Città del Vaticano , 14 November, 2022 / 6:00 PM
Nel capitolo diciottesimo del primo libro de Le rouge et le noir – romanzo pubblicato nel 1831 – Stendhal, del tutto decontestualizzandolo dalla trama del racconto, inserisce un curioso episodio che vede inusuale protagonista, oltre a Julien Sorel, personaggio principale del componimento narrativo, e ad un non meglio specificato re in visita a Verrières, località frutto della fantasia dello scrittore, un corposanto delle catacombe in ceroplastica, l’altrimenti ignoto san Clemente.
Il simulacro del martire, affascinante figura di cera – «charmante figure de cire» – raramente esposta alla vista dei fedeli, si sarebbe trovato, seguendo la trama del capolavoro stendhaliano, all’interno di una piccolissima ma assai luminosa cappella piena di altissimi ceri, che quasi celavano alla vista la preziosa reliquia. L’ostensione del corpo del martire, che – vestito da soldato romano – sembrava stesse ancora esalando l’ultimo respiro, mentre una profonda ferita aperta sul collo stillava copioso sangue, suscitò grande commozione nei presenti, che a stento riuscirono a trattenere le lacrime nel momento in cui videro disvelata la magnifica statua-reliquiario, «un choc spirituel» e allo stesso tempo «un choc esthétique».
Il dubbio che a lungo attanagliò il protagonista del romanzo – ovvero dove si fossero trovate le ossa del martire, «où étaient les os du saint?» – era evidentemente il dubbio che, nei decenni iniziali del XIX secolo, molti fedeli nutrivano e che, mi sia consentito dire, nutrono in alcuni casi ancora oggi. Ovvero, cosa si conserva all’interno dei corpisanti ricomposti in ceroplastica? A ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, sarà capitato di vedere sotto gli altari di molte chiese questi bellissimi simulacri riccamente abbigliati. Ma si tratta di statue? O di reliquiari in forma umana? All’interno di quei corpi giacenti si conservano scheletri interi? Oppure solo quelle poche ossa talora riconoscibili in trasparenza nelle parti nude dei corpi al di sotto di un sottile strato di garza di seta inamidata e ricoperta di cera liquida?
Nel rispetto delle istruzioni codificate dalla Congregazione delle Cause dei Santi per le indagini sulle reliquie, tre sono le modalità che è possibile perseguire per rispondere in modo corretto ai quesiti appena formulati. Da un lato, come recentemente è accaduto per il corpo di San Filippo Neri, si può eseguire la ricognizione canonica, ovvero si procede materialmente ad effettuare un’“autopsia” del simulacro per individuare le ossa al suo interno e possibilmente verificarne la disposizione; ma, pur se svolta solitamente in interventi di tipo restaurativo o manutentivo, non si può non notare che si tratta talora di una pratica per così dire “invasiva”, che tende cioè a manomettere il manufatto originale. Dall’altro, ed è una tecnica innovativa applicata ai corpisanti – assai più raffinata della ricognizione canonica, anche perché non distruttiva, ma allo stesso tempo più costosa e che richiede strumentazioni di laboratorio avanzate –, si può procedere con la radiologia digitale, possibile da eseguire anche senza spostare o aprire l’urna con il corposanto. In ultimo, ma è la più costosa e complessa delle ricognizioni, si può procedere con la tomografia assiale computerizzata, da eseguirsi necessariamente presso un laboratorio diagnostico e assai più costosa, ma dai risultati ben più promettenti.
Le indagini eseguite a campione su corpisanti in ceroplastica nelle modalità sopra elencate, ovvero la ricognizione canonica, la radiologia digitale e la TAC, hanno documentato che – pure se, come è evidente, l’attendibilità dei risultati è strettamente legata alla rappresentatività del campione stesso – è assai raro rinvenire scheletri integri correttamente ricomposti in connessione anatomica all’interno dei simulacri, mentre è quasi sempre presente solo una piccola parte del sistema scheletrico, talora solo il cranio e le principali ossa lunghe, quelle parti cioè che sono parzialmente visibili a occhio nudo in trasparenza nei corpi giacenti nelle maestose teche in legno e cristallo.
E ciò non deve stupire: se ad una prima frettolosa riflessione la presenza di poche ossa nei reliquiari antropomorfi può sembrare l’esito di una pratica disonesta, ovvero la volontà da parte delle gerarchie ecclesiastiche di cedere solo una parte delle reliquie per destinare le restanti di ciascun corpo a soggetti diversi, va in realtà notato che la genesi dei corpisanti, al contrario, è proprio legata all’esigenza di mantenere assieme ed indivise le più minute parti di ogni singolo corpo per evitare che andassero smarrite.
A testimoniarlo in modo eloquente è il celebre abate benedettino Dom Prosper Guéranger in un passo delle sue Explications sur les corps des saints martyrs extraits des catacombes de Rome et sur le culte qu’on leur rend, opera data alle stampe ad Angers nel 1839, pochi anni dopo, dunque, la pubblicazione del capolavoro stendhaliano dal quale è partita la nostra breve riflessione:
«Per quanto riguarda il modo di esporre i santi martiri delle catacombe alla venerazione dei fedeli, è lasciato interamente alla discrezione di coloro che hanno ottenuto una di queste preziose reliquie. Alcuni espongono semplicemente le ossa in una teca, come di consueto; altri trovano opportuno inserirle in una figura di cera decorata con più o meno gusto. Quest’ultima pratica, forse meno toccante della prima, sembra essere stata ispirata dalla difficoltà di collocare adeguatamente in un reliquiario quelle parti delle ossa che il tempo ha quasi ridotto in polvere, e che tuttavia non sono meno venerabili. Riteniamo che questa circostanza sia del tutto irrilevante».
Le ricognizioni canoniche o le radiografie digitali hanno effettivamente provato quanto affermato da Guéranger: se le ossa lunghe e il cranio resistono solitamente in modo migliore allo scorrere dei secoli – e, pertanto, potevano essere allestite dai ceroplasti nelle statue in modo da apparire comunque visibili facendo ipotizzare al contempo al fedele la presenza di uno scheletro intero –, altre ossa tendono, anche per via dell’elevato tasso di umidità presente nelle gallerie catacombali, a sfaldarsi e sfarinarsi. All’interno delle statue, dunque, si riscontra sempre – solitamente presso la cavità toracica oppure quella addominale – la presenza di sacchetti in tela o contenitori in legno o metallo all’interno dei quali gli artigiani che realizzavano il simulacro raccoglievano tutte le ossa frammentarie che i chirurghi addetti alla ricomposizione dei corpisanti non potevano restituire in connessione anatomica che, altrimenti, non sarebbe stato possibile conservare mantenendo l’integrità dei corpi e, dunque, l’indivisibilità delle reliquie.
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