venerdì, settembre 20, 2024 Donazioni
Un servizio di EWTN News

Diplomazia pontificia, la Chiesa perseguitata in Nicaragua

I fedeli nicaraguensi in una manifestazione a supporto dei vescovi nel 2018

Undici nuovi arresti di sacerdoti in Nicaragua nel fine settimana, e poi un altro nel corso della settimana appena trascorsa, segnano la recrudescenza della persecuzione contro la Chiesa in Nicaragua. Il regime di Ortega, prima dell’espulsione di tutti i diplomatici vaticani, aveva eliminato la posizione del decano del Corpo Diplomatico, che spetta alla Santa Sede per il diritto di decananza stabilito sin dal Congresso di Vienna, e aveva espulso in maniera improvvisa e violenta il nunzio, l’arcivescovo Waldemar Sommertag. Inizialmente, la Chiesa Cattolica aveva partecipato anche al dialogo nazionale, ma poi era andata incontro a contestazioni del governo che la accusava di essere troppo a favore del popolo.

Anche il Libano è sull’orlo di una guerra, ma cosa pensano i cristiani nel Paese? Intanto, un articolo dell’Osservatore Romano sulla questione dell’eredità armena in Nagorno Karabakh (Artsakh, secondo il suo antico nome) scatena le proteste vivaci della Chiesa Apostolica Armena.

                                                           FOCUS NICARAGUA

Ancora arresti di sacerdoti: è terrore anti-cattolico nel Paese

Il 5 agosto, è stato arrestato nella diocesi di Matagalpa padre Jarvin Tórrez, rettore del Seminario Maggiore di Filosofia San Luigi Gonzaga e parroco della chiesa Santa María de Guadalupe. L’arresto faceva seguito a quello di altri 12 sacerdoti, quasi tutti provenienti dalla stessa diocesi, nel fine settimana del 3-4 agosto.

In totale, nel corso dell’ultima settimana sono stati incarcerati 13 sacerdoti, tutti dalla diocesi del vescovo Rolando Álvarez, anche lui incarcerato, detenuto per diverso tempo e poi esiliato il 14 gennaio, dopo una lunga trattativa portata avanti anche dalla Santa Sede e dopo che lui stesso aveva rifiutato una prima possibilità di esilio insieme ad altri prigionieri politici dopo l’arresto.

La Santa Sede aveva anche richiamato a Roma il vescovo ausiliare di Managua Baez, anche lui in pericolo di vita, mentre prima dell’espulsione l’arcivescovo Sommertag, nunzio, insieme al cardinale Somoza, arcivescovo di Managua, era stato oggetto di attacchi personali.

Inoltre, nel marzo 2023 la Repubblica del Nicaragua ha chiesto alla Santa Sede la chiusura delle rispettive sedi diplomatiche, sebbene le relazioni diplomatiche non siano state completamente rotte.

L’operazione degli agenti nicaraguensi era iniziata l’1 agosto, con l’arresto del vicario giudiziale della diocesi di Matagalpa e parroco di San Ramón Ulises René Vega Matamoros e del parroco della chiesa di San Isidro Labrador Edgar Sacasa.

I sacerdoti arrestati nella giornata di venerdì 2 invece sono quasi tutti di Matagalpa, con l’eccezione di un sacerdote della diocesi di Juigalpa: padre Jairo Pravia, parroco della chiesa dell’Immacolata Concezione; padre Victor Godoy, vicario della chiesa dell’Immacolata Concezione; padre Marlon Velásquez, amministratore della chiesa di Santa Lucía; padre Antonio López, parroco della chiesa Nuestro Señor de Veracruz di Ciudad Darío; il diacono Erwin Aguirre, parroco di Nuestro Señor de Veracruz di Ciudad Darío; padre Raúl Villegas, parroco della chiesa di Nostra Signora di Guadalupe di Matiguás; padre Francisco Tercero, parroco della chiesa di Santa Faustina Kowalska, a Solingalpa; padre Silvio Romero, parroco della chiesa di San Francisco di Assisi, nella diocesi di Juigalpa.

Non si ha nessun tipo di notizia dei sacerdoti arrestati.

