Città del Vaticano , 09 July, 2015 / 3:44 PM
"Negli Stati dell’Unità e del Nilo Alto la popolazione sopporta atroci sofferenze. Abbiamo conosciuto la guerra in passato, ma la crudeltà che sperimentiamo oggi non ha eguali. È come vivere in un incubo".
Così raccontano alcuni rifugiati sud sudanesi – che per motivi di sicurezza preferiscono mantenere l’anonimato - ad Aiuto alla Chiesa che Soffre, durante la recente visita di una delegazione della fondazione pontificia nel più giovane stato al mondo.
A quattro anni dall’indipendenza – ottenuta 9 luglio 2011 in seguito ad un referendum popolare - il Sud Sudan affronta un terribile conflitto etnico che vede le forze governative del presidente Kiir, di etnia dinka, contrapporsi a quelle fedeli all'ex vicepresidente Machar, di etnia nuer. Lo scontro, che si protrae dal dicembre del 2013, ha costretto oltre 2 milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case. Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati sarebbero infatti più di 850mila i sud sudanesi rifugiati in Etiopia, Uganda, Sudan e Kenya e almeno un milione e mezzo gli sfollati interni.
Come riferito ad ACS da alcuni dei 20mila civili ospitati dalla base della missione ONU in Sud Sudan (UNMISS) di Malakal, l’arrivo nei campi di accoglienza non significa affatto la fine di un incubo. «Molte donne rifugiate che si erano allontanate per cercare cibo per i loro bambini sono state violentate e picchiate, mentre alcune di loro non sono mai tornate. È come essere prigionieri nel proprio paese: nell’unico posto al mondo in cui ci si dovrebbe sentire sicuri».
Anche all’interno dei campi profughi le violenze sono all’ordine del giorno e recentemente, proprio all’interno della missione di Malakal, un uomo è stato ucciso durante una sparatoria. «Uomini armati si sono appostati sugli alberi ed hanno aperto il fuoco cercando di colpire un’area del campo in cui vi erano molti profughi di etnia Shilluk».
Non è migliore la sorte dei circa 90mila sud sudanesi rifugiati in Sudan. Il governo di Omar al-Bashir non permette infatti alle Nazioni Unite l’accesso ai campi profughi, all’interno dei quali non è in alcun modo garantita la sicurezza. Sono numerosissimi i casi di stupri, furti e attacchi ai danni dei rifugiati che non hanno nessuna autorità cui chiedere giustizia.
Un’altra difficoltà è la mancata registrazione dei rifugiati. «Il Sudan non riconosce loro tale status – raccontano fonti locali ad ACS – perché non avendo mai accettato la secessione del Sud Sudan, continua a considerarli dei cittadini che hanno fatto ritorno a casa. Ovviamente senza concedere loro i diritti di cui godono tutti i sudanesi». L’assenza di una regolare iscrizione al registro dei profughi obbliga i sud sudanesi a lavorare illegalmente per una retribuzione irrisoria, mentre lo status di rifugiato garantirebbe loro protezione legale e la possibilità di ottenere un permesso di lavoro.
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