Città del Vaticano , 11 December, 2018 / 2:00 PM
C’è una provocazione, un filo rosso che collega l’incontro sui settanta anni della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo organizzato dalla Santa Sede alla Pontificia Università Gregoriana e la conferenza sul settantesimo della Dichiarazione organizzata alla Pontificia Università Lateranense: settanta anni dopo, si potrebbe cominciare a ragionare su come ripensare i diritti dell’uomo.
La provocazione arriva al termine della conferenza nella Pontificia Università Lateranense, su “Diritti Umani, Giustizia di Transizione e Attività degli Organi Multilaterali”, che vede la partecipazione dell’arcivescovo Ivan Jurkovic, Osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio ONU di Ginevra, e del professore John Vervaele, ordinario di diritto penale europeo presso l’università di Utrecht.
“C’era un comitato di sette persone, con un obiettivo comune – ha detto alla conclusione della conferenza il professor Vincenzo Buonomo, rettore della Pontificia Università Lateranense – e la domanda è se se sono ancora questi gli obiettivi della famiglia umana oggi. Bisognerebbe avere il coraggio di mettersi ad un tavolo, e considerare se sia ancora possibile andare avanti con una dichiarazione fatta da poche persone. Al tempo, i Paesi delle Nazioni Unite erano in 56, oggi sono in 195. È cambiato tutto. E ci vuole coraggio, perché modificare qualcosa che dà sicurezza è difficile. Parliamo della Dichiarazione dei Diritti Umani, sottolineiamo che non viene attuata, che i principi non sono condivisi. Ma è più facile tenerla lì che avere il coraggio di ripensarla”.
Le parole del professor Buonomo arrivano al termine di una giornata che la Santa Sede ha proprio dedicato all’anniversario della Dichiarazione che a Parigi definì per la prima volta, nel 1948, i diritti umani universali. Sono parole che si pongono in continuità con quelle del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, che ha lanciato una grande consultazione e dato i “compiti” a tutti i dicasteri vaticani per ripensare i diritti umani. E vanno nel solco di quelle di Papa Francesco, che ha definito i diritti umani come diritti da applicare soprattutto per gli invisibili.
Nel mezzo, c’è stata la relazione del professor Vervaele, che si è concentrato in particolare sulla Colombia, e poi quella dell’arcivescovo Jurkovic, che ha spiegato in che modo la Santa Sede lavora per difendere i diritti umani a Ginevra, luogo dove lui è accreditato presso 27 organizzazioni internazionali, e dove ci sono 21 mila diplomatici e 1400 riunioni annue di carattere diplomatico, che includono circa 200 mila delegati che vi partecipano ogni anno.
L’arcivescovo Jurkovic ha sottolineato che il sistema dei diritti umani è costituito dalle Convenzioni delle Nazioni Unite, sostenute da un periodico aggiornamento ufficiale, in modo che i diritti umani si affermino attraverso “soft law”, una legge non imposta e che però caratterizza tutte le obbligazioni delle Nazioni Unite.
L’organo plenario delle Nazioni Unite è l’assemblea generale, ed è stata questa che nel 2006 ha stabilito il Consiglio dei Diritti Umani. “Il lavoro al Consiglio è il 30 per cento di quello che facciamo a Ginevra – ha raccontato l’arcivescovo Jurkovic – e data la varietà di argomenti non ci permette di essere più attivi e più visibili all’interno di questo strumento più o meno efficace della difesa dei diritti umani”.
Tra le possibilità date dal Consiglio, quello di permettere a Ong e privati di presentare denuncia per gravi violazioni per diritti umani, una apertura molto importante – sottolinea il nunzio – perché così si esce da un sistema per cui gli Stati che finanziano il Consiglio possano anche decidere gli argomenti.
Il Consiglio può anche “adottare procedure speciali in caso di violazioni gravi del diritto che possono mettere a repentaglio la pace”, mentre gli Stati membri possono contestare le “raccomandazioni” del Consiglio, che può a sua volta considerare di cambiarle.
È un sistema che produce effetti positivi, sottolinea l’arcivescovo Jurkovic, tanto che tra gli attuali compiti del Consiglio dei Diritti Umani ci sono quelli di “promuovere l’educazione ai diritti umani”, ma anche di formulare raccomandazioni all’assemblea generale per la tutela dei diritti umani. Uno dei risultati è l’istituzione dell’Alto Commissario per i Diritti Umani, istituito nel 1993 subito dopo la conferenza di Vienna.
Si lavora in modo da non creare imposizioni sui diritti umani, ma cercando consenso e valutando il rispetto dei trattati in vigore. Gli atti non hanno valore giuridico, ma si tratta di un lavoro politico degli Stati, che cercano di non essere attaccati e giudicati. “Lo scorso settembre – ha spiegato l’arcivescovo Jurkovic - nel presentare al Consiglio dei Diritti Umani il rapporto periodo il relatore speciale ha detto che attività è lavorare con Stati membri che sono in procinto di avviare processi di giustizia transitoria, fornendo consigli tecnici ed aiutare Stati in tali processi di attuare operazioni nel rispetto del diritto internazionale, dei diritti umani, centrati su prospettiva pro persona, per costruire e rafforzare società solide e sostenibili”.
Ma cosa sono i diritti umani oggi? L’attuale concezione – dice l’arcivescovo Jurkovic – viene naturalmente da un processo “in cui si sono intrecciati fattori emotivi e ragioni politiche volte a determinare i diritti umani in un quadro normativo”. Pur presentando un carattere individuale, “i diritti si realizzano nella dimensione sociale e per molti di essi l’esercizio può avvenire mediante l’azione collettiva”, e “sono tra loro interdipendenti e indivisibili, non possono essere scelti”.
Eppure, l’automatismo valori – diritti sembra ignorato, e per questo, ha concluso l’arcivescovo Jurkovic, “se vogliamo rinvigorire i diritti umani salvaguardando il concetto dell’universalità al cuore della stessa dobbiamo abbandonare le interpretazioni ideologiche dei diritti, perché altrimenti si mette in campo un conflitto di antropologie. I diritti umani non erano intesi per essere interpretati secondo la situazione”.
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