Lo scorso 22 luglio, un rapporto del Gruppo di Esperti sui Diritti Umani in Nicaragua delle Nazioni Unite (GHREN) ha dettagliato le accuse di “crimini contro l’umanità” per il presidente Nicaraguense Daniel Ortega e la vice-presidente Rosario Murillo, sua moglie, considerati i principali istigatori dell’odio contro la Chiesa in Nicaragua.

Secondo il rapporto, Ortega e Murillo, a partire dal 2018 – quando sono iniziate le proteste in Nicaragua a seguito di una riforma sulle pensioni – hanno incitato a  “discriminazione, ostilità e violenza” contro le istituzioni religiose e i loro membri, ed elencano centinaia di minacce, molestie, aggressioni fisiche, detenzione arbitraria e violazioni del diritto ad un processo equo.

Il rapporto sottolinea che almeno 22 religiosi hanno subito la privazione arbitraria della nazionalità, e che dal 2018 ad oggi sono stati espulsi almeno 84 sacerdoti e 70 suore di diversi ordini.

Inoltre, molti beni della Chiesa sono stati cancellati, così come sono state cancellate organizzazioni di beneficenza, educative e di predicazione della parola di Dio. Tra il 2023 e il 2024 sono state vietate dall’amministrazione Ortega-Murillo ben 7.976 celebrazioni religiose, e tra queste almeno 3.176 erano celebrazioni di anniversario in ricordo degli studenti uccisi durante le proteste del 2018.

Nei primi mesi del 2024, sono state vietate almeno 4.800 processioni e sono stati arrestati otto sacerdoti, mentre 21 sacerdoti sono stati arrestati nel 2023.

Il Ghren è stato istituito dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 2022 ed il cui mandato, se non sarà rinnovato, scadrà il 31 marzo 2025.

                                                           FOCUS ARMENIA

La questione armena e l’Osservatore Romano

Lo scorso 5 agosto, la diocesi dell’Artsakh della Chiesa Apostolica Armena ha protestato ufficialmente contro un articolo pubblicato a fine luglio dall’Osservatore Romano. Lo stesso quotidiano della Santa Sede ha ospitato l’1 agosto un dettagliato articolo di precisazioni dell’arcivescovo Khajag Barsamian, liaison della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede.

Per chiarire, la diocesi di Artsakh è quella del Nagorno Karabakh. Artsakh è, infatti, l’antico nome armeno della regione. Il conflitto recente ha consegnato sotto il controllo dell’Azerbaijan il territorio del Nagorno Karabakh che si era garantito una sorta di indipendenza, pur non essendo mai riconosciuto come Stato nemmeno dalla stessa Armenia.

L’articolo cui si fa riferimento è stato pubblicato il 24 luglio, a firma della studiosa Rossella Fabiani, con il titolo: “Viaggio nell’antica Albania caucasica. Alle radici del cristianesimo”.

Gli armeni lamentano un “genocidio culturale” in atto nella regione da quando, a partire dal 1918, fu data all’amministrazione dell’Azerbaijan, e dettagliano la scomparsa di diversi manufatti cristiani nell’ultimo secolo. Da parte sua, l’Azerbaijan lamenta parimenti la scomparsa di diverse moschee da quando l’etnia armena aveva preso il controllo della regione, e sottolinea la presenza antica di una etnia “albaniana”, ricostruzione sempre negata dagli armeni.

La questione dell’articolo dell’Osservatore Romano si inserisce in questa situazione, ed ha comunque ripercussioni molto forti su una popolazione provata da anni di conflitto e spaventata dal fatto di perdere parte delle proprie vestigia cristiane. È anche una questione diplomatica, perché l’Azerbaijan ha mantenuto cordiali rapporti con la Santa Sede, la fondazione del presidente Aliyev ha finanziato importanti restauri in Vaticano ed è stata aperta anche una ambasciata presso la Santa Sede – prima c’era un ambasciatore non residente.

(La storia continua sotto)

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Ma tocca anche la parte armena, impegnata a difendere l’eredità cristiana del Paese, laddove ai contatti diplomatici dell’ambasciata di Armenia presso la Santa Sede – che è posto di prestigio nella carriera diplomatica armena – si aggiungono quelli ecumenici con la Chiesa Apostolica Armena che più volte hanno toccato il tema dell’Artsakh.  

