Città del Vaticano , 06 August, 2024 / 2:00 PM
Benedetto XV fu eletto Papa il 31 agosto del 1914, ed era già un mese che quasi tutta l’Europa era in guerra. Dal 28 luglio al 25 agosto di quell’anno si erano succedute le dichiarazioni di guerra che posero nel conflitto Germania, Russia, Austria Ungheria, Serbia, Montenegro, Giappone. Quando si entrò in Conclave, c’erano anche berrette rosse dei Paesi belligeranti, mentre l’Italia aveva al tempo una posizione neutrale sul conflitto, che dunque aveva anche un peso sui candidati. L’intuizione di chiamare al soglio pontificio l’arcivescovo di Bologna, Giacomo dalla Chiesa, un esperto diplomatico, ebbe il suo perché, e fu studiata a lungo dai diplomatici di quegli anni.
Ne parla, in un saggio molto documentato, Anna Volod’ko. Il saggio, intitolato “L’attività di pace di Benedetto XV. Testimonianze dei diplomatici”, si trova nel volume “Diplomazia, Religione, Nazioni. La missione di pace delle Chiese Cristiane nel XX secolo”, curato da Matteo Luigi Napolitano ed edito dalla Libreria Editrice Vaticana.
Il pensiero dei diplomatici su Benedetto XV, il modo in cui leggevano le sue scelte, è uno squarcio interessante anche riguardo la posizione della Santa Sede, necessariamente neutrale perché ci si trovava di fronte ad una guerra tra Paesi cristiani, e dunque spesso manipolata, interpretata come un favore a questo o quell’altro belligerante.
La scelta di Giacomo dalla Chiesa fu comunque vista come un segnale di equilibrio. Nikolaj Ivanovic von Bock ha scritto nelle sue memorie che “la scelta di Benedetto XV ha mostrato chiaramente che i cardinali hanno voluto che in questo tempo di estreme difficoltà, tra le tempeste e gli uragani della guerra, il bastione di San Pietro fosse affidato a un timoniere che avesse, oltre alle altre qualità, le virtù di un politico saggio ed abile”.
Ed era certamente il caso di dalla Chiesa, diplomatico formatosi ala scuola di Mariano Rampolla del Tindaro, che può essere considerato l’architetto della politica estera di Leone XIII. Purtroppo, il suo pontificato fu breve, si svolse solo durante il primo conflitto mondiale e il primo dopoguerra, e questo lascia aperta la domanda su cosa sarebbe stato il pontificato se fosse durato più a lungo.
Benedetto XV mosse subito tutti i passi diplomatici necessari per porre fine al conflitto. Una prima lettera ai monarchi degli Stati in guerra, l’esortazione apostolica Ubi Primum, non ebbe seguito, perché gli Stati speravano in una rapida vittoria e non ne volevano sapere di far tacere le armi.
Quindi, scrisse l’enciclica programmatica Ad Beatissimi Apostolorum, in cui il tema della guerra era centrale, e si concludeva con un appello accorato per la pace che rimase senza risposta. Insomma, scrive Volod’na, “tutti i tentativi di Benedetto per arrivare alla cessazione degli scontri si conclusero con un nulla di fatto”, parzialmente proprio a causa della posizione di neutralismo della Santa Sede.
Sempre van Bock scrive: “Durante la guerra, molti alleati accusavano Papa Benedetto XV di germanofilia. Nello stesso tempo, specularmente, i tedeschi rimproverano il Papa di francofilia. Sembrava che queste due accuse si sarebbero annullate a vicenda. Ascoltali la critica di germanofilia da P.N Miljukov nel maggio 1916, e da S.D. Sazonov nel 1919”. Ma lo stesso Sazonov, nelle sue memorie, disse “per coscienza” di ritenere poi infondata la sua posizione.
