Città del Vaticano , 02 January, 2023 / 4:00 PM
“La vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e sarà chiamato Emmanuele”. Questa profezia di Isaia è una delle parole “in attesa” dell’Antico Testamento, scrive Joseph Ratzinger nel terzo volume della sua opera su Gesù di Nazaret, “I Vangeli dell’Infanzia” (Libreria Editrice Vaticana-Rizzoli). Perché per Benedetto XVI alcune parole dell’Antico Testamento sono come randagie, aspettano il loro compimento. E il loro compimento non può che essere in Gesù. Dalle parole di Isaia, però, Benedetto XVI fa scaturire una riflessione sulla realpolitik e sul suo rapporto con Dio. Una riflessione che poi porta dritti alla nascita di Gesù, avvenuta ai tempi di Augusto e di quella pax Augustea che era sempre politica concreta, ma ammantata con il crisma della “divinità” dell’imperatore, fino ad arrivare a far comprendere qualcosa di più dell’idea alla base del Pontificato di Benedetto XVI. Che è poi essenzialmente un pontificato basato su fede, verità e rivelazione. Tutte da leggere attraverso la chiave di “amore e umiltà” sviluppata dallo stesso Benedetto XVI.
Andiamo con ordine, e cominciamo dalla profezia di Isaia. La profezia – dice Benedetto XVI – è presentata nel Vangelo di Matteo, che si impegna sempre di guardare indietro alle scritture per trovare un fondamento, una base teologica alla storia che l’evangelista sta raccontando.
È una profezia che – scrive Ratzinger- “eccezionalmente possiamo datare con precisione”. È dell’anno 733 a.C., i re di Israele e di Siria vogliono ribellarsi agli assiri, e predispongono una coalizione di cui vogliono faccia parte anche il re di Giuda, Acaz. Ma questi è evidentemente un politico capace e freddo, e decide di non entrare nell’alleanza anti-assira. Troppo poche le possibilità di successo. Decide invece di concludere un trattato di protezione con l’Assiria, per salvare la sua nazione dalla distruzione. E per suggellare la conclusione dell’accordo, fa costruire un altare sul modello assiro nel Tempio di Gerusalemme.
Tutto questo deve ancora succedere al momento in cui Isaia fa la sua profezia. Era comunque chiaro che “se Acaz stava per concludere questo trattato con il grande re di Assiria, significava che da politico si fidava di più del potere del re che del potere di Dio”. E allora – scrive Ratzinger – “era in gioco non un problema politico, ma un problema di fede”. Isaia gli dice di affidarsi alla fede, di non preoccuparsi di Assiria e Israele. E dice ad Acaz di chiedere un segno da Dio. Acaz replica di non avere intenzione di mettere alla prova Dio. Ma la realtà è che il rifiuto del re “non è, come appare, un espressione di fede, ma al contrario il segnale che lui non vuole essere disturbato nella sua Realpolitik”. E qui il profeta fa la sua profezia. Che non riguarda la situazione contingente – Ratzinger scarta tutte le ipotesi che cercavano di individuare l’Emmanuele in qualche personaggio del tempo – ma che è una parola sospesa.
Una parola che resta sospesa fino alla nascita di Gesù. Ed è in quel periodo che è in corso un’altra realpolitik, quella di Augusto. Il quale porta la pace nel mondo ormai globalizzato, e fa di questa pace un qualcosa che lo rende simile a un dio. D’altronde – scrive Ratzinger – “la nostra distinzione tra politica e religione, tra politica e teologia, semplicemente non esisteva nel mondo antico”.
Augusto “non vuole essere meramente un sovrano come tanti altri, come ne erano esistiti prima di lui e ne sarebbero esistiti dopo”.
Prova ne è – scrive Ratzinger - l’iscrizione di Priene dell’anno 9 dopo Cristo, in cui si legge, tra le altre cose, che “la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace”. Augusto è dunque il salvatore. Un appellativo, riflette Benedetto XVI, che nella letteratura greca è ascritto a Zeus, ma anche ad Epicuro e Asclepio, e nell’Antico Testamento al solo Dio.