Le proteste, dunque. La diocesi dell’Artsakh della Chiesa Apostolica Armena ha rilasciato il 5 agosto una dichiarazione ufficiale in cui “considera un articolo del giornale vaticano ufficiale L’Osservatore Romano che descrive le famose chiese armene del Nagorno Karabach come ‘albaniane’ una distorsione della storia e un servizio alla propaganda azerbaijana”.

La diocesi ha sottolineato inoltre che “prima di pubblicare un articolo di propaganda, l’autore avrebbe dovuto almeno familiarizzare un minimo con gli eventi che hanno avuto luogo appena qualche mese fa, i loro motivi, e perciò la reale storia di Dadivank, Gandzasar e Kathravank (antichi monasteri armeni in Nagorno Karabakh, ndr) e cercare di capire in quale linguaggio sono le iscrizioni e perché sono armene”.

L’1 agosto, l’arcivescovo Barsamian ha risposto pubblicamente sulle pagine dell’Osservatore Romano, sottolineando che “sorprende, per esempio, la definizione geografica dell’antica Albània caucasica come il territorio che ‘si estendeva dalle montagne, a nord, al fiume Aras a sud e dal mar Caspio, a est, ai confini della Georgia (allora Iberia) a ovest’.”

La sorpresa risiede nel fatto che “si ignora l’esistenza dell’Armenia, uno degli antichi regni caucasici con cui, secondo tutte le fonti classiche e armene, confinava l’Albània. Dall’altro canto, l’estensione dell’Albània fino all’Aras (l’Arasse nelle fonti classiche) contrasta con la testimonianza di quelle stesse fonti. Esse parlano, piuttosto, di un’Albània estesa a nord del fiume Kura, dove si trovavano il centro politico e religioso del Paese, la Chiesa tradizionalmente ritenuta come prima Chiesa albana e dove sono state rinvenute le uniche sette iscrizioni albane a oggi note. Solo alla fine del IV secolo furono inglobate nel territorio albano originario le terre che si stendevano a meridione, fin verso il fiume Arasse”.

Barsamian sottolinea che “la penetrazione del cristianesimo nel Caucaso e la relazione tra le tre Chiese nazionali — albana, armena e georgiana — formatesi in quella regione è un argomento complesso, non del tutto chiarito”.

Le Chiese della regione – spiega Barsamian - fanno tutte risalire il cristianesimo caucasico al I secolo, e tutti condividono la ricostruzione storica che nota come nel IV secolo le élite adottarono il cristianesimo come religione di Stato, ma per questo “risulta singolare che si parli dell’importante scoperta dei palinsesti albani del Sinai, asserendo che essi confermano l’esistenza delle prime chiese dell’Albània caucasica già nel I secolo”, perché queste dimostrano piuttosto che “le fonti armene, in particolare lo storico Koryun, fossero nel giusto quando parlavano dell’esistenza nel Caucaso di tre alfabeti — armeno, albano e georgiano — usati per tradurre le scritture già agli inizi del V secolo”.

Barsamian nota anche la difficile convivenza tra Chiesa armena e Chiesa Albana, la quale subì una forte influenza da quella armena, e questo sin dagli inizi e non, come dice l’articolo ‘incriminato’, agli inizi del XIX secolo a seguito del trattato di Turkmenchay del 1828 e dell’abolizione della Chiesa d’Albania e la sua subordinazione a quella armena nel 1836, per volontà dello zar Nicola I.

L’arcivescovo Barsamian nota che le chiese dell’Artsakh riportate nell’articolo “portano solo iscrizioni armene che datano almeno dal XI - XII secolo, mentre non c’è traccia di iscrizioni albane? Infatti, il migliaio di iscrizioni studiate dall’orientalista Iosif Orbeli e appartenenti alla Chiesa albana citate nell’articolo, sono tutte in armeno e risalgono a molti secoli prima della presunta ‘armenizzazione’ di quella Chiesa agli inizi del 1800”.

