Roma, 05 November, 2016 / 3:00 PM
Nel giorno in cui si ricordano le vittime della Rivoluzione ungherese del 1956, l’Ambasciata di Ungheria presso la Santa Sede ha voluto anche benedire una targa dedicata al Cardinale Jozef Mindszenty, arcivescovo di Esztergom e primate di Ungheria, prima imprigionato dal regime comunista, poi costretto a vivere nei locali dell’ambasciata americana a Budapest fino a quando poté lasciare per sempre la sua patria.
E' stata una breve cerimonia che si è tenuta il 4 novembre nella Chiesa di Santo Stefano Rotondo a Roma, che dal XV secolo gli ungheresi considerano la loro chiesa nazionale. Eduard Habsburg-Lothringen, l’ambasciatore di Ungheria presso la Santa Sede, ha ringraziato quante, tra le nazioni, hanno accolto gli esuli ungheresi, e la figura del Cardinale Mindszenty è stata ricordata con commozione, e anche con una preghiera che mira a spingerne il processo di beatificazione già in atto.
Si è ricordato che una volta il Cardinale Mindszenty aveva detto che se 1 milione di ungheresi avessero pregato, lui sarebbe stato al sicuro. E si è messo in luce come, sessanta anni dopo il giogo comunista, l’Ungheria ha una Costituzione che cita Dio nel preambolo e che difende il cristianesimo e lo esalta come patrimonio culturale e formatore della coscienza nazionale.
Parole, queste, che avevano anche un vago riferimento alle polemiche lanciate contro il governo di Viktor Orban, “reo” agli occhi del mondo di una Costituzione troppo conservatrice e di un’applicazione del Trattato di Schengen che lo porta a controllare alla frontiera gli immigrati. Ma anche fautore – nel silenzio di molti – di un ufficio dedicato alla persecuzione dei cristiani nel mondo.
Sono tutti questi i temi che restano sullo sfondo della cerimonia. Si sono accese candele per celebrare le vittime della rivoluzione, e poi ci si è spostati in processione verso la targa, posta proprio all’ingresso della Chiesa. Il Cardinale Walter Brandmueller, presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, ha benedetto la targa, e si è letta la preghiera di beatificazione del Cardinale Mindszenty.
La cui storia è raccontata in una serie di pannelli proprio di fronte la lapide. E si scopre che sin dal 1918 il Cardinale – allora sacerdote – si era opposto alla rivoluzione comunista arrivata in Ungheria (fu arrestato nel 1919, in quanto sacerdote) e che la sua opposizione al nazismo – le “croci frecciate” erano chiamate nel Paese magiaro – fu durissima, fino a presentare nel 1944 una richiesta per il cessate il fuoco perché si chiudesse la guerra. Anche i nazisti lo imprigionarono tra il 1944 e il 1945.
Cardinale dal 1946, subì la persecuzione ad opera del regime sovietico che aveva preso il potere. Da arcivescovo di Esztergom e primate di Ungheria, Mindszenty era un simbolo da abbattere, perché rappresentava anche il collante tra Chiesa e società civile. Così il 26 dicembre 1948 fu arrestato, sottoposto a torture, picchiato per giorni, condannato all’ergastolo dopo un processo farsa e fu costretto a firmare l’accusa di aver cospirato contro il regime, ma pose dopo la firma la sigla C.F. (coactus feci, ovvero: "l’ho fatto perché costretto"). Dopo otto anni di prigionia durante i quali si ammalò di tubercolosi, il Cardinale fu liberato dall’insurrezione popolare, ma si rese conto che i carri armati sovietici avrebbero ristabilito il vecchio regime. Si rifugiò per questo nell’ambasciata USA di Budapest, e non poté partecipare ai conclavi del 1958 del 1963.
Il Cardinale Mindszenty fu uno dei principali oppositori della Ostpolitik, propiziata dall’allora monsignor Agostino Casaroli nel suo compito di “ministro degli Esteri” vaticano. Voleva che fosse chiaro che la Chiesa subiva una dura repressione e che non avrebbe accettato compromessi, e inviò una lettera di protesta indirizzata al Cardinale Jean Villot, segretario di Stato della Santa Sede, contro il metodo scelto per le nomine dei vescovi nei Paesi governati dai Paesi comunisti.
Nonostante le sue proteste, la politica della Ostpolitik continuò. Il 15 settembre del 1964 firmò a Budapest un accordo che fece da modello tra la Santa Sede e i regimi comunisti dell’Est. Uno dei prezzi di questo dialogo era il silenzio sulle Chiese perseguitate e sui loro persecutori. Il dilemma era resistere o trattare. Rimanere su posizioni ferme oppure accettare compromessi per fare passi avanti. Alla fine, si trattava di scegliere un ideale o portare avanti una realpolitik, con tutti i rischi che questa comporta.
Nel 1971, il Cardinale Mindszenty poté finalmente lasciare l’ambasciata USA, e andò a Roma per poi stabilirsi a Vienna. Seppure ottantenne, cominciò a girare il mondo per dare conforto alle comunità ungheresi.
Anche questa storia resta un po’ sullo sfondo della celebrazione promossa dall’ambasciata ungherese presso la Santa Sede. In tempi in cui alcuni osservatori notano una nuova Ostpolitik vaticana, con riferimento ai rapporti con la Cina ma anche ad altre scelte diplomatiche di approccio con Paesi tradizionalmente contro la libertà religiosa, celebrare una figura come quella del Cardinale Mindszenty rappresenta un segnale e una presa di posizione. E chissà che la preghiera pronunciata ieri per la beatificazione non porti ad un miracolo riconosciuto e quindi alla sua beatificazione.
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