Città del Vaticano , 04 September, 2023 / 2:00 PM
Quello che resta più impresso del viaggio del Papa in Mongolia è forse il momento in cui entra nella ger di Tsetsege, la donna che ha trovato una piccola statua della Madonna in una discarica. In quel gesto, c’era molto della storia del viaggio: una casa portatile, segno del nomadismo di un popolo, portata proprio nel cortile della Chiesa, dove il Papa ha potuto toccare con mano cosa è la vita nella ger; una Vergine che appare all’improvviso là dove non ce la si aspetterebbe, e non tanto perché sta in una discarica, ma perché quella discarica è in un posto dove ci sono pochissimi cattolici; e una Chiesa che capisce l’importanza simbolica di tutto questo, e porta quella statua nella sua cattedrale.
Con la sua presenza, Tsetsege rappresentava in qualche modo tutto il popolo mongolo.Quella mongola è una storia che si misura in millenni. Nell’antichità, era l’impero con la maggiore estensione territoriale del mondo, ma riuscì a vivere la cosiddetta Pax Mongolica grazie anche alla tolleranza dei Khan, che si circondavano di dotti ed erano tolleranti sulle religioni. Fu così che arrivarono i missionari, prima i nestoriani nel VII secolo, e poi le missioni diplomatiche cattoliche, con Fra’ Giovanni Pian del Carpine che arrivò con una lettera di Innocenzo IV alla corte dell’imperatore 777 anni fa, e riportò al Papa la risposta di Gublay Khan.
L’ultimo incontro di Papa Francesco è stato per inaugurare la Casa della Misericordia, e incontrare gli operatori della carità. Il Papa ha detto che la Chiesa che è in Mongolia vive come la Chiesa degli apostoli, in “comunione, liturgia, servizio e testimonianza”, come proprio le quattro colonne della grande ger.
Il Papa ha lodato il lavoro dei missionari arrivati negli Anni Novanta, ha notato la straordinaria quantità di progetti messi in campo, ha sottolineato che “la Casa della Misericordia si propone come punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita”.
Papa Francesco ha lodato anche il nome scelto, “Casa della misericordia”, che è per lui “la definizione della Chiesa”, e che deve nutrirsi di volontariato, che può sembrare “una scommessa perdente”, ma che in un Paese pieno di giovani “dedicarsi al volontariato può essere una via di crescita personale e sociale decisiva”. Anche perché anche gli stati più tecnologici e avanzati non coprono tutto con la previdenza sociale.
Per il Papa, “il vero progresso delle nazioni, infatti, non si misura sulla ricchezza economica e tanto meno su quanto investono nell’illusoria potenza degli armamenti, ma sulla capacità di provvedere alla salute, all’educazione e alla crescita integrale della gente”.
E sì, si può fare del bene con poco, e no, la Chiesa non fa tutto questo per proselitismo, tanto che al Papa “piace immaginare questa Casa della Misericordia come il luogo dove persone di “credo” diversi, e anche non credenti, uniscono i propri sforzi a quelli dei cattolici locali per soccorrere con compassione tanti fratelli e sorelle in umanità”.
Il Papa lascia la Mongolia, dunque, chiedendo gratuità e dono di sé. Ma quali sono stati i messaggi del Papa alla Mongolia? Probabilmente ispirato dai missionari, entrati in punta di piedi trenta anni fa in un Paese che era da ricostruire dopo i 70 anni di socialismo, Papa Francesco ha ricordato incessantemente la loro cultura e storia, utilizzando spesso l’immagine della ger, di questa casa mobile che viene considerata ormai solo la casa dei poveri. Ma non lo è, spiega padre Ernesto Viscardi, da più di venti anni missionario in Mongolia, perché alla fine “la ger è un modo di vivere, e molti vivono lì arrivando da fuori solo perché non possono ancora permettersi una casa nella capitale. Ma vivono nella ger anche laureati, insegnanti, persone colte. Qui c’è una povertà diversa”.
La ger, dunque, è una forma culturale da cui non si può prescindere. Ma poi c’è anche il ruolo particolare della Mongolia nello scacchiere internazionale. Prima, da secondo stato socialista del mondo, era rimasta legata all’Unione Sovietica. Ora, è la Cina che fa pressione sul Paese, mentre le miniere di molibdeno, carbone, oro e rame hanno portato lavoro, benessere e anche consumismo. Il Papa ha donato la copia autenticata della lettera di Gublay Khan a Innocenzo IV, ed era un modo indiretto di dire al popolo mongolo: voi siete questa storia, e noi (la Santa Sede) condividiamo con voi le vostre preoccupazioni, la necessità di mantenere le tradizioni, ma anche la vostra posizione internazionale improntata sul multilateralismo, sulla non proliferazione nucleare, sulla ricerca di pace.
