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Un servizio di EWTN News

L'inaspettata lezione di ecologia di San Filippo Neri

 Secretum meum mihi, ripeté per tutta la vita San Filippo; e forse il suo miracolo più spettacoloso consiste nell’essere riuscito per 500 anni a nascondere al mondo la sua vera natura, accreditando di sé l’immagine di un uomo dotato soltanto di tale ingenuo e sprovveduto candore, che in qualunque occasione, all’improvviso, e inaspettatamente, poteva manifestarsi in azioni imprevedibili e sconcertanti, come rattristare un banchetto nuziale intonando il Miserere, o marciare verso agli Svizzeri statuari e solenni schierati con elmo e alabarda intorno al trono del papa, per controllarne la vitalità tirando la loro curatissima barba.

  Chi invece si soffermi a scorrere la sua biografia nella versione più autentica, quale risulta dalle testimonianze rese al suo processo di canonizzazione da chi lo conobbe e lo frequentò, scopre che s. Filippo percepì e affrontò temi e problemi che soltanto in tempo recentissimi sono divenuti oggetto di riflessione e dibattito, dal volontariato all’ecologia, alla condizione femminile, ai rapporti col mondo degli animali; e non soltanto ne valutò la portata con criteri oggi universalmente noti e condivisi, ma li ridusse anche a strumento prezioso del suo magistero, secondo un processo di elaborazione nel quale Roma svolse in alcuni casi una funzione determinante. Esemplare, sotto questo profilo, l’influenza che la nostra città esercitò sul rapporto di s. Filippo con l’ambiente, che a Roma a quel tempo, e ancora fino a un centinaio d’anni fa, rimase caratterizzato da un fortissimo legame con la campagna circostante, sterminata e deserta, disseminata da ruderi immani e soltanto attraversata da greggi di pecore, da branchi di bufali e soltanto occasionalmente da qualche solitaria barrozza, in tutto simile a quella incontrata tre secoli dopo da G. G. Belli «cor barrozzaro giù, morto ammazzato».

Questo spettacolo straordinario dovette impressionare profondamente un giovane non ancora ventenne, ma già desideroso di raccoglimento e di solitudine, che dovette attraversarne gli  spazi senza confini né vita per entrare in città marciando sulla via Casilina fino a Porta Maggiore; sicché per alcuni anni continuò a percorrerli tutti, dalla via Appia dove lo chiamavano le tombe dei martiri sepolti nel cimitero di Callisto, alla porta Collina affacciata sulla monumentale solitudine delle terme dioclezianee, fino forse alla via Salaria, dove due secoli fa i contadini che vi abitavano riconoscevano la sua presenza in una cappella rurale costruita nell’area del cimitero di s. Panfilo, dedicata in realtà a un improbabile s. Filippo martire figlio di s. Felicita, e ora scomparsa e sostituita dalla moderna chiesa intitolata a S. Teresa (S. Teresa in Panfilo).

    Di tutti questi vagabondaggi compiuti con un pezzo di pane e un libro nel cappuccio, da leggere al lume della luna, s. Filippo fece tesoro quando divenne guida e maestro di tanto popolo annidato nei vicoli di Ponte e di Parione, puntuale a frequentare la sua stanza di S. Girolamo, dove si parlava e si capivano tante cose. Così, alla fine di quelle riunioni, abituò i suoi alle passeggiate alla ricerca del verde, non soltanto in città, fino al giardino dei Rustici a Trevi o in quello di S. Spirito del napoletani a via Giulia, arrivando qualche volta fino al Quirinale, dai Padri Teatini, o fino alla Lungara dove si trovava quello dei Patrizi a ridosso di S. Pietro, e forse fino a S. Pietro in Montorio, che lui aveva scoperto fin dagli anni ’50, e dove forse aveva perfino celebrato la messa nell’antica chiesa “degli Angeli in ginocchio” come il popolo di Trastevere chiamava quella officiata dai Francescani Amadeiti; perché secondo la tradizione lì si erano inginocchiati gli Angeli, accorsi a pregare per S. Pietro condotto al martirio.

Una volta all’anno, in una di quelle giornate tra febbraio e marzo che già profumano di primavera, partiva coi suoi in giro dall’Aurelia alla Tiburtina, a visitare le chiese da S. Pietro a S. Lorenzo al Verano, con l’intermezzo di una sosta sull’erba nuova di qualche vigna, a rifocillarsi con un uovo sodo e un panino al salame, e perfino una mela e un quartino di vino. Trent’anni dopo Pietro Focile, “cassaro” a S. Salvatore in Lauro, raccontò una di quelle passeggiate a S. Maria degli Angeli appena costruita in un’aula delle Terme con un’esattezza di particolari di cui soltanto un’impressione profonda poteva consentirgli un così vivo ricordo: «et io me ne andai…molto contento, et me pareva che quella giornata fossi stato con gli angioli».

Lui non lo sapeva, ma s. Filippo gli aveva insegnato quel giorno quanto sia appagante vivere inseriti nella natura che ci circonda, e che perciò vale la pena di rispettare, se vogliamo godere ancora a lungo dei suoi doni. In altre parole, una lezione di ecologia.

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