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Un servizio di EWTN News

Chi sono e cosa fanno i gesuiti in Belgio

Un ritratto di padre Johan Verschueren, sj

Andando a Bruxelles, Papa Francesco non va solo nella “capitale dell’Europa”. Va nell’unica città al mondo in cui si trovano tre direzioni dei gesuiti. Una città dai tre volti – quello francofono, quello di lingua neerlandese, quello europeo – dove i gesuiti lavorano su più fronti, anche facendo lobbying nelle istituzioni europee.

In vista di conoscere i temi dello scambio che Papa Francesco avrà con i suoi confratelli il 28 settembre, parliamo delle attività in Belgio con padre Johan Verschueren, sj. Dal 2020 è delegato per le Case Interprovinciali e le Opere della Società di Gesù a Roma. Ma prima era superiore della Regione dei Paesi Bassi. Belga, è entrato nella Società di Gesù nel 1985, a 25 anni, ed è sacerdote dal 1995.

Quali sono le attività dei Gesuiti in Belgio?

Il Belgio è un Paese particolare. Consiste di due parti culturali e linguistiche differenti, e una città centrale, Bruxelles, che è anch’essa una particolarità, sia dal punto di vista giuridico che legale. I Gesuiti si sono adattati a questa realtà culturale. Per questo, ci sono tre grandi gruppi di gesuiti in Belgio.

I belgi fiamminghi sono organizzati insieme ai gesuiti di Olanda in una entità strutturale chiamata “European Low Countries”, Paesi bassi, che anticamente era il nome dato a tutti i territori che oggi comprendono Belgio, Olanda e Lussemburgo.

I belgi francofoni sono parte di una provincia gesuita che si è fusa con i francesi e i lussemburghesi, e sono parte di una struttura chiamata Europe Occidentale Francophone.

Quindi, c’è una struttura a Bruxelles, che è l’ufficio del presidente dei gesuiti europei. In questa presidenza c’è il presidente, il suo staff e una concentrazione di gesuiti che sono molto vicini alle istituzioni politiche ed amministrative europee, che forniscono una assistenza pastorale alla Chapelle Europeenne (Cappella d’Europa) e che gestiscono anche una scuola europea di per educazione secondaria bambini.

Questa presidenza è responsabile di tutto il coordinamento europeo.

A Bruxelles c’è anche una delle sedi del Jesuit Refugee Service, una opera di livello mondiale.

In che modo queste tre province si trovano ad affrontare le sfide di oggi?

Le sfide sono somiglianti. Le differenze riguardano piuttosto la lingua e la cultura. Nel formare la Chiesa, si deve tenere conto che ogni cultura ha i suoi modi di fare, la sua sensibilità, le sue sfumature. La lingua è un discrimine essenziale, perché i francofoni non parlano bene il neerlandse, e i neerlandofoni quasi non conoscono il francese.

Quanti sono i gesuiti in Belgio?

Ci sono circa 200 gesuiti in tutto il Belgio. All’incontro con Papa Francesco saranno forse 150. I gesuiti sono presenti ad Anversa, a Gand, a Bruxelles, e ovviamente a Leuven. Questi gesuiti collaborano molto con la Università Cattolica di Leuven. Ci sono gesuiti che studiano nell’università e vengono da Paesi diversi.

Di cosa crede si parlerà durante l’incontro tra Papa Francesco e i gesuiti?

Credo che i gesuiti in Belgio siano stati molto colpiti, così come l’opinione pubblica, del tema degli abusi sessuali. Quello sarà senza dubbio un argomento di conversazione. Infatti, è anche previsto che Papa Francesco, in un momento del viaggio, incontrerà 15 vittime di abusi sessuali.

Inoltre, i gesuiti della Regione dei Paesi Bassi sono molto coinvolti nel lavoro per i carcerati, e forniscono in particolare i carcerati perché sono rifugiati. Sono persone messe in carcere perché entrati illegalmente, ma non sono criminali. Siamo così molto vicini a donne, uomini e bambini che si trovano in questa condizione, e miei confratelli e tanti collaboratori saranno particolarmente contenti se il Papa sottolineerà l’importanza del loro lavoro.

C’è bisogno di un incoraggiamento in Belgio?