Insomma, conclude l’arcivescovo, “trattare questi argomenti pone una questione etica, in particolare quando la storia irrompe nel presente, e bisogna fare attenzione a non alimentare ulteriormente tensioni che hanno già causato migliaia di morti e indotto decine di migliaia di armeni a lasciare la propria terra, abitata da tempi immemorabili”.

Da cosa nasce la questione armena? Dalla scelta sovietica di attribuire all’Azerbaigian le regioni contese di Nakhichevan e Nagorno- Karabakh – la prima a prevalenza azera, la seconda con una schiacciante maggioranza armena – che ha rafforzato una ostilità da Azerbaijan e Armenia presente già d prima della Rivoluzione Russa.

Nel 1988, gli armeni del Nagorno Karabakh chiesero di unirsi all’Armenia. Prima, ci furono massacri di armeni nelle città azere di Sumgait e Baku, quindi tra il 1992 e il 1994 scoppuò una guerra, che portò alla nascita dalla Repubblica Armena dell’Artsakh, non riconosciuta a livello internazionale che includeva territori in precedenza abitati da azeri.

Dopo tre decenni, l’Azerbaijan ha ripreso il controllo della regione, prima con la guerra del novembre 2020 e poi con un breve intervento militare nel settembre 2023, mentre l’intera popolazione armena del Nagorno Karabakh è stata costretta a fuggire.

Ora, negli occhi c’è il precedente del Nakhicevan, dove si parla dell’annientamento di circa 90 chiese e 10.000 khachkar, le croci di pietra caratteristiche dell’arte sacra armena.

Per quanto riguarda il Nagorno Karabakh, il programma di ricerca Caucasus Heritage Watch, realizzato dagli archeologi delle università statunitensi di Cornell e Purdue, ha documentato (dati al settembre 2023) che sui 452 siti monitorati, già 57 risultano distrutti, danneggiati o minacciati.

                                                           FOCUS AFRICA

Ciad, rapito e liberato un sacerdote

È stato arrestato la sera del 5 agosto, e liberato già il 6 agosto, don Simon-Pierre Madou Baïhana, parroco della chiesa di Isidore Bakandja di Walia Goré, ma avrebbe subito maltrattamenti, secondo una fonte interpellata da Fides, l’agenzia del Dicastero per l’Evangelizzazione.

Ad arrestarlo, uomini della sicurezza, senza in realtà una procedura formale di accusa da parte del procuratore, cosa che fa pensare ad una intimidazione contro don Madou, “reo” di aver preso posizioni critiche contro il governo”.

Decisiva è stata probabilmente la reazione immediata dell’Arcivescovo Goetbé Edmond Djitangar che ha subito pubblicato un comunicato sull’arresto del sacerdote, e la presa di posizione del laicato cattolico.

Si era inizialmente pensato ad un rapimento da parte di banditi, ma era stato poi il Ministro degli Esteri e portavoce del governo, Abderrahmane Koulamalah, a specificare in un comunicato che “don Madou è stato arrestato dalle forze dell’ordine in modo regolare e nello stretto rispetto delle procedure giudiziarie”.

Secondo il comunicato del governo, il sacerdote è stato arrestato per “le sue dichiarazioni ricorrenti, incitanti alla divisione che mettono in pericolo la coesione nazionale”.

                                                           FOCUS ASIA

La crisi in Bangladesh, i cattolici chiedono pace

Grande crisi in Bangladesh, dove le proteste hanno portato alle dimissioni del primo ministro Sheik Hasina, che ha anche dovuto lasciare il Paese, mentre un governo provvisorio guidato dal Premio Nobel Mohammed Yunus deve prendere in mano le redini di un paese in crisi.

Le proteste sono cominciate ad inizio luglio: gli studenti universitari chiedevano al governo di abolire le quote nel servizio civile, e sono cresciute al punto da diventare una più ampia protesta antigovernativo.

Il sistema delle quote prevedeva che il 30 per cento dei posti di servizio civile fossero destinati alle famiglie di veterani che avevano combattuto nel 1971 nella cosiddetta “guerra di liberazione”. Gli studenti, invece, hanno chiesto un sistema basato esclusivamente sul merito, sottolineando che l’attuale sistema fosse ingiusto e ideologico.

