Lourdes, 17 November, 2022 / 9:00 AM
Oscurata dall’autodenuncia del Cardinale Ricard, arrivata tra l’altro poco dopo la visita in Vaticano del presidente francese Emmanuel Macron, la lettera pastorale dei vescovi di Francia sull’eutanasia è una risposta netta del mondo cattolico alla “cultura della morte” che si cela dietro il principio di legalizzazione dell’eutanasia.
Titolo della lettera è “O Morte, dov’è la tua vittoria?”, e si propone di essere il contributo cattolico al dibattito sul fine vita, con l’obiettivo di “guardare la more con gli occhi dei cristiani”. Una lettera necessaria, se si considera che, nel mezzo di una crisi energetica e con una guerra nel cuore dell’Europa in corso, il presidente francese Macron ha pensato che una delle priorità fosse una nuova discussione pubblica di sei mesi sulla legge del fine vita, che rimetta in discussione la legislazione vigente in Francia e magari arrivi completamente a liberalizzarne la pratica.
Una scelta, quella di Macron, che ha trovato poco spazio sui giornali, e che non è stata segnalata neanche nell’agenda dei discorsi che il presidente ha avuto in Vaticano quando è venuto in visita, ma che rappresenta, di fatto, un cambiamento di passo nella legislazione della vita che si ebbe già in occasione degli Stati generali della bioetica.
“La morte – scrivono i vescovi francesi – tocca e interroga ognuno di noi. È lì, inevitabili, con spesso la sua processione di sofferenze. Spontaneamente, possiamo dire che fa paura. Sì, non siamo fatti per la morte!”
Eppure, aggiungono i vescovi, si deve restare “lucidi nella nostra stessa paura,” accogliendo la domanda che nasce nella società: possiamo aiutare attivamente una persona a morire? Possiamo chiedere a qualcuno di aiutare attivamente a morire?
La risposta nasce, dicono i vescovi di Francia, guardando alla morte di Gesù. La nostra società, spiegano, “nasconde la morte e la guarda poco in faccia, essa è compagna della nostra vita e ce ne ricorda fraternamente l’esito”.
I vescovi definiscono lo sviluppo delle cure palliative come “una conquista importante del nostro tempo”, si tratta di una cura che “unisce la competenza medica, l'accompagnamento umano grazie a un rapporto di qualità tra equipe assistenziale, paziente e familiari, e il rispetto della persona nel suo insieme con la sua storia e i suoi desideri, anche spirituali”.
I vescovi incoraggiano “la ricerca e lo sviluppo delle cure palliative”, in modo che “ogni persona alla fine della vita possa trarne beneficio. Anche perché – scrivono - è vero che “l’assistenza attiva al morire” permetterebbe di “eliminare ogni sofferenza”, ma andrebbe anche contro il comandamento di non uccidere.
E – denunciano con– “uccidere per eliminare la sofferenza non è né una cura né un accompagnamento”, ma è piuttosto “eliminare la persona sofferente e interrompere ogni relazione”.
La lettera prevede anche proposte pratiche. Accetta la sedazione, che deve essere “proporzionata” in uno scambio con i parenti “delicato” e svolto in particolare “per concedere il più possibile il tempo per veri addii”.
Per questo, i vescovi sottolineano l’importanza della presenza di un cappellano, che possa accompagnare anche negli ultimi sacramenti, qualcosa che “non ha prezzo per noi che crediamo nella comunione dei santi”.
I vescovi francesi si impegnano anche a riflettere sulle “direttive anticipate e personali,” in modo che “la nostra more non sia né rubata né imposta a Dio”, e cercano di capire quale è il posto essenziale dell'“intenzione” nelle decisioni mediche di fine vita .
Le domande sono diverse. “L'intenzione – si chiedono i vescovi - è di alleviare le sofferenze troppo gravi risparmiando i momenti ancora da vivere, anche se ciò può accorciare i giorni del paziente? O è l'intenzione di anticipare la morte per porre fine alla sofferenza?”
L’invito è ad aiutarsi a discernere “tra cosa sono le cure, l'idratazione e l'alimentazione spettanti al paziente, anche se la morte diventa certa, e cosa potrebbe essere un'inutile accanimento terapeutico e fonte di inutili sofferenze”.
Fare scelte di vita, dunque. Ma anche, non obbligare a fare scelte di morte. In effetti, notano i vescovi, la scelta individuale del suicidio assistito o dell’eutanasia “impegna la libertà degli altri chiamati a svolgere questa assistenza attiva a morire”, rompendo in maniera radicale “l’accompagnamento fraterno offerto”, trasforma la missione di quelli che danno cure e “rovina la fecondità del simbolo del buon samaritano che ispira amore, base di una società degna di questo nome”.
I vescovi mettono in luce come in questo caso “il desiderio di pochi dovrebbe portare la nostra società a proporre la morte a tutti gli incurabili”, mettendo a rischio l’intera dinamica della cura.
Sottolineano i vescovi: “Tutti dovrebbero essere preparati alla malattia e alla morte . Non lo facciamo preoccupandoci, immaginando il peggio, ma imparando a sfruttare ogni momento per avvicinarci a Dio e agli altri. Chiediamo la grazia di capire che essere dipendenti non è una caduta”.
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