Nagasaki, 26 November, 2019 / 11:00 AM
L’ultimo martire beatificato fu un samurai che non morì ucciso, ma morì a causa della persecuzione nelle Filippine, dove era giunto in esilio con altri cristiana. Justus Takayama Ukon, il samurai di Cristo, si è aggiunto nel 2017 alla schiera di martiri giapponesi, a centinaia, tutti periti tra il XVI e il XVIII secolo. E la sua storia, come quella di tutti gli altri periti per non abiurare la loro fede, sta a raccontare come il Giappone sia davvero una storia di martiri.
Jorge Mario Bergoglio, giovane gesuita, era stato ispirato profondamente dalla vicenda dei martiri del Giappone, tanto che sarebbe voluto partire missionario per il Sol Levante. Non a caso Papa Francesco ha ricordato quel giovane gesuita di fronte al santuario di San Paolo Miki e compagni a Nagasaki, crocifissi all’inizio della persecuzione cristiana del Giappone, il “silenzio” divenuto noto con il film di Scorsese.
L’ultimo della lista, come detto, è Takayama Ukon. È stato il primo beato giapponese celebrato singolarmente, perché gli altri 42 santi 393 beati provenienti dal Sol Levante vengono festeggiati in gruppo.
Era nato nel 1522, tre anni dopo l’introduzione del cristianesimo in Giappone ad opera di Francesco Saverio che aveva convertito Dario, il padre di Takayama. Tutta la famiglia fu battezzata dal gesuita Gaspare Di lella, e la loro conversione aveva un peso, perché i Takayama erano daimyo. Vale a dire che potevano possedere territori, arruolare eserciti ed ingaggiare samurai, un gradino sotto gli shogun nella scala gerarchica.
Così, i Takayama non solo si convertono, ma appoggiano le attività missionarie, contribuendo alla crescita vertiginosa di cristiani nel dominio di Takatsuki – da 600 nel 1576 a 25 mila nel 1583.
Ma poi cominciano le persecuzioni, la prima nel 1587. Justus, però, non abiura la propria fede, perde per questo tutto e viene aiutato da amici aristocratici.
Dieci anni dopo, la persecuzione comincia ad essere violenta, con il martirio di San Paolo Miki e compagni, ma Ukon Takayama non si scoraggia. Nel 1614 lo shogun Tokugawa Jeyasu bandì, poi, definitivamente il cristianesimo, e allora Justus portò con sé in esilio un gruppo di 300 cattolici verso le Filippine. E fu lì che, provato da un inverno rigido e ancora con il peso delle precedenti persecuzioni, Justus morì.
Ma non fu l’unico “samurai di Cristo”. C’erano altri samurai con la croce tra i 188 martiri giapponesi del XVII secolo proclamati a beati nel 2008. Una lista eterogenea, che includeva nobili sacerdoti, un religioso e molti cristiani comuni, persino ragazzi sotto i venti anni, bambini piccoli, intere famiglie.
La beatificazione del 2007 – di “padre Pietro Kibe e i suoi 187 compagni” – fu la prima celebrata in Giappone. I nuovi beati furono martirizzati tra il 1603 e il 1639, quando il Giappone aveva 300 mila cattolici, evangelizzati prima dai gesuiti e poi dai francescani.
Quando arrivò il periodo della persecuzione, la comunità cattolica fu falcidiata dalle persecuzioni e dal numero di coloro che abiuravano per paura. Alcuni, come il “samurai di Cristo”, si auto-esiliarono, altri semplicemente – e furono la maggioranza – vissero in clandestinità e nel silenzio. Per 200 lunghi anni, i cristiani giapponesi rimasero nascosti, senza sacerdoti, tramandandosi la fede di generazione in generazione, da genitori a figli, senza vescovi, preti e sacramenti. Finché, quando il Giappone è costretto ad aprirsi al mondo dall’ingresso del commodoro Perry. Si racconta che, il Venerdì Santo del 1865, ben diecimila dei cristiani nascosti, in giapponese “kakure kirisitan”, sbucarono dai villaggi e si presentarono a Nagasaki ai missionari che da poco erano potuti rientrare nel Paese.
Non era un caso. I cristiani del silenzio si erano tutti più o meno stabiliti a Nagasaki o nei dintorni, e ben presto Nagasaki tornò ad essere la città più cattolica del Giappone, tanto che, prima della Seconda Guerra Mondiale, due cattolici giapponesi su tre vivevano nella città. Una comunità falcidiata dalla bomba atomica del 1945.
I cattolici in Giappone oggi sono 650 mila, molto rispettati per via delle comunità accademiche e delle loro istituzioni, come l’Università Sophia, dei gesuiti. E, in fondo, i gesuiti sono quelli che più di tutti hanno puntato sul Giappone, considerato un Paese a grande espansione missionaria, tanto che furono inviati in Giappone padre Adolfo Nicolas, poi generale dell’Ordine, l’altro storico generale dei gesuiti Pedro Arrupe, così come padre Giuseppe Pittau, che fu reggente della Compagnia di Gesù.
Tra i 188 martiri beatificati nel 2008, c’era il samurai Zaisho Shichiemon, battezzato il 22 luglio del 1608, che prese il nome di Leone in onore del Papa che fermò i barbari. Chiese il battesimo sapendo che poteva essere punito o ucciso, avvertito dallo stesso sacerdote che battezzava. Lui, però, non fece un passo indietro, né lo fece quando gli chiesero di abiurare: rifiutò e fu giustiziato a soli quattro mesi dal suo battesimo.
Il 9 dicembre 1603, Agnese Takeda assistette alla decapitazione di suo marito. Fu martirizzata nello stesso giorno, ma fece in tempo a suscitare commozione anche nei carnefici, perché raccolse la testa del marito e la strinse al petto.
Nel 1619, Tecla Hashimoto, incinta del suo quarto figlio, fu legata a una croce insieme alle figlie. Tutte furono bruciate vive.
E poi c’era padre Pietro Kibe, l’unico sacerdote del gruppo di beati. Esiliato a Macao nel 1614 come tutti i missionari stranieri in Giappone, nel 1618 lasciò Macao, arrivò a Goa, in India, e viaggiò a piedi attraverso Pakistan, Iran, Iraq e Giordania, visitò la Terra Santa, arrivò a Roma nel 1620, fu ordinato sacerdote e si preparò al ritorno in Giappone.
Vi rientrò in segreto, perché il Giappone aveva chiuso del tutto le frontiere. E visse in clandestinità predicando il Vangelo e i sacramenti, finché nel 1633 seppe che un missionario, padre Ferreira, aveva ceduto all’apostasia. Così lo andò ad incontrare, gli offrì di andare insieme ad autodenunciarsi, così che lui poteva ritrattare la sua apostasia e poi sarebbero morti insieme. Padre Ferreira rifiutò. Padre Kibe si spostò di nuovo e fu catturato nel 1639, e trascinato fino ad Edo, l’odierna Tokyo, dove fu giustiziato
Il nome di padre Ferreira è noto: è il gesuita apostata di cui parla “Silence”, il film di Martin Scorsese dedicato ai cristiani giapponesi del silenzio.
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