Gli scontri tra governo e protestanti ha portato – secondo alcuni report – a più di 400 persone uccise, mentre Hasina descriveva i protestanti come criminali da trattare in maniera dura. Poi si è offerta di incontrare i leader degli studenti la scorsa domenica, senza successo. E quindi è stata costretta a dimettersi dalle manifestazioni anti-governative il 5 agosto, dopo diversi scontri tra manifestanti e polizia che hanno portato, il 4 agosto, alla giornata più sanguinosa della storia di dissidenza civile bangladina, con 95 morti, tra cui 14 poliziotti, solo a Dhaka.

Quando migliaia di protestanti hanno rotto il coprifuoco imposto dai militari, ad Hasina sono stati dati solo 45 minuti per lasciare il palazzo del govenro.

Il Cardinale Patrick D’Rozario, arcivescovo emerito di Dhaka, ha detto che i cristiani hanno pregato “per molti giorni, e sento che quello che è successo è volontà di Dio – che sia buono o cattivo”. Il Cardinale D’Rozario ha inoltre chiesto “pace, calma e nessuna vendetta e il rispetto dei diritti delle minoranze, e si è appellato alle persone perché rispettino “gli esseri umani, i cittadini della nazione, i popoli di altre religioni”.

Le proteste hanno colpito anche Caritas Bangladesh, fortunatamente senza conferenze sulle persone”.

Diversi commentatori avevano sottolineato che le vicende dell’ultimo mese segnavano un punto di non ritorno per il Bangladesh. Sheikh Hasina era al potere dal 2009 e il suo governo era diventato sempre più autoritario. Era stata riconfermata ancora una volta premier alle elezioni di gennaio di quest’anno, boicottate dall’opposizione, rappresentata dal Partito nazionalista del Bangladesh (BNP) e la cui leader, l’ex premier Khaleda Zia, si trova agli arresti dal 2018 per accuse di corruzione.

Sri Lanka, il Cardinale Ranjith accusa ancora il governo

Dagli attentati di Pasqua del 2021, il Cardinale Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, ha accusato il governo di diverse negligenze, specialmente riguardanti le indagini per accertare mandanti e responsabili delle stragi di Pasqua.

La scorsa settimana, parlando ad un incontro con i media, il Cardinale Ranjith è andato oltre il caso specifico, accusando il governo sri lankese di non considerare le necessità pressanti della popolazione, preferendo a questo dei cambiamenti legislativi da lui definiti “potenzialmente dannosi”.

Ranjith si riferiva a una legge che supportava i matrimoni dello stesso sesso e un’altra riguardo i diritti delle donne, perché potrebbero mettere a rischio le strutture familiari tradizionali.

Nella sua conferenza stampa, Ranjith ha detto che, secondo la Chiesa cattolica, il matrimonio “non può avere luogo tra due uomini e due donne. La famiglia è il fondamento della società, e ogni religione la considera tale”.

Il cardinale Ranjith comunque afferma che “siamo tenuti a proteggere i loro diritti”, e che questi “debbano avere opportunità uguali nella società”; ma “includer questo in una legge e renderlo una scelta libera per ogni individuo è sbagliato”.

Il Cardinale Ranjith ha anche chiarito la posizione sui diritti delle donne, che la Chiesa supporta a patto che “sotto i diritti delle donne non si permettano cose come l’aborto. La vita di ogni bambino è importante. Ogni bambino è un dono di Dio e dovrebbe essere accettato da noi”.

                                                           FOCUS MEDIO ORIENTE

Libano, il punto di vista della Chiesa Cattolica

Il Libano in crisi istituzionale dal 2020, senza un presidente, è anche il Libano che si trova oggi a dover fronteggiare un possibile conflitto con Israele, che lancia attacchi nel suo territorio per sconfiggere i terroristi di Hezbollah. Il consenso cristiano ad una guerra allargata è però minimo in questo momento, perché i leader cristiani rifiutano di coinvolgere un Libano esausto in una guerra dalla quale potrebbe emergere facilmente.

