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Superare le frontiere delle religioni? Si può con la carità, dice Benedetto XVI

Un momento della Conferenza Deus Caritas Est, Aula Nuova del Sinodo, 25 febbraio 2016

La Deus Caritas Est compie dieci anni, e mantiene intatta la sua attualità. Per due giorni, esponenti di tutte le religioni ne parlano in un convegno organizzato dal Pontificio Consiglio Cor Unum. E Benedetto XVI ha plaudito alla dimensione interreligiosa in una lettera a monsignor Pietro dal Toso, segretario del dicastero vaticano dediato alla carità. 

“Nel contesto della preparazione del nostro incontro – ha detto monsignor Dal Toso introducendo la conferenza - Papa Benedetto mi ha scritto. In particolare ha fatto riferimento al fatto che siano stati invitati rappresentanti di altre religioni con questa frase che ben riassume la natura della carità cristiana: ‘Il superamento delle frontiere tra le religioni è proprio la missione intima della carità, la cui essenza è quella di far sentire la bontà di Dio al di là di tutte le nostre frontiere’.”

La carità come agente interreligioso, ma anche la carità come agente in un mondo in dissoluzione, dove la verità è un concetto ormai non più di moda. Ne parla il professor Fabrice Hadjadj, filosofo francese di origine tunisina e di famiglia ebrea, convertito al cattolicesimo. Il suo intervento si intitola “Il messaggio cristiano della carità: quale contributo per l’uomo moderno?”

Ma in realtà, argomenta il filosofo, il problema sta proprio nel fatto che la modernità ormai non c’è più. “La modernità era ancora segnata dall’affermazione della verità, anche se si trattava di una verità ideologica e totalitaria, mentre la postmodernità è segnata innanzitutto dalla ricerca di soluzione tecniche e dal culto dell’emozione”, sottolinea il filosofo.

Non si combatte più con eresie della verità, ma con "eresie dell’amore”, ed è questa la nuova sfida della carità cristiana, ovvero di “confrontarsi a questa compassione tecnicista che è la sua parodia demoniaca”. Perché “di fronte a quest’ultima, la carità cristiana appare come una crudeltà. Laddove la compassione tecnicista intende strappare l’uomo dalla sua condizione umana, la carità ce lo vuole mantenere, affermando che è nella natura e perfino nella vocazione dell’uomo nascere, soffrire e morire, accettare il proprio corpo sessuato o perfino camminare sulla via della croce”. 

Sono le sfide del mondo post-moderno, che vuole andare oltre la natura. Nota Hadjidj che se “il progressismo moderno” era “pieno di ottimismo per un mondo migliore”, quello post-moderno è “gravato da un profondo pessimismo a riguardo dell’umanità”. Per il moderno “gli individui sono ancora mortali, nati da un padre e da una madre, capaci di sviluppare il loro senso di giustizia e bontà”. Certo, c’è già in nuce la crisi. Perché il principio è ideologico, non basato su un uomo e una donna “come dati dal creatore”, che tende a fare “tabula rasa del passato”. E così il post-moderno radicalizza la costruzione dell’umano, e lo porta a farne esplodere i limiti.

Ma andare oltre i limiti non è un concetto che nasce dal paganesimo, ma dalla carità cristiana, sottolinea Hadjidjj. Ma ora il mondo è capovolto. “Predicare la carità, un tempo, era predicare l’apertura all’infinito. Ma predicarla oggi deve essere predicare anche l’accettazione di una certa finitezza, o piuttosto l’accettazione della nostra finitezza”.

Ed è qui che si innesta il pensiero della carità, fortemente meditato da Benedetto XVI nella Deus Caritas Est. “Se amare qualcuno è prima di tutto ripetere la parola del creatore, allora nell’amore tutta la creazione si trova giustificata, dal Big Bang fino ai giorni nostri”, sottolinea Hadjidj. E Benedetto XVI chiosava nella Deus Caritas Est: “Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo”.

Per questo amore per l'uomo, per questa ragionevolezza, per questo realismo, la carità può abbattere le frontiere delle religioni. Chiosa Hadjidj: “La novità della carità sta in questo realismo inaudito, che ci insegna che lo spirituale non è in concorrenza con il carnale, che l’increato non fa esplodere il creato, e che diventare divini non consiste nel trasformarsi in un cyborg potentissimo, ma nel condurre la più umana della vite, la più umile. Per esempio, quella di un falegname ebreo che lavora con le sue mani, che parla senza microfono, che non realizza nessuna innovazione tecnologica, ma che investe le cose più ordinarie – la tavola del pranzo, il pane, il vino – di una presenza e una tenerezza sconvolgenti”.

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