Firenze, 25 March, 2022 / 6:00 PM
Una limpida mattina di gennaio, salendo con una certa fatica una strada che si arrampica tra boschi e prati, ecco aprirsi allo sguardo un paesaggio mite e solenne al tempo stesso, illuminato da un tiepido sole invernale: un ampio, piazzale, un convento, un giardino e in lontananza colline e vallate. Questo è Castagnavizza, qui sorge il santuario carmelitano dell'Annunciazione, fondato nel 1623 dal conte Mattia della Torre sulla collina del Rafut, successivamente ampliato per accogliere i pellegrini dal Friuli e in particolare dalla provincia di Gorizia.
La cripta del monastero custodisce le sepolture di sei membri della casa dei Borbone di Francia, giunti in esilio a Gorizia dopo la Rivoluzione di luglio del 1830. Qui dunque sono sepolti Carlo X di Francia, morto nel 1836, i tre delfini di Francia - Enrico Borbone, Luigi Antonio di Borbone, Maria Teresa - e poi Luisa Maria di Borbone e Maria Teresa d’Asburgo-Este. Silenzio, fiori impolverati, luci tremolanti, in questa cripta, in cui il tempo sembra scorrere a ritroso.
Perché abbiamo rievocato una visita di tanti anni fa, rimasta profondamente impressa nella memoria? Perché il destino della casata dei Borbone, un destino di sconfitta e di morte, è strettamente legato ad un altro ramo della illustre famiglia, quella degli Asburgo, anch’essa segnata dalla sconfitta e dal fallimento. Il legame ci è stato suggerito anche grazie ad un libro appena pubblicato. Si tratta di Marco Andreolli, “L’ultimo imperatore d’Occidente. Carlo d’Asburgo, il patrono dei perdenti”, edizioni San Paolo, (pp.172, euro 20).
Carlo, ultimo imperatore degli Asburgo e della fine dell’impero austro-ungarico, viene raccontato, in questo volume ben documentato e dal ritmo incalzante, nella sua parabola esistenziale intrecciata strettamente con anni cruciali per la storia mondiale.
Eppure quest’uomo al centro degli eventi porta impresso soprattutto il segno della incompletezza, poiché ha fallito in tutti i tentativi in cui si è impegnato: non è riuscito a vincere la grande guerra e neppure a raggiungere la pace, nonostante avesse provato in tutti i modi a concluderla; non è riuscito a riformare l'impero e a evitarne il dissolvimento; non è riuscito a mantenere la corona né a riprendersela nei due tentativi rocamboleschi compiuti per tornare sul trono. Il fallimento appare totale, perché Carlo perde tutte le sue proprietà e i suoi beni, ritrovandosi in povertà. Ha finito i suoi giorni nell'isola portoghese di Madera, tra vicissitudini e ristrettezze, morendo di polmonite a soli 35 anni, il primo aprile 1922. E quindi non riesce neppure a realizzare la sua vocazione di padre di famiglia, visto che non vedrà crescere i figli e non potrà invecchiare accanto all’adorata moglie.
Nel 2003, però, il Papa santo Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato, mentre in quei giorni Le Monde lo definisce come "il santo patrono dei perdenti”. Del resto, questa beatificazione è stata accompagnata da polemiche e critiche. Eppure leggendo il libro di Andreolli si riesce a penetrare i “segreti” di quest’uomo dal destino tanto complesso, che si è attirato molto odio e critiche feroci.
La corte asburgica, durante il suo regno, non conta più sullo sfarzo e sullo spreco: a tavola si serve pane nero, quello bianco viene riservato ai feriti al fronte. L’imperatore, poi, vorrebbe dare spazio alle autonomie delle minoranze e questo non piace a molte altre componenti, legate al vecchio sistema imperiale. Al suo fianco sempre la devota moglie Zita, con cui condivide anche le crisi belliche, storiche e sociali. Un matrimonio diverso, non legato alle convenzioni, ma a reali sentimenti alla base di un’unione forte e duratura.
Nonostante la sua netta opposizione di Carlo all'utilizzo delle nuove e devastanti armi chimiche, a lungo viene bollato come colui che aveva dato il via libera al loro utilizzo: ironia della sorte, perché proprio per quella sua opposizione, invece, si era guadagnato la diffidenza dell'alleato germanico e agli ambienti pangermanici che reagiscono con attacchi personali e denigratori che gli procurano notevoli sofferenze.
Uomo dalla profonda fede, aderisce totalmente al magistero di Papa Benedetto XV che non esita a definire