ACI Mena ha raccolto le opinioni di vari leader cristiani in Libano. Il Cardinale Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha infiammato nel corso di questi anni il dibattito pubblico con omelie di tipo “politico” e con forti appelli al governo e alle istituzioni. Quando il Cardinale Parolin è recentemente andato in Libano, a Bkerké, sede del Patriarcato Maronita, si è tenuto un incontro tra tutti i leader religiosi – hanno rifiutato di partecipare i musulmani sciiti – con il chiaro intento di “guarire” le ferite politiche di un Paese esausto. Oggi, Bechara Rai, che nel passato ha avuto parole durissime contro Hezbollah, non appoggia alcuna possibilità di guerra allargata o di intervento, ma piuttosto porta avanti la sua idea di “neutralità attiva” del Libano, ovvero quella di allontanare il Paese dalle guerre con le quali “i libanesi non hanno nulla a che fare”.

Nelle sue omelie, il Cardinale Rai si è rivolto a “coloro che hanno sete di sangue”, affermando che la decisione di andare in guerra è una grave responsabilità, e il 20 luglio, nella Messa per San Charbel, ha affermato che il Libano è una terra santa, non una terra di guerre, distruzione, sfollamenti.

I vescovi maroniti hanno tenuto questa posizione. Nell’incontro mensile del Sinodo che si è tenuto il 7 agosto, i vescovi maroniti hanno diffuso una dichiarazione esprimendo timore “per le ripercussioni della guerra a Gaza e nel sud del Libano, e per ciò che potrebbe portare in termini di un’escalation globale di atti di violenza con volontà straniera e per interessi che non hanno nulla a che fare con la patria”, sottolineando che “tutti sanno che l’unica soluzione che porta calma e una sorta di stabilità resta l’attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, in particolare la Risoluzione 1701”.

I partiti cristiani mantengono più o meno, con accenti diversi, la stessa posizione. I funzionari del Partito delle Forze Libanesi (opposto a Hezbollah e del più grande blocco cristiano in Parlamento), del Movimento Patriottico Libero (alleato politico di Hezbollah) e del Partito della Falange Libanese (opposto a Hezbollah) hanno tutti affermato di non volere che il Libano sia trascinato in guerra.

                                                           FOCUS AMBASCIATORI

Tre ambasciatori presso la Santa Sede si congedano

Tre ambasciatori presso la Santa Sede hanno incontrato Papa Francesco in visita di congedo la scorsa settimana.

L’1 agosto, Rafael Schutz, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, ha salutato Papa Francesco dopo tre anni di servizio come ambasciatore. Dopo il massacro di Hamas dello scorso 7 ottobre, l’ambasciatore Schutz si è trovato a fronteggiare una situazione complessa dal punto di vista diplomatico. Da una parte, ha dovuto comprendere la posizione della Santa Sede e ha apprezzato particolarmente la visita del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, in ambasciata. Allo stesso modo, è più volte intervenuto nel dibattito per rispondere ad alcune prese di posizione delle Chiese cristiane, difendendo il diritto di Israele a difendersi.

L’8 agosto, Miroslava Rosas Vargas, ambasciatore di Panama presso la Santa Sede, ha incontrato Papa Francesco in visita di congedo. Rappresentava il suo Paese presso la Santa Sede dal 2014, lo ha traghettato nell’organizzazione della Giornata Mondiale della Gioventù nel Paese e oggi è membro della Commissione per i “500 anni della prima diocesi in terra ferma (Arcidiocesi di Panama).

Il 26 luglio, l’arcivescovo di Panama Domingo Ulloa e il presidente della Conferenza Episcopale Panamense Rafael Valdivieso hanno decorato l’ambasciatore per il suo eccellente lavoro come ambasciatore di Panama presso la Santa Sede. L’ambasciatore ha consegnato alle autorità ecclesiastiche il libro commemorativo dei 100 anni di relazioni bilaterali tra Panama e e la Santa Sede, realizzato in collaborazione con la Chiesa panamense.

L’8 agosto, è stato in visita di congedo l’ambasciatore Jean Jude Piquant, che negli ultimi tre anni ha rappresentato Haiti presso la Santa Sede. Papa Francesco ha dedicato molta attenzione alla situazione di Haiti, citandola spesso anche nei suoi messaggi Urbi Et Orbi. La situazione nel Paese è particolarmente complicata.

