Roma, 28 August, 2021 / 2:00 PM
Non sarebbe mai voluto tornare, padre Giovanni Scalese, barnabita, che guida la missione sui iuris in Afghanistan stabilita da Giovanni Paolo II nel 2002. Ma anche lui ha dovuto cedere alle circostanze, e si è imbarcato, dopo vari tentativi, su uno degli aerei messi a disposizione per l’evacuazione dal governo italiano, insieme a cinque Sorelle della Carità e 14 bambini disabili, orfani di cui le suore di Madre Teresa si prendevano cura.
Sono arrivati il 25 agosto a Fiumicino, dopo aver tentato più volte la via dell’aeroporto. Non si sa se i due gesuiti indiani, una sorta di missione nella missione, siano riusciti ad evacuare, ma si sa che ogni notizia sul loro conto può essere fatale in una situazione ancora difficile. Fatto sta che, con la partenza di padre Scalese, di fatto non c’è più un sacerdote cattolico sul suolo afghano, e l’unica chiesa, che si trova all’interno della ambasciata italiana, resta abbandonata.
Nelle sue prime dichiarazioni all’arrivo, padre Scalese ha confessato un unico momento di preoccupazione, nella confusione del primo giorno. Poi ha vissuto in una certa tranquillità, perché la missione è sempre rimasta in contatto sia con le Istituzioni italiane, sia con la Segreteria di Stato vaticana, mentre il Papa continuava a informarsi della loro situazione. È anche per questo che, dopo l’appello fatto al termine dell’Angelus del 15 agosto, Papa Francesco non ha fatto più riferimenti all’Afghanistan, lasciando il lavoro sul territorio. E lo stesso padre Scalese, quando veniva contattato, predicava prudenza, e chiedeva semplicemente di pregare.
Sono i segnali di una situazione che rischia di degenerare, anche dopo le esplosioni all’aeroporto di Kabul ieri, che mostrano come anche nel mondo islamico sia in corso una lotta interna. Padre Scalese era rimasto comunque in ambasciata, mentre le Sorelle della Carità erano nelle loro case, e dunque più esposte.
Parlando con il SIR, padre Scalese dice che quello che è successo in Afghanistan è stato sorprendente, perché “nessuno si aspettava una conclusione così improvvisa, repentina. Tutti speravano in un epilogo più negoziato”. In realtà, la NATO ha lasciato, l’esercito si è dissolto, i talebani non hanno nemmeno avuto bisogno di portare avanti i negoziati, e si sono ritrovati subito il potere in mano.
La speranza resta sempre che, una volta pacificato il Paese, i talebani accettino l’aiuto delle ONG straniere, per poter ricostruire. Tra queste, le ONG cattoliche, che sono anche di congregazioni religiose. L’aiuto umanitario, infatti, è la modalità con la quale sono entrate nel Paese Sorelle della Carità, Gesuiti, Guanelliani.
È da lì che potrebbe partire un “dialogo con l’Afghanistan”, dice padre Scalese, che è stato sette anni nel Paese. Anni difficili, con un alto rischio di attentati. Eppure, padre Scalese tornerebbe anche subito. “Se la Santa Sede ritiene che ci siano le condizioni per riprendere la missione, perché no?”, dice.
Non ci sono cristiani locali in Afghanistan, perlomeno ufficialmente, e la missione cattolica non ha mai battezzato afghani perché, sin dall’inizio, la presenza è vincolata al servizio dei cattolici stranieri in Afghanistan. E forse, oggi, non ci sono più cristiani. Ma chissà che questi non siano presenti e nascosti, e chissà se questi non possano tornare, un giorno.
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