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Un servizio di EWTN News

Verso il Papa in Mongolia, uno Stato che si è ricostruito

L'arcivescovo Gallagher con il ministro degli Esteri Mongolo Batmunkh Battsetseg

Quando l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, è andato in Mongolia lo scorso giugno, ha lavorato anche per definire un “accordo” tra Santa Sede e Mongolia, quello che un tempo si chiamava concordato, e che serve per meglio definire la realtà giuridica della Chiesa in Mongolia. La speranza era di concludere i negoziati in tempo per il viaggio di Papa Francesco nel Paese, in modo da firmarlo in occasione del viaggio. Non si sa se questo avverrà, e probabilmente ci dovrebbe volere un po’ di più. Di fatto, però, è un passo avanti fondamentale nelle relazioni diplomatiche.

Relazioni che durano da 30 anni, e che sono iniziate in maniera inusuale: fu la Mongolia a chiedere di aprire le relazioni, e non la Santa Sede, consapevole che la nuova apertura al mondo avrebbe portato, sì, crescita, ma anche la necessità di aiuti che non potevano che provenire dall’estero. La Santa Sede come veicolo di sviluppo, insomma, e i missionari come portatori di pace sociale.

D’altronde, c’era bisogno, in qualche modo, di dare sviluppo alla Mongolia, la seconda nazione socialista del mondo dopo l’Unione Sovietica, costituitasi nel 1921. Ulaan Baatar, alla fine, significa l’Eroe Rosso, e si riferisce al tipografo Damdi Sùhabatar, che aveva 19 anni quando, nel 1921, fondò la Repubbica Popolare di Mongolia insieme al 23enne telegrafista  Horloogijn  Čojbalsan. Questi succederà a Súhabataar e guiderà il Paese fino al 1952, erigendo per l’amico un Mausoleo nella piazza principale della capitale. Mausoleo smantellato nel 2005 e sostituito da una grande statua di Gengis Khan attorniato dai suoi figli a cavallo.

La statua di Gengis Khan, insieme al museo di recente costruzione, e al grande lavoro culturale fatto dal governo mongolo, segnala un cambio di rotta riguardo il passato. Dal 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Mongolia ha cercato di ripristinare la libertà religiosa, e la nuova costituzione adottata nel 1992 idealmente garantisce le libertà fondamentali, compresa quella religiosa, e sancisce il principio della separazione tra Stato e religioni.

Aiuta, per comprendere la situazione, leggere il Rapporto sulla Libertà Religiosa nel mondo della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre.

Il buddhismo non è religione ufficiale, ma il governo è chiamato a rispettare il buddhismo in quanto “religione maggioritaria”, sebbene questo non permetta ad alcun cittadino di “praticare una religione differente”.

C’è la volontà del governo di istituire un quadro giuridico nuovo e più completo per regolare il rapporto tra lo Stato e i gruppi religiosi,

Al momento, le comunità religiose in Mongolia sono considerate alla stregua delle organizzazioni non governative, e devono dunque registrarsi presso l’Autorità generale per la proprietà intellettuale e la registrazione statale, ma la legge non sembra chiara sul periodo di validità dei certificati di registrazione.

C’è anche il requisito che tutte le organizzazioni straniere abbiano una percentuale minima di dipendenti di nazionalità mongola, che varia dal 25 al 95 per cento. La Chiesa cattolica costituisce un’eccezione perché, a differenza di quasi tutte le altre organizzazioni religiose aventi lo status di organizzazioni non governative che devono avere obbligatoriamente il 95 per cento di personale locale, questa è tenuta a rispettare la quota del 75 per cento.

È una situazione incerta, perché anche la registrazione delle comunità religiose e delle loro proprietà dipende dalla buona volontà dell’amministrazione.

Insomma, la libertà religiosa progredisce, ed è in qualche modo rispettata, ma ci sono delle criticità, che derivano anche dalle difficoltà economiche e i rapidi cambiamenti sociali. In effetti, si può parlare di due Mongolie: quella della capitale e il resto, accomunate soprattutto dalla storia.

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