Insomma, la Santa Sede sta con la Mongolia in ambito internazionale, la aiuterà a difendere la sua identità contro ogni colonialismo ideologico.
Ma il messaggio più importante è arrivato ai sacerdoti, missionari, vescovi. A loro ha detto di continuare ad andare avanti con la loro missione, e di non preoccuparsi dell’esiguità del loro numero. Ha chiesto, sì, ai sacerdoti di non prendere posizioni politiche né ideologiche, ma poi ha sottolineato che la Chiesa non può non parlare se ci sono ingiustizie – ed è, in fondo, una dichiarazione molto politica.
Quindi, c’è la questione del dialogo ecumenico e interreligioso, che tocca anche temi diplomatici non di poco conto. Il buddhismo praticato maggioritariamente in Mongolia è quello tibetano, sul quale la Cina vuole esercitare un controllo, anche per la questione delle reincarnazioni. L’incontro ecumenico ha però avuto un profilo più moderato, includendo tutte le religioni presenti in Mongolia, lasciando parlare tutti. Il Papa ha fatto poi un discorso in cui, alla fine, c’erano citazioni di Ghandi, di uno scritto buddhista, persino di Feuerbach, in un tentativo di mettere insieme tutti i temi. Ma ha anche detto che le religioni non possono stare zitte di fronte alle ingiustizie, e che in questo momento storico sono chiamate ad essere religioni di pace, insieme.
Ha colpito, quindi, la Messa, quando in migliaia sono arrivati da tutta l’Asia Centrale per accogliere Papa Francesco. Non c’erano solo i cattolici di Mongolia, che tutti insieme starebbero tranquillamente all’interno della Basilica di San Pietro, ma c’erano cattolici provenienti da Hong Kong (40 insieme al e vescovo e cardinale preconizzato Chow), dal Kazakhstan, dall’Uzbekistan, dalla Russia, dalla Corea del Sud. “C’è bisogno di comprendere questa volontà di vedere il Papa – ha detto il vescovo José Mumbiela, presidente della Conferenza Episcopale dell’Asia Centrale – perché testimonia come questi luoghi, dove i cristiani sono minoranza, si sentono comunque parte di una Chiesa universale”. La stessa riflessione è venuta dal Cardinale John Tong Hon, vescovo emerito di Hong Kong, che ha anche sottolineato come questo viaggio testimonia “che la Chiesa è anche in Asia”, e anzi in Asia c’è una crescita, sebbene non così veloce come quella africana.
Sono temi che si intrecciano, e che hanno un peso, ma che poi dovranno svilupparsi nella Chiesa locale, e dovranno essere compresi dalle autorità.
C’è molto rispetto, nel Paese, per la Chiesa cattolica, e questo rispetto è sicuramente cresciuto nel momento in cui in Mongolia ci si è resi conto che l’arrivo del Papa avrebbe portato un numero incredibile di giornalisti, fatto spostare diversi vescovi e ben tre cardinali, e persino suscitato l’interesse degli ambasciatori non residenti ad Ulaanbatar, arrivati appositamente per ascoltare il discorso del pontefice. L’ambasciatore di Argentina in Cina, poi, è venuto anche per incontrare il Papa, e chissà quale sarà stato il tema del colloquio, considerando poi il saluto che il Papa ha tributato alla Cina salutando pubblicamente il cardinale John Tong Hon e il vescovo Chow, emerito e titolare di Hong Kong.
Dal momento in cui si è compresa la portata internazionale della visita papale, i giornali locali si sono riempiti di notizie sul “Papa di Roma”, e la tv locale ha persino fatto un servizio di 15 minuti per spiegare la vita del Papa. Una traduzione della Fratelli Tutti in lingua mongola è stata prodotta e distribuita a diplomatici e autorità intervenute con il Papa.
È un tipo di credibilità che non serve solo per i negoziati (ancora in alto mare) dell’accordo tra Mongolia e Santa Sede, che serviranno a dare una personalità giuridica alla Chiesa cattolica e a regolare alcune attività che si fanno sul territorio. Serve anche alla Chiesa per mostrare il suo volto.
Un volto fatto di misericordia e compassione, sin dal ritorno nel Paese nel 1992, dopo il crollo del sistema sovietico. La presenza dei missionari era stata richiesta dal governo. Le relazioni diplomatiche erano state aperte su richiesta della Mongolia. Insomma, il ruolo della Chiesa ha un valore per lo Stato mongolo. Eppure, resiste ancora, in qualche caso, una sacca burocratica, che rende difficile ogni attività.
Non si sa se tutto cambierà. Si sa che la Chiesa in Mongolia farà tesoro di questa visita.
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