La Habana, 12 February, 2016 / 6:00 PM
Il Patriarca Kirill è già arrivato all’Habana, e sarà in Sudamerica fino al 22 febbraio. Papa Francesco sta per atterrare, e sarà solo un passaggio veloce in aeroporto. La dichiarazione congiunta tra i due è pronta, ed è stata limata fino alla tarda notte di ieri, ha detto il metropolita Hilarion, che nella Chiesa Ortodossa di Mosca è a capo del Dipartimento delle Relazioni Estere. Ma cosa aspettarsi da questo incontro? Quale è realmente la posta in gioco?
Il comune obiettivo della cultura dell'incontro
Non si tratta, prima di tutto, di un incontro ecumenico. Nel dare l’annuncio, il metropolita Hilarion lo ha detto chiaramente, quasi a tranquillizzare quella frangia più tradizionalista nel mondo ortodosso che non solo non vede di buon occhio l’incontro con Roma, ma che ha persino chiesto negli anni Novanta all’allora patriarca Alexey II di ritirare il Patriarcato da tutti gli incontri ecumenici. Nessuna preghiera in comune, dunque, nessuna concelebrazione della divina liturgia.
Ad incontrarsi sono due personalità, Papa Francesco e Kirill, che hanno obiettivi affini. Papa Francesco è un fautore convinto della “cultura dell’incontro”, e – al di là delle divisioni – ritiene che un incontro con il patriarca russo faccia bene alla causa dell’unità, e permetta allo stesso tempo di parlare ad una sola voce su un tema comunemente sentito come la persecuzione dei cristiani. Kirill da tempo predica l’idea di un “ecumenismo pratico”, basato su temi comuni come la dottrina sociale e appunto la persecuzione dei cristiani.
Il dialogo nell’incontro personale non dovrebbe andare su temi dottrinali, ma nemmeno teologico-morali, dunque. Qualcosa di molto diverso da quello che sperava Benedetto XVI, che invece puntava a coinvolgere tutte le confessioni cristiane in temi di comune sentire e rara profondità, come appunto il relativismo morale e religioso e la necessità di un dialogo tra fede e ragione. Temi che avrebbero probabilmente messo la Chiesa Ortodossa in uno stato di subordinazione, non fosse altro per la profondità intellettuale di Benedetto XVI. È anche per questo motivo che due incontri previsti durante il pontificato di Benedetto XVI sono saltati all’ultimo momento. Ma ne saltò anche uno pronto con Giovanni Paolo II, in Austria nel 1997.
La questione ucraina
Anche Giovanni Paolo II puntava ad un ecumenismo reale. Da polacco, conosceva la storia della regione, sapeva come confrontarsi con il peso sovietico. Aveva avuto slanci di grande apertura, come la sua disponibilità a rivedere il primato papale lanciato già nell’enciclica Ut Unum Sint del 1995. Allo stesso tempo, voleva un dialogo franco, basato sulla verità. E la storia spesso è un ostacolo.
Lo è in particolare per la questione ucraina, il vero convitato di pietra di questo viaggio. Perché è l’Ucraina il terreno dove più di tutti il patriarcato ortodosso si è scontrato, battuto e ha attaccato la Chiesa cattolica. Il patriarcato di Mosca fu stabilito solo nel 1589, ma per lunghi periodi di storia fu cancellato: prima dagli zar dal 1700 al 1917, poi dai bolscevichi dal 1925 al 1943. Quando si ricostituì, era legato mani e piedi al governo di Mosca. E tutti i vescovi ortodossi dovevano in qualche modo “pagare pegno” al Kgb, giurando fedeltà. Anche il Patriarca Kirill è un ex colonnello del Kgb.
Ma lo stesso patriarcato di Mosca nasce come entità politica, prima che religiosa. Il Metropolita di Mosca – che era inizialmente sotto il Patriarcato di Costantinopoli – esiste solo dal 1448. E, per tradizione, il capo della Chiesa di tutta la Rus’, che includeva gli attuali territori di Ucraina, Bielorussia e Russia, era il Metropolita di Kiev in Ucraina. Quando poi il metropolita di Kiev Isidoro decise di prendere parte al Concilio di Firenze nel 1439, e lì supportò l’unione con Roma, allora Mosca decise di creare la posizione del metropolita di Mosca. Che tra l’altro il mondo ortodosso non riconobbe per diverso tempo.
C’è stato dunque un periodo in cui Kiev era fedele sia a Roma che a Costantinopoli. Con l’Unione di Brest del 1596, il metropolitano ortodosso Michael Rohoza e buona parte dei suoi vescovi confluirono sotto la Chiesa Cattolica Romana, mantenendo le loro tradizioni. Sono l’attuale Chiesa greco cattolica, ed è la più grande delle 22 Chiese di Rito Orientale nella Chiesa Cattolica Romana. Dall’unione di Brest viene il termine “uniati”, che sono ancora una ferita aperta per l’ortodossia russa.
Questa Chiesa mantenne una sua autonomia, e poi fu reintrodotta nella Chiesa Ortodossa Russa con lo pseudo-sinodo di Lviv nel 1946. Un sinodo che – ha denunciato in un lungo saggio Andriy Chirovsky, direttore della rivista Logos – “fu orchestrato dalla polizia segreta su ordine di Stalin, con la complicità diretta del Patriarcato di Mosca”. La situazione tornò alla normalità nel 1989, e la Chiesa Greco-Cattolica poté risorgere.
Verso una riconciliazione?
Ma ora la questione “uniate” è una ferita ancora più aperta per via del conflitto in Ucraina. Perché la Chiesa greco-cattolica è stata attiva e presente sul territorio e con la popolazione, e la Russia vede la sua influenza decrescere sulla regione. Tanto che Hilarion attaccò pubblicamente la Chiesa Greco-Cattolica per una sorta di supposto interventismo durante il Sinodo 2014. E nemmeno gli sforzi ecumenici della Chiesa Greco-Cattolica sono apprezzati.
Con un documento sulla “Concezione della posizione ecumenica della Chiesa greco-cattolica ucraina”, la Chiesa Greco-Cattolica ha dato anche la disponibilità a impegnarsi in un processo di riconciliazione.
Si legge nel documento: “Tenendo presente che la distanza di tempo che ci divide dai conflitti storici non è ancora sufficiente per superarli facilmente, e prendendo in considerazione il fatto che una certa parte di tali conflitti continua a divampare fino ad oggi, la Chiesa greco-cattolica ucraina ha intenzione di attenersi alla ‘tattica dei piccoli passi’, tramite la quale è possibile accumulare gradualmente il capitale della fiducia e della cooperazione”.
A questo documento, la Chiesa ortodossa russa ha risposto il 28 gennaio, con una dichiarazione dalle parole fortissime che metteva in serio dubbio la ricostruzione storica del documento greco-cattolico e in pratica diceva che non c’era spazio per alcun tipo di dialogo, anche perché la Chiesa greco-cattolica partecipa ai tavoli con gli “scismatici”, ovvero con le chiese ortodosse autocefale presenti in Ucraina che non sono sotto la giurisdizione di Mosca.
Cosa farà il Papa per i greco-cattolici in Ucraina? Fino ad oggi, Papa Francesco ha mantenuto un atteggiamento interlocutorio, e in un Angelus ha persino derubricato il conflitto come “fratricida”. Parola che non è piaciuta ai greco-cattolici, che invece denunciano l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina – e tra l’altro la Russia ha di fatto annesso la Crimea.
La questione russa
La politica estera russa è un altro convitato di pietra di questo incontro. La Russia si è dimostrata grande alleato di Papa Francesco nel conflitto siriano. Si è impegnata, nel 2013, ad evitare quell’intervento della NATO che Papa Francesco voleva scongiurare attraverso la giornata di digiuno e di preghiera per la Siria. A novembre del 2013, poi, il presidente Vladimir Putin è andato in visita a Papa Francesco, e vi è tornato nel 2015. I raid in Siria hanno isolato la Russia nella comunità internazionale, le operazioni nel Donbass e in Crimea l’hanno messa ai margini del progetto europeo. Ora che la Chiesa ortodossa russa può mostrarsi a fianco di Francesco, anche l’immagine della politica estera russa può trarne beneficio.
Perché, in fondo, Patriarcato di Mosca e governo sono legati a doppio filo. Lo stesso Vladimir Putin, uno dei 2 milioni soldati dell’Armata Rossa rimandati a casa con la fine della Guerra Fredda, ha trovato conforto nella religione, si è trovato un padre spirituale, ha avviato un percorso di conversione. Il Patriarca Kirill ha seguito questo percorso di conversione, conosceva Putin dai tempi del Kgb, e si è mostrato a fianco a lui in più di una circostanza. Non è un segreto che il patriarcato ortodosso funga un po’ da “ministero degli Esteri ombra” di Putin.
Il quale ha sicuramente dato la luce verde all’incontro. Che tra l’altro avviene a Cuba, una delle ultime roccaforti comuniste, dove gli ortodossi tradizionalmente hanno avuto più influenza dei cattolici (che pure sono maggiori in numero) proprio per la vicinanza con l’Unione Sovietica.
Secondo alcuni osservatori, Kirill starebbe cercando di staccarsi dall’ombra di Putin, per diventare un leader globale riconosciuto e senza alcuna connotazione politico-territoriale. Per questo motivo, Kirill non avrebbe partecipato alla riunione in cui Putin annunciò a tutti, anche ai rappresentanti religiosi, che “la Crimea è nostra”: per mostrare un disaccordo con la politica espansionista di Putin.
Ma è anche vero che, con l’incontro, Kirill non fa un favore solo a se stesso, ma anche all’amministrazione russa, dando slancio all’intenzione di Putin di farsi promuovere come “difensore dei cristiani del Medioriente”.
Quali risultati per il dialogo ecumenico?
(La storia continua sotto)
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Cosa che potrebbe succedere, con una dichiarazione solo tesa a risaltare i temi del genocidio dei cristiani. Fatto sta che il dialogo ecumenico è fermo da anni, a livello teologico. La dichiarazione di Balaband del 1993 fu un compromesso che non piacque fino in fondo né ai cattolici né agli ortodossi: metteva fine alla questione degli “uniati” sottolineando che le chiese uniate dovessero continuare ad esistere, ma definiva anche la questione come “superata” e “incompatibile con l’ecumenismo”. La commissione mista cattolico-ortodossa si riunì poi a Ravenna nel 2007, per discutere del primato a partire dalle testimonianze antiche. Mosca non vi partecipò. Ufficialmente polemizzava con la scelta di invitare la Chiesa autocefala d’Estonia. In realtà, non voleva discutere del primato in quei termini, perché – andando indietro di mille anni – non esisteva patriarcato russo, e anche Mosca non aveva peso.
Si decise che il vescovo di Roma presiedeva nella carità le altre Chiese, secondo la definizione di Ignazio di Antiochia. Ma come questo primato dovesse esercitarsi, era tutto da vedere. E non sarà certo interesse di questo incontro definirlo.
Un nuovo inizio?
Promosso da Raul Castro, l’incontro ha luogo in America, nel nuovo mondo, quasi a marcare un taglio netto con il passato. Esattamente quello che spera il Patriarca Ortodosso, che ai conti della storia si troverebbe probabilmente in una situazione difficile. Forte della grandezza territoriale della Russia, che gli garantisce la metà dei fedeli dell’ortodossia mondiali, ora si appresta con Papa Francesco a iniziare un nuovo capitolo. Ne beneficerà la Russia. Forse i cristiani in Medioriente. Per ora, però, non ci sono all’orizzonte segnali che possa portare davvero all’unità.
Si tratta di un incontro importante. Ma si inserisce nella quantità di incontri ecumenici con vari patriarchi ortodossi che i Papi hanno dai tempi di Paolo VI. Il quale aprì la strada incontrando Atenagora a Gerusalemme e poi revocando reciprocamente con lui gli anatemi scagliati con lo scisma. Fu un evento di una portata prorompente, i cui frutti si contano ancora oggi. Solo Mosca non aveva incontrato ancora il Papa. Lo fa adesso, alla vigilia del Grande e Santo Concilio Pan-Ortodosso. Un Concilio che Costantinopoli ha voluto e organizzato. E al quale Costantinopoli arriva con il primato morale di essere patriarcato ecumenico e di essere il patriarcato che più di tutti ha un dialogo con Roma. Dopo Cuba, Kirill avrà una freccia in più al proprio arco. E lo farà grazie ad un incontro che cade di 12 febbraio, giorno in cui la Chiesa ortodossa celebra "La fine delle dispute".
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