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Un servizio di EWTN News

Anche il “Giona di Ninive” era tra i candidati al Premio Sacharov

L'arcivescovo Mousa di Mosul

Quando l’ISIS arrivò alle porte di Mosul, caricò la sua automobile di antichi manoscritti, e fece un viaggio noturno fino ad Erbil per salvare prima di tutto le radici. Poi, è diventato arcivescovo di Mosul, con il compito, appunto, di ricostruire a partire dalle radici una comunità ferita, come un novello Giona di Ninive. Quest’anno, Najeeb Michaeel, domenicano, alla guida di quella che era diventata una diocesi inesistente e annientata dall’ISIS, è stato tra i candidati al Premio Sacharov, e addirittura uno dei tre finalisti.

Dal 1988, il Parlamento Europeo assegna il premio intitolato al famoso dissidente russo per quanti si sono distinti nel loro lavoro a favore della libertà di pensiero. Quest’anno, i tre finalisti comprendevano, oltre all’arcivescovo di Mosul, gli attivisti ambientali Guapinol e Berta Caceres dell’Honduras e l’opposizione democratica di Bielorussia, cui poi è andato il premio.

La motivazione della candidatura del domenicano è stata che “quando lo Stato Islamico è arrivato a Mosul nell’agosto 2014, Monsignor Michaeel Moussa ha assicurato l’evacuazione di cristiani, siriani e caldei e salvaguardato più di 800 storici manoscritti risalenti ad un periodo che va dal XIII al XIX secolo”.

Questi manoscritti – prosegue la motivazione – “sono stati successivamente digitalizzati e mostrati in Francia e Italia. Dal 1990, (Michaeel Moussa) ha contribuito a salvaguardare più di 8 mila manoscritti e 35 mila documenti delle Chiese orientali”.

È una motivazione sorprendente, perché lega la lotta alla libertà di pensiero alle radici della cultura. Monsignor Michaeel usava dire che “prima di proteggere noi stessi, dobbiamo proteggere le nostre radici e la nostra eredità culturale. La nostra storia non ha confini, e, qualunque cosa siano questi manoscritti, rappresentano la nostra storia, che l’ISIS voleva bruciare”Il vescovo Moussa ha 64 anni ed è nato a Mosul. Ha lavorato nell’industria petrolifera, poi ha deciso di diventare sacerdote, e ha studiato in seminario in Francia, dove è stato ordinato nel 1987. Quindi è tornato al suo paese natale, e lì ha fondato l’Oriental Manuscript Digital Center per preservare la cultura cristiana del suo Paese.

Il centro ha avuto sede a Mosul, poi, a partire dal 2008 con le prime insurrezioni islamiste, è stato spostato a Qaraqosh, e quindi, due settimane prima dell’invasione dei jihadisti dell’ISIS, ad Erbil. Gli archivi contano 850 manoscritti antichi in aramaico, arabo e altre lingue e circa 50 mila volumi.

Il ritorno del vescovo Moussa a Mosul ha rinnovato anche la presenza dei domenicani nella città. Si attesta la presenza di figli di San Domenico a Mosul dal 1750, tempo in cui avevano cominciato a raccogliere manoscritti antichi.

È un lavoro che ha avuto un riconoscimento. Perché la cultura crea libertà. Come usa dire l’arcivescovo Moussa, “un uomo senza cultura è un uomo morto”.

Ma per l’arcivescovo Mousa il problema è anche in Europa. “I cristiani in Europa – ha detto recentemente in una intervista – hanno sempre sofferto persecuzione. Io sono domenicano. So che la mia congregazione è stata espulsa dalla Francia all’inizio del XX secolo. È stato necessario per le religioni di dare la loro vita per la patria nelle trincee, e per questo sono tornati. Fu padre Henri Lacordaire, avvocato e domenicano, a ristabilire l’Ordine dei Domenicani in Francia nel 1838”.

Oggi – ha aggiunto – “l’Europa sta diventando il bambino malato del mondo moderno, perché si sta allontanando dalla sua fede e dalle sue radici culturali e religiose. Distaccandosi dalla Chiesa e dalla sua eredità si innamora con le peggiori ideologie fondamentaliste e individualiste. Questa è una immensa tristezza per quanti amano l’Europa. Un dolore che sarà riparato solo attraverso l’educazione e la cultura, attraverso la conoscenza e l’uscita da una falsa visione di secolarismo, che non deve essere strumentalizzata per opporsi a Dio e ai valori spirituali.

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