le bombe. Si incontrano bambini di 8-10 anni che sanno riconoscere persino il calibro delle bombe dal rumore.
Il Consiglio delle Chiesa include anche i membri della Chiesa ortodossa di Mosca, che pure ha avuto parole dure nei confronti dei greco cattolici, e che da molti è percepita come una forza a fianco degli “occupanti”. Come sono le relazioni con loro?
Sono difficili, perché abbiamo di fronte una Chiesa lacerata, e non solo dal punto di vista della gerarchia. La gerarchia ha i suoi motivi politico-economici per prendere delle decisioni. Ma io parlo della gente. La maggior parte delle persone colpite dalla guerra fa parte del Patriarcato di Mosca. Sono loro a fare la domanda: perché sono venuti per ucciderci? Noi diamo loro aiuti umanitari, ma non sappiamo dare loro una risposta sulla questione religiosa. E però queste persone erano felici di vedere la Chiesa ortodossa in Ucraina essere parte di questo pellegrinaggio, portando solidarietà al popolo sofferente ucraino. Perché la stessa Chiesa ortodossa viene strumentalizzata per scopi geopolitici e questo fa male alle persone.
Il Papa ha lanciato l’iniziativa della colletta straordinaria per l’Ucraina subito dopo aver incontrato il vostro sinodo. Cosa gli avete detto per farlo decidere in questo senso?
Noi abbiamo dato solo l’ultimo tocco, ma la verità è che da tempo nel cuore del Santo Padre maturava l’idea di fare qualcosa per il popolo ucraino, perché di fronte alla sofferenza umana, a tanti morti, tanti feriti, la coscienza cristiana si domanda: noi cosa possiamo fare? Noi gli abbiamo semplicemente detto: “Santo Padre, soffrono. Possiamo aiutare. Dobbiamo aiutare”. E lui subito ha risposto deciso “Sì, lo faremo”. E così mi ha chiesto di contattare, subito, monsignor Del Toso, segretario del Pontificio Consiglio Cor Unum. Lui mi ha incontrato a Roma, poi è venuto in Ucraina. E ha detto che questa è una delle missioni più difficili che si è trovato ad affrontare.
Difficile perché?
Perché il Paese è grande, il numero delle persone colpite è grandissimo – milioni – una parte del terreno è occupato e non c’è accesso per missioni umanitarie internazionali: queste missioni non vivono nei campi dei profughi ma sono sparse per tutto il Paese.
A che punto è oggi l’iniziativa?
La colletta è stata fatta e inviata nelle mani del Santo Padre, il quale ha installato il comitato tecnico incaricato di raccogliere i progetti. Ci sono quattro gruppi di destinatari di aiuti, dalle persone intrappolate nella zona occupata alla gente rimasta nella zona grigia, fino agli sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case e i feriti. I tre bisoogni primari sono cibo, casa medicine. Per quello che so, questo comitato ha già raccolto il primo gruppo dei progetti e sta già iniziando a finanziare questi progetti.
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