Gli appelli per la pace di Benedetto XV furono innumerevoli: la richiesta della “tregua di Natale”, che spontaneamente prese piede in alcune aree del fronte nel 1914 e che fu poi scoraggiata da tutti le parti in conflitto, l’esortazione apostolica del 1915 Allorché fummo chiamati, l’esortazione apostolica Dés le Debut del 1917, la lettera ai “capi dei popoli belligeranti” che fu la più grande iniziativa di pace del pontefice, in cui esponeva le proposte di pace della Santa Sede, chiedendo anche la restituzione dei territori occupati e la risoluzione delle dispute territoriali in maniera conciliante.
Un piano forse idealistico, una pace “senza vincitori”, che però era l’unica alternativa al proseguimento del conflitto, e che – e questo è un dato interessante – si ritrova come concetto anche nelle dichiarazioni del governo provvisorio russo del 27 marzo 1917, nel Decreto bolscevico sulla pace e negli appelli a fermare la guerra di numerosi esponenti della cultura.
Ma come fu accolta questa proposta dai diplomatici? Volod’na cita la testimonianza del diplomatico italiano Aldrovandi Marescotti che sottolinea che il governo italiano aveva accolto negativamente l’intervento del Papa.
Un telegramma inviato dal ministro degli Esteri del governo Provvisorio Russo Terešenko alle ambasciate russe di Parigi, Londra, Roma e Washington permette di comprendere come l’iniziativa del Papa fosse stata vista da Mosca e dintorni.
In particolare, veniva lamentata l’assenza delle istanze russe dalla lettera, il fatto che si parli di evacuazione dei territori sul fronte occidentale, ma non sul fronte orientale, e si chiedeva la possibilità di una risposta singola alla proposta del Papa da ogni Stato parte dell’Alleanza.
Londra ebbe una iniziale reazione positiva.
Gli Stati Uniti, invece, diedero un parere molto negativo in una risposta ufficiale inviata alla Santa Sede il 27 agosto 1917, siglata dal Segretario di Stato USA Robert Lansing, ma probabilmente approvata e redatta in prima persona dal presidente Woodrow Wilson.
Questi, pur apprezzando la buona fede del Papa, sottolineava che “non era possibile fidarsi di accordi stipulati con il governo tedesco”. Negli Stati Uniti c’era l’idea che la nota fosse stata dettata dagli interessi di Germania e Austria – Ungheria. Ma nella risposta negativa potrebbe esserci anche una sfumatura più personale, ovvero il fatto, spiega lo studioso Patrick Houlihan, che Wilson “era diventato il principale araldo di un nuovo ordine morale mondiale” e non voleva che il pontefice “sfidasse la sua leadership in questo campo”.
Il Papa alla fine non poté partecipare alle trattative di pace, e il Vaticano giudicò negativamente gli accordi di Versailles, ritenendo che le condizioni economiche imposte dagli alleati alla Germania fossero troppo dure.
Benedetto XV affiancava a questo sforzo diplomatico uno sforzo umanitario. Si avviò una collaborazione pratica con la Croce Rossa Internazionale, si lavorò molto per il miglioramento della condizione dei bambini e quella dei prigionieri di guerra – con lo stabilimento di un Ufficio Informazioni per la ricerca dei prigionieri di guerra – e poi anche il lavoro in favore dei rifugiati armeni, di cui il Papa si occupò in prima persona.
E la Russia sovietica? Volod’na nota che il Papa era “un fermo avversario del socialismo, ma allo stesso tempo neppure approvava una crociata anti-bolscevica e neppure la creazione di un cordone sanitario intorno alla Russia”, tanto che inviò subito dopo la rivoluzione il Cardinale Achille Ratti (poi Papa Pio XI) come visitatore apostolico per avviare contati con il governo provvisorio e aiutare la famiglia zarista.
In particolare, la Santa Sede impegnò Eugenio Pacelli (futuro Pio XII) nelle trattative per liberare la famiglia zarista, ma senza successo.
(2 – continua)
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