Ma evidentemente quell’iscrizione deve aver destato particolare interesse in Benedetto XVI, se già nel suo primo lavoro su Gesù di Nazaret la commentava, soffermandosi invece sulla parola “Vangelo” che veniva riferita alle decisioni, cariche di effetto, dell’imperatore. In quella circostanza, Ratzinger scriveva che “di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola «vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano «vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene”.
“Se gli evangelisti – proseguiva Ratzinger – riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola, ma realtà. Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere. Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente”.
E in questo caso la pax augustea è persino provvidenziale. “Solo ora – scrive Ratzinger – quando c’è una comunità di legge e di proprietà in larga scala, e quando un linguaggio universale ha reso possibile che una comunità culturale commerciasse in idee e beni, solo ora può un messaggio di salvezza universale, un salvatore universale, entrare nel mondo: è la ‘pienezza dei tempi’”.
E sarà Gesù, il salvatore universale, a portare la vera pace nel mondo. Le figure di Augusto e Gesù sono così strettamente interconnesse. Anche perché sarà proprio il censimento di Augusto lo strumento attraverso il quale si avvererà la profezia, e Gesù nascerà a Betlemme.
La realpolitik di Acaz, la pax di Augusto, rappresentano in fondo due poli cui tenderà il pensiero politico della Chiesa, per secoli basata sul concetto della pax augustea divenuta poi pax cristiana sotto l’imperatore Costantino. Un misto di teologia e politica, che era utile per mantenere la libertà religiosa e l’indipendenza, ma che allo stesso tempo faceva della Chiesa una interlocutrice o dello Stato imperialista o dello Stato confessionale.
Non è un caso che Benedetto XVI abbia definito, durante il suo viaggio in Germania, “provvidenziali” alcune ondate di secolarizzazione. D’altronde, lo stesso Papa viene da una tradizione di studio che in Germania ha analizzato a lungo il rapporto tra il cristianesimo e la politica, stimolata anche dalla presenza e dalle critiche dei protestanti. Un autore su tutti, Erik Peterson.
I suoi studi – apprezzatissimi da Benedetto XVI, che ne ha elogiato pubblicamente il lavoro nel messaggio ad un convegno vaticano in suo onore due anni fa – hanno dissociato Agostino da ogni possibile uso teocratico, rilanciandolo nel dibattito teologico-politico del Novecento.
Peterson è una figura di riferimento fondamentale per il dibattito teologico tedesco degli anni Trenta. Scrive Il Monoteismo come problema politico. Un testo dall’intento polemico, che puntava a criticare i “Deutsche Christen” della Chiesa evangelica al nazionalsocialismo e la Teologia politica di Carl Schmitt. Di fronte al cortocircuito tra cristianesimo e nazionalsocialismo, Peterson, richiamandosi ad Agostino, operava la delegittimazione di ogni possibile teologia politica.
Tra i “padri fondatori” della teologia politica c'è Eusebio di Cesarea. Per lui universalismo cristiano e universalismo romano, Chiesa e impero, Cristo e imperatore, si saldano senza residui. Il contraltare dialettico di Eusebio è Gregorio Nazianzeno, il quale mostra che la monarchia divina nel cristianesimo è una monarchia trinitaria, concetto questo che non trova analogia nella forma terrena. Per questo nessuna teologia politica è possibile. “Soltanto sul terreno del giudaismo e del paganesimo può esistere qualcosa come una ‘teologia politica’. Ma l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità stessa, non nella creatura umana”.
Ma Peterson guarda soprattutto ad Agostino. E – sperando di chiudere la porta ad ogni giustificazione teologica del nazionalsocialismo – conclude spiegando che per Agostino il riconoscimento della irriducibilità del sacro a qualsiasi struttura politico-statale rimane nettissimo. Se c’è una realtà radicalmente secolare e niente affatto teologico-politica, questa è proprio l’impero romano cristianizzato, che mira a mantenere l’ordine mondano, di certo un ordine secolare.