                                                           FOCUS AMERICA LATINA

Venezuela, la posizione dei cattolici dopo le elezioni nel Paese

I leader della Chiesa cattolica venezuelana hanno accusato il presidente Maduro, uscito vincitore dall’ultima tornata elettorale, di cercare di formare un totalitarismo nel Paese. La posizione è stata espressa in un dialogo tra il Cardinale Diego Padròn con altri presuli della Chiesa cattolica nell’Accademia dei Leader cattolici, fondazione senza scopo di lucro.

Il dialogo si è tenuto il 7 agosto in un incontro virtuale che ha visto la partecipazione di molti vescovi.

In particolare, la mancanza di trasparenza dei risultati elettorali del passato 28 luglio, che ha destato manifestazioni e critiche internazionali, e le risposte violente del governo di Nicolas Maduro ha riunito cardinali e vescovi di nazionalità di differenti. Tutti hanno concordato sul fatto che sia necessaria uan soluzione concertata e senza violenza.

I leader cattolici hanno sottolineato che la dichiarazione di vittoria della rielezione di Maduro non può considerarsi legittima fin quando i risultati elettorali non siano resi pubblici.

Rocco Buttiglione, presidente dell’Accademia dei Leader Cattolici, ha preso la parola per primo. Ha descritto come “difficile” la campagna portata avanti dall’oppositore Edmundo Gonzalez, e ha notato che ci sono crescenti denunce di una possibille frode elettorale.

Gonzalez, che era stato diplomatico nei primi anni del mandato di Hugo Chavez, era l’ultima carata dell’opposizione per partecipare alle elezioni, dopo che il governo aveva dichiarato ineleggibile prima la ex deputata Maria Corina Machada e poi Corina Yoris.

Il Cardinale Padron è intervenuto successivamente. Già arcivescovo di Cumanà tra il 2002 e il 2018, sottolineando di parlare a titolo personale, ha affermato di ritenere che il governo stia nascondendo gli atti delle votazioni.

Il Cardinale ha detto che prevede che Maduro dilazionerà il dialogo finché sarà ci sarà pressione internazionale, per poi lasciare le cose come stanno e rimanere al potere, sottolineando che “una democrazia senza valori si converte con facilità nel totalitarismo. Padron è convinto della vittoria dell’opposizione.

Venezuela, l’appello alla verità e alla giustizia dei Cardinali Porras e Padron

Il cardinale Padron è anche cofirmatario, con il cardinale Porras, arcivescovo emerito di Caracas, di una lettera pubblica che rifiuta la possibilità di dialogo con il regime di Maduro.

Il documento analizza la situazione, sottolinea che “il processo elettorale venezuelano dello scorso 28 luglio non si è concluso a favore del leader del partito di governo, l’attuale presidente della Repubblica”, e che “in modo civile ed esemplare, il popolo si è espresso, con una maggioranza schiacciante, contro di lui e ha deciso un cambiamento nell’orientamento generale del regime di governo”.

Ma il governo ha “negato categoricamente la vittoria dell’opposizione”, senza mostrare prove, e come conseguenza di questa reazione “un’immensa ed eterogenea maggioranza della popolazione, sorpresa dall’assurdità, si è riversata nelle strade per protestare contro tale comportamento ufficiale e per reclamare il rispetto della sua volontà sovrana”, represso con le forze di polizia e i gruppi armati.

I porporati denunciano che “il governo, invece di costruire ponti con la coalizione dell’opposizione per facilitare il riconoscimento della verità elettorale, premessa per una transizione politica democratica e pacifica, ha allargato il divario, considerandola nemica, e ha deciso di annientarla con la repressione, il carcere, la violenza e la morte”.

Porras e Padron sottolineano che ci si trova in una situazione di colpo di Stato costruito, incurante della pressione internazionale, e anzi ci sono indizi che “il regime stia fabbricando altri atti a proprio vantaggio”, ed è noto “che sono stati intimiditi responsabili e testimoni dei seggi dell’opposizione, affinché li firmassero”, cosa che non oscurerà l’immagine della frode, con la proclamazione irregolare di un presunto vincitore.

Insomma, “sono state superate tutte le barriere che potevano conferire legittimità al regime”, mentre i metodi repressivi del governo hanno “controllato e ridotto le manifestazioni elettorali”.

Tuttavia, “il governo ha abilmente cambiato rotta e ha fatto sì che il processo post-elettorale entrasse in una nuova fase di natura diversa, quella giudiziaria. Il presidente della Repubblica in persona ha presentato un ricorso alla sezione elettorale del Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ), la sua massima istanza nazionale, ignorando l’autonomia del potere elettorale e chiedendo che sia il potere giudiziario a dirimere il conflitto”.

È un modo di utilizzare questo fatto a proprio favore, e “il conflitto può prolungarsi, continuare a rimanere attivo, e potrebbero riaccendersi la protesta di strada assieme ad altre, come quella militare, con le sue prevedibili e deplorevoli conseguenze. Sarà la lotta di Davide contro Golia! La governabilità sarà ferita dalla mancanza di legittimità dall’origine e questo avrà anche conseguenze interne ed esterne.”

Cosa fanno i vescovi? Hanno espresso “con preoccupazione le lamentele e le minacce di alcuni governatori e sindaci pro-regime sulla condotta dei sacerdoti, accusandoli di essere politici nascosti, venduti all’imperialismo”, e temono una deriva nicaraguense nel Paese.

I presuli sottolineando, da parte loro, di dover essere imparziali, ma non neutrali, perché spetta loro “verificare attentamente i fatti, per denunciare profeticamente, anche a rischio, le ingiustizie e proclamare i nostri principi e valori, accompagnando solidalmente e pastoralmente il popolo, compito non facile ma necessario”.

Porras e Padron sottolineano che non si può diventare “una Chiesa del silenzio”, si deve piuttosto “discernere nello Spirito il momento presente come un kairós e agire di conseguenza con coraggio, nello stile degli Apostoli”.

Da qui l’invito a fare delle periferie “il centro della nostra preoccupazione e occupazione, sia in termini materiali che emotivi e spirituali”. I porporati affermano che “conformare organicamente e con prudente autonomia la Commissione di Giustizia e Pace deve essere uno dei nostri obiettivi prioritari, in nome della salvaguardia dei diritti umani, della dignità delle persone e del bene comune di tutto il nostro popolo. Che la gente non ci senta lontani, assenti o indifferenti alle sue necessità e richieste”.

Il fatto è che “alla Chiesa la società venezuelana chiede oggi, in continuità con la storica fiducia e credibilità riposta in essa, un’azione che può essere assunta solo come sussidiaria, di buoni uffici, non di mediazione né di protagonismo”.

La lettera è stata scritta la notte del 31 luglio, dopo aver seguito la conferenza stampa di Maduro con i giornalisti stranieri, notando che “l tono di aggressività e discredito (assunto dal presidente) il presentarsi come vittima che ha dovuto subire attentati, rapine e tentativi di colpi di stato perpetrati presumibilmente a sangue freddo contro di lui, sono la migliore espressione di una visione che appare scollegata dalla realtà. È la narrativa ufficiale, che cerca di legittimarsi attribuendo all’opposizione tutti i mali del Paese”.

I presuli prevedono che il governo “convochi ‘dialoghi’ a partire dalle Chiese e dalle confessioni religiose, sotto la premessa di riconoscere la proclamazione dei risultati da parte del CNE e soprattutto la sentenza del TSJ”.

Ma questo, per i vescovi, “è inaccettabile, perché significherebbe ignorare la frode evidente, l’usurpazione manifesta, ignorare la sovranità popolare inequivocabilmente espressa e il conseguente diritto di esprimere pacificamente, ma decisi e fermamente, la legittima protesta”.

Quindi, “di conseguenza e nei termini classici della ‘non violenza attiva’, appare all’orizzonte il dovere morale di sostenere e supportare le giuste iniziative per affrontare l’arbitrarietà e gli eccessi con la disobbedienza e/o resistenza civica, di radice etica e anche religiosa, secondo lo spirito delle Beatitudini”.

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