Rimini, 27 August, 2021 / 12:30 AM
Nonostante fosse l’ora di pranzo la sala alla fiera di Rimini era ugualmente piena: la gente era accorsa per ascoltare Pupi Avati, che ha coinvolto la platea ripercorrendo l’ellissi della sua vita fino a condividere gli aspetti intimi e anche sofferti, in cui esperienze personali e professionali si intrecciano in una trama avvincente, incluso l’oggi del “momento terribile della vecchiaia. Ma ecco perché credo, perché c’è una parte di me che non vive questa consumazione, questo degrado”.
E non ha mancato di narrare il suo imminente film: “Il film su Durante degli Alighieri cui sto lavorando è quello più ambizioso della mia vita. La scuola mi aveva fatto odiare Dante, soprattutto nella sua fisicità. L’iconografia dantesca è fortemente penalizzante. Ma la mia password per Dante è stato Boccaccio, che nel 1350 ebbe il compito di consegnare 10 fiorini a suor Beatrice degli Alighieri a Ravenna. Era la figlia di Dante. E questo è, già di per sé, un film. Questo viaggio permise a Boccaccio di raccogliere un sacco di notizie sulla vita di Dante.
Da qui è nata una piccola conversazione sul film: “Mancano un paio di settimane per ultimare le riprese. Lo abbiamo fatto contro tutti per ragioni anche di carattere anagrafico: io sono un uomo di 82 anni. E’ un film complicato che avrei dovuto fare 20 anni fa, ma non me lo hanno fatto fare. Quando si è trattato di aiutare il mio film, a parte RaiCinema e solo adesso il Mibac, non ho avuto nessun supporto; sarebbe stato un progetto che meritava di essere aiutato in modo ben diverso. Questo film è per me sacro e vorrei condividerne la sacralità anzitutto con la troupe perché tutti comprendano che non stiamo per fare un film qualsiasi, ma la madre di tutti i film. Siamo in ritardo, ma è bello quando il piacere si coniuga con la paura. Una ebbrezza che produce adrenalina pura”.
Come è Dante Alighieri da lei rappresentato?
“E’ seducente! Quello trasmessomi dalla scuola italiana negli anni remoti, in cui la frequentavo, è un Dante totalmente repulsivo. Già quel profilo del naso dava l’impressione di un uomo supponente: insomma gli insegnanti della mia scuola hanno fatto di tutto perché non lo amassi. Trascorsi i 30 anni sono andato a scoprirlo, soprattutto la sua opera ‘Vita nova’: un ragazzo che aveva una capacità di introspezione straordinaria e modernissima. Nel film ho cercato di raccontare un ragazzo. Ho incentrato il film su approfondimenti psicologici che in genere nella dantistica vengono in gran parte a mancare. Ciò che avverto necessario raccontare è infatti il ragazzo prima e l’uomo poi. Sono entrato nella vulnerabilità e nella fragilità di Dante come persona, andando oltre la sua monumentalità come poeta, il Sommo Poeta”.
Per quale ragione ha fatto il film?
“Ho fatto questo film perché la gente si affezioni e voglia bene a Dante, da cui siamo invece lontani: voglio suscitare lo stesso bene che gli vuole Boccaccio. C’è un personaggio nella storia, Donato degli Albanzani, che vuole sapere da Boccaccio perché ami così tanto Dante da avergli dedicato gran parte della sua vita, copiando la Divina Commedia e diffondendola. Boccaccio glielo spiega ed è l’intento del mio film: la forte affettività e la compassione nei riguardi di questa persona così punita e penalizzata dalla vita”.
Come lo ha reso contemporaneo?
“Ho puntato ad un’identificazione degli spettatori con quest’uomo prototipo della sofferenza, cercando di renderlo un uomo in cui ci possiamo tutti riconoscere”.
Chi è Dante per lei?
“Dante è un uomo penalizzato dalla vita e che dalla vita attende perennemente un risarcimento. Ma non lo avrà e morirà senza averlo avuto. E’ una di quelle vicende umane per cui si avverte la necessità di Dio, con la sua eterna misericordia e promessa di salvezza. Io credo che Dante Alighieri appartenga a questa schiera di afflitti, con la consapevolezza anche di aver compiuto qualcosa di straordinario che ha che fare con l’ineffabile”.
Ritornando al tema del Meeting ci spiega cosa significa avere ‘il coraggio di dire io’ nel cinema?
“Avere il coraggio significa non farsi proteggere dalle mode e dai luoghi comuni di guardare solo all’incasso o dal casting. Avere coraggio significa mantenere una propria identità e una elasticità, che significa poter ‘scappare via’ appena una cosa va bene. Penso che esplorare se stessi sia il modo più interessante per mostrare ‘il coraggio di dire io’, come ho cercato di spiegarlo nel film ‘Il cuore altrove’”.
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