È una lettura con dei limiti, dicono i commentatori. Ma ha il merito di liberare il pensiero di Agostino dalla possibile interpretazione come teocrazia, e valorizza la sua Città di Dio, che non prevede l’impero cristiano. Perché è vero che Agostino considera la conversione del saeculum al cristianesimo provvidenziale. Ma questo riguarda solo l’ambito ecclesiastico, non quello politico-imperiale. Per Agostino, è più esatto parlare di imperatori cristiani (singoli fedeli virtuosi), piuttosto che di impero cristiano.
Ed è qui che si arriva alla lettura che Ratzinger fa di Agostino. Ratzinger si incentra sul senso escatologico della città di Dio, e questo lo deve proprio a Peterson, anche se nel suo primo lavoro dedicato ad Agostino, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, del 1954, non cita mai Peterson (che compare nella bibliografia dell’Infanzia di Gesù, ma non è segnalato per il capitolo che riguarda la pax augustea). Eppure l’influsso di Peterson si sente nelle pagine dedicate al rapporto tra Chiesa e Stato, in cui il giovane Ratzinger scrive: “Agostino quindi ha praticamente preso come base la situazione della Chiesa delle catacombe quando ha progettato la sua determinazione del rapporto tra Chiesa e Stato. La Chiesa non appare ancora per nulla come elemento attivo in questo rapporto, l’idea di una cristianizzazione dello Stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di sant’Agostino”.
Per Agostino – scriverà poi Ratzinger in un saggio del 1971, L’Unità delle Nazioni. Una visione dei padri della Chiesa – “tutti gli Stati di questa terra sono ‘Stati terreni’, anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono Stati su questa terra e quindi ‘terreni’ e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo Stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente del suo perdurare”. Quest’amore non giunge però, come in Eusebio, all’identificazione tra cristianesimo e Impero romano. Perché Eusebio “equivoca l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico e così gli toglie la sua vera e propria grandezza”.
E poi, Ratzinger spiega che, all’opposto di Eusebio, “presso Agostino l’elemento di novità cristiana è mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad ecclesializzare lo Stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine”.
E così c’è un filo rosso che lega la realpolitik di Acaz alla pax augustea, e che lega questa alla rivelazione, e che infine fa di questa rivelazione il tema centrale del lavoro teologico di Joseph Ratzinger. Partendo da Agostino, rileggendolo alla luce della provocazione di Peterson, Ratzinger è un teologo e un Papa modernissimo, capace di guardare al mondo secolare con distacco e con pragmatismo, senza negarne la provvidenzialità occasionale, ma tenendo ben presente che tutto deve sempre riferirsi a Dio. Nei commenti ai due brani del Vangelo da lui citati c’è anche un modo di essere Papa. Legato, sì, alla tradizione della realpolitik della Chiesa, che cerca di non sovvertire gli equilibri delle varie pax augustee che si possono creare nel mondo e nelle nazioni, in modo da proteggere le comunità. Ma che, dopo che Gesù nasce ed è presente, non può non legare la sua missione alla verità.
Una verità che è sempre stata il centro del Pontificato di Benedetto XVI, ed è stata da subito il centro della sua attività diplomatica. È solo a partire dalla verità che si può perseguire il bene comune, che è poi l’agenda internazionale della Santa Sede. I limiti della pax augustea sono stati poi superati dalla Dottrina Sociale della Chiesa, che è riuscita a superare lo stallo di una Chiesa arroccata in se stessa di fronte agli attacchi anticlericali del XIX secolo , spostando tutta l’attenzione non tanto sulla Città di Dio, quanto sulla persona umana. Ma da 2000 anni c’è comunque una rivoluzione di cui tenere conto, che separa in modo netto il piano divino da quello secolare, e che crea un modo nuovo di vivere la religione nella vita pubblica. Una rivoluzione, che vede la luce con Dio che si fa persona. E che è l’unica che può portare alla vera pace.
(articolo originariamente pubblicato su korazym.org il 20 novembre 2012, con il titolo "La realpolitik, la pace secolare e un po’ di Benedetto XVI. A partire dai Vangeli dell’Infanzia", e adattato per la pubblicazione odierna. Il testo originale si trova qui)
(La storia continua sotto)
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