Città del Vaticano , 19 April, 2022 / 9:00 AM
La diplomazia della Santa Sede non può scegliere quali sfide sono più urgenti. Deve essere ovunque ci sia bisogno, sia quando ci sono difficili scenari (come possono essere oggi lo Yemen e l’Ucraina), sia quando si tratta di difendere i cristiani dalla persecuzione più blanda dell’imposizione dei nuovi diritti.
In questa ultima parte di intervista, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, parla di priorità e grandi temi della diplomazia pontificia, e di cosa questa riservi per il futuro.
Come diplomatico della Santa Sede, ha servito tre Papi: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco. In che modo è cambiata la linea diplomatica della Santa Sede durante questi pontificati?
Io personalmente non ho visto grandi grandi cambiamenti. È rimasta continuità, ogni Papa si è rifatto al patrimonio presente, sebbene ogni Papa rispondesse anche alle esigenze del suo tempo. Giovanni Paolo II, per esempio, era molto indirizzato nei confronti dell’Europa e verso il superamento del blocco tra i due schieramenti – una situazione che purtroppo ora è tornata. Ma fondamentalmente io ho lavorato sempre sugli stessi principi.
Quale è la sfida più grande per la diplomazia della Santa Sede oggi? Essere presenti negli scenari più difficili (come l’Ucraina, lo Yemen)? Oppure, lottare contro i nuovi diritti portati avanti nelle organizzazioni internazionali, con sfide come quella del gender?
La Santa Sede presta attenzione a tutti questi scenari, che io non metterei in contrapposizione. Noi cerchiamo di avere uno sguardo che abbracci tutte le problematiche odierne. Abbiamo forte preoccupazione riguardo i nuovi diritti, perché portano in loro una nuova visione antropologica che si discosta sensibilmente, per non dire sostanzialmente, dalla visione della proposta cristiana, soprattutto nel senso di una concezione dei diritti in forma esclusivamente individualista. Questa nuova antropologia priva la persona delle sue tre dimensioni di relazione con se stessa, relazione con Dio e relazione con gli altri.
Noi non abbiamo l’obiettivo di contrastare le tendenze. Noi vediamo il rischio di distruggere la dignità dell’essere umano, la sua dignità e la sua sostanza, rendendolo simile ad una piccola isola sperduta in mezzo al mare, dove non c’è possibilità di relazionarsi con nessuno.
L’attenzione dunque è su questo tema?
Come ho detto, non si tratta di scegliere. Accanto a questo, c’è tutta l’attenzione alle situazioni concrete in cui l’uomo è calpestato. La sua dignità viene negata, viene rifiutata. La situazione dei nuovi diritti avviene soprattutto a livello di organizzazioni internazionali, ma anche a livello degli Stati. Dobbiamo riconoscere che ci sono questi tentativi in atto di “colonizzazione ideologica”, come li chiama Papa Francesco.
Vorrei però che fosse compreso che non è una questione di lotta ideologica della Chiesa. La Chiesa si occupa di questi temi perché ha attenzione e amore nei confronti dell’uomo, e difende la persona umana nella sua dignità e nelle scelte più profonde. Si tratta veramente di parlare di diritti, e di parlarne con amore nei confronti dell’uomo, perché vediamo le derive che nascono da queste scelte.
Quali derive?
Senza entrare nel dettaglio, vediamo nella società un disagio generale, una incapacità di avere relazioni. Sono derive che nascono da una visione antropologica dove ci si concentra esclusivamente su quelli che sono desideri personali.
Su questa questione, colpisce che il tema del gender venga inserito un po’ in tutti i documenti degli organismi internazionali, persino nel global compact sulle migrazioni…
Ma anche in altri documenti, le cui tematiche non hanno nulla a che fare con il gender. Da questo punto di vista, mi rincresce dirlo, la Santa Sede non è ascoltata. Anzi, crea fastidio. Ma noi non lavoriamo contro qualcuno, guardiamo all’essere umano. Credo che il nostro compito sia anche di essere fedeli al messaggio che dobbiamo trasmettere, senza scoraggiarci. La parabola del seminatore ci mostra che il seme cade nelle strade, sulle spine, sulla strada, ma questo non scoraggia il seminatore, perché sa che prima o poi il seme andrà nella terra buona e produrrà frutto. Io credo che è questo l’atteggiamento che deve avere la Santa Sede, ponendo sempre le questioni con rispetto, delicatezza, ma anche con molta chiarezza. Dobbiamo dire il nostro punto di vista, anche se non viene immediatamente accettato, anche se non viene immediatamente compreso, anche se viene rifiutato e osteggiato.
Forse possiamo dire che c’è anche una radicalizzazione dello Stato nei confronti delle religioni. La Santa Sede ha messo in luce che, durante la prima emergenza della pandemia del COVID 19, alcune delle restrizioni fossero contro la libertà religiosa. C’è questo tipo di radicalizzazione?
Direi che c’è la tendenza generale di alcuni Stati, forse più nell’Occidente, di relegare la religione al privato. Noi parliamo sempre di una persecuzione aperta nei confronti dei cristiani che avviene in varie parti del mondo, ma c’è anche una tendenza a limitare la loro presenza pubblica, relegandoli alla sfera privata. Questo è il fenomeno più generale.
Per quanto riguarda il COVID, io credo ci siamo trovati tutti di fronte ad una situazione molto inedita, che ci ha fatto reagire in ordine sparso, sia la Chiesa che lo Stato. E così a volte non abbiamo saputo agire nella maniera più corretta possibile. Ho sentito anche io molti vescovi che avevano messo in luce degli aspetti discriminatori, perché non si possono aprire certi locali e tenere chiuse le chiese. Sono scelte che non considerano, tra l’altro, i bisogni spirituali delle persone.
Come ho detto, era una situazione inedita, e le prime reazioni non sono mai le più felici. Ma credo che tutti riconoscano come la Chiesa abbia cercato di fare la sua parte, non intralciando il lavoro del governo, ma assecondandolo, sebbene muovendo qualche critica, dimostrandosi un partner davvero affidabile.
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