Lo aspettano. È difficile per un cattolico vivere in un Paese non solo ateo, ma persino agnostico. C’è bisogno di una parola del Papa, di fronte ad una società multiculturale e multireligiosa, ma che si regge ancora su un sistema di scuole e strutture che appartengono alla Chiesa cattolica.

Il Belgio vive una neutralizzazione della religione a scuola, con tentativi sempre più invasivi di sostituire l’insegnamento della religione con i cosiddetti cours de rien, corsi di niente che sono formalmente corsi di educazione civica. Come affrontare questa sfida?

C’è una pressione, ma sarà difficile che questa neutralizzazione sia completamente formalizzata. La struttura attuale del sistema scolastico è legato alla Costituzione del Paese. Questa dà il diritto di organizzare l’educazione come persone, come organizzazioni, come associazioni, e ognuno può farlo a suo modo. L’educazione in Belgio è comunque pagata dallo Stato, che dà dei requisiti minimi. Lo stato vorrebbe allargare questi requisiti.

C’è da aspettarsi una resistenza della Chiesa a questa neutralizzazione della religione?  

La secolarizzazione è una realtà, e si misura nella quantità di persone che assistono alle messe domenicali. Il Belgio va visto come un paese in cui i cristiani sono minoranza. Ma è anche una situazione particolare, come abbiamo detto all’inizio.

Perché particolare?

Perché c’è una realtà che non corrisponde alla quantità di cattolici. Le opere sono numerose, dalle scuole alla presenza negli ospedali, e sono opere ereditate dal passato. Ma questo non corrisponde alla quantità dei cattolici. Una delle grandi sfide è quella di mantenere l’identità cattolica delle istituzioni anche quando una gran parte dei collaboratori non sono cattolici praticanti. Magari seguono i valori del Vangelo, ma non pregano, non vanno a Messa… aspettarselo sarebbe forse chiedere troppo.

(La storia continua sotto)

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Si riuscirà dunque a toccare l’educazione religiosa?

Lo Stato avrà difficoltà a toccare i diritti costituzionali acquisiti. Il Belgio è stato fondato da un accordo tra la Chiesa cattolica e i liberali di quel tempo, all’inizio del XIX secolo. Queste due forze si allearono contro i calvinisti olandesi. Si tratta di un accordo politico tra due estremi che fronteggiavano un “nemico”, se così si può dire, comune. Da questo accordo nasce la vocazione del Belgio a vivere con gli estremi cercando sempre compromessi. Il Belgio, in fondo, è il Paese dei compromessi.

E quali sono i compromessi oggi?

In questo momento, siamo pochi, ma abbiamo molte istituzioni. Lo Stato paga tutto il sistema sanitario e l’educazione, e questo crea una tensione. Ma sia fiamminghi che francofoni preferiscono trovare una soluzione a questa tensione.

Una tensione che nasce dal fatto di avere due Stati all’interno di uno?

Piuttosto, è uno Stato composto da due nazioni.

Qual è la situazione delle vocazioni in Belgio?

Il Belgio rispecchia la situazione della Chiesa: ci sono poche vocazioni, sia di sacerdoti diocesani che di religiosi. Ma c’è un fiorire di nuclei vivi di vita cattolica. Le persone che vogliono vivere la loro fede, famiglie o individui, si organizzano più e più tra loro, e poi si legano ad una parrocchia dove il parroco ne capisca la vocazione e aiuti a costruire le comunità. Questo fa sì che ci sono chiese con una grande partecipazione alla Messa domenicale a fronte di chiese dove la partecipazione è pressoché minima.

Quindi, l’apertura dei parroci fa la differenza?

C’è anche la questione degli immigrati stranieri. Alcuni anche provengono anche da Paesi di culture cristiane, formano i loro gruppi, hanno le loro comunità cattoliche. I vescovi cercano di unirli, mostrano la diversità culturale, vogliano vivere la diversità come ricchezza. È comunque una situazione complessa.

La Chiesa è a rischio?

La Chiesa non morirà, questo è ovvio. Ma la situazione è volatile. I laici prendono sempre più incarichi, sono loro che salvano le istituzioni. La Chiesa in Belgio dipende grandemente dai laici. Viviamo davvero il tempo dei laici.

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