Erbil, 30 March, 2015 / 12:39 AM
La Messa di Pasqua sarà officiata dal Cardinal Fernando Filoni in una tenda, ad Erbil. Perché è quello il posto dove ascoltano Messa i profughi arrivati nella zona Nord dell’Iraq, nel Kurdistan difeso dai Peshmerga. La tenda l’hanno messa lì per loro, e non si sa quanto resterà. C’è chi sa già che i tempi sono lunghissimi. E c’è chi spera che in sei mesi Mosul sarà ripresa dalle forze dello Stato Islamico, che è lì, a due passi, e diventa ancora più vicino quando si va da Erbil e Duhok e ritorno, costeggiando Alqosh, la città che fino a poco tempo fa era nelle mani dello Stato islamico. Ma tutto è sicuro, e la vita scorre regolare, ad Erbil, come a Duhok. Ci si abitua a tutto. Anche alla guerra.
Il Cardinal Filoni sarà in Iraq tutta la Settimana Santa. E' stato preceduto da una delegazione guidata dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Composta da Caritas Internationalis, i rappresentanti delle Caritas locali e di alcune altre organizzazioni della carità cattoliche partner, la delegazione ha visitato Erbil e Duhok, portando solidarietà e conforto ai rifugiati e portando in dono ai vescovi locali una icona della Madonna che scioglie i nodi, per cui Papa Francesco ha grande venerazione. È stato lo stesso Papa a benedire le immagini prima della partenza della delegazione. AciStampa ha partecipato al viaggio. Lì, Caritas Iraq ha pianificato una serie di incontri istituzionali, ma anche visite ai campi profughi. Mai come ora c’è bisogno di sollecitare la comunità internazionale, perché la questione iraqena non sia dimenticata.
A Erbil, la vita scorre come tutti i giorni, la guerra non si sente. Ma se ne vedono i segnali. La capitale del Kurdistan doveva diventare – nelle intenzioni – la Dubai dell’Iraq, e ne sono prova i palazzi in costruzione, nella zona periferica che va verso l’aeroporto. Ma le costruzioni si sono fermate con lo scoppiare della crisi. Grandi carcasse di grattacieli si stagliano nel paesaggio. E ci sono anche alcune costruzioni non rifinite, nella periferia della città.
È un paesaggio che i profughi vedono da lontano, perché i loro campi sono in fondo lontani dal centro città. Sono arrivati in circa 2 milioni e mezzo, a più ondate. Prima di giugno 2014, ce n’erano circa 580 mila. Tra giugno e luglio, quando Mosul è stata attaccata, ne sono arrivati 647 mila. Da agosto in poi, quando l’avanzata dell’autoproclamato Stato islamico, ne sono arrivati altri 1 milione 310 mila.
Sono stati sistemati in tende, poi in container, poi si è avviato un piano per l’affitto di case. L’arcivescovo di Erbil, Bashar Warda, ha spiegato che il piano casa è stata una priorità per l’accoglienza dei rifugiati. “Andando un po’ fuori da Erbil ci sono case, sfitte, appena finite o ancora da rifinire. Abbiamo convinto i proprietari ad affittarle alle famiglie di rifugiati,” racconta. E spiega poi che accanto ad ogni nuovo quartiere si è voluta costituire una parrocchia, per dare un senso di comunità.
Gli affitti non sono bassi, vanno dai 500 ai 1000 dollari, ma – aggiunge l’arcivescovo – “in quelle case possono vivere da 2 a 3 famiglie, che possono condividere l’affitto e pagarlo con il lavoro che trovano.”
Il 35 per cento dei profughi, adesso, è in case prese in affitto secondo il piano organizzato dall’arcidiocesi. Un dato che testimonia anche l’altra faccia di questa crisi di guerra che a volte sembra surreale. Ovvero, che molti di quelli che sono scappati improvvisamente da Mosul o dalla piana di Ninive sono borghesi, alcuni con un lavoro specializzato, altri comunque con un reddito che permetteva una vita dignitosa. Si deduce dal costo della vita ad Erbil, non altissimo, ma nemmeno basso per essere quello di un paese che affronta una emergenza. E costi simili si hanno a Duhok, un’altra città curda che ha accolto rifugiati. E un’altra città dove tutti si sono abituati alla guerra.
Ci vorrebbe forse un’ora e mezza per muoversi da Erbil a Duhok, percorrendo l’autostrada che collega le due città passando attraverso Mosul. Ma Mosul è in mano allo Stato Islamico, e così si deve fare un lungo giro, spostandosi dall’autostrada a strade più accidentate, stando bene attenti all’indisciplinatezza dei guidatori iraqeni.
Si capisce che c’è la guerra perché ci sono i checkpoint, ma l’impressione guardandosi intorno è che tutto scorra in maniera regolare. Di venerdì, quasi tutti vanno sulle montagne, accendono barbecue, e c’è persino qualcuno che festeggia un matrimonio. Il vescovo di Duhok Rabban al-Qas ci tiene ad enfatizzare che “c’è grande sicurezza, tutto funziona benissimo, si può persino andare in strada a mezzanotte.” Ma – al di là della grande organizzazione di sicurezza messa in piedi dai peshmerga – basta allargare lo sguardo per comprendere che non è proprio così.
Vicino Duhok c’è Sharia, un villaggio che è stato trasformato in un cosiddetto “Informal settlement,” una sorta di campo informale per profughi. Quelli che sono lì, sono quasi tutti yazidi. Nel campo, i bambini fanno qualche attività scolastica (anche questa definita informale) e ricreativa, vicino si è stabilito un piccolo mercato di frutta quasi tutta importata non si sa come, e tutti cercano di dare un ritmo regolare alla loro vita. Anche lì, la guerra non si sente. Ma finalmente si vede. Si vede negli occhi i coloro che hanno dovuto lasciare tutto all’improvviso, per aver salva la vita. Negli occhi dei bambini che sono tristi, perché non solo hanno lasciato casa ed amici, ma perché in qualche caso hanno perso anche pezzi di famiglia in una fuga insensata fino ad appena un anno prima.
Ma nei loro occhi c’è anche la speranza di tornare a casa. Così, aspettano qualunque visita organizzata dalla Caritas, hanno ansia di far vedere le loro case, di mostrare come vivono. E di chiedere al mondo di non essere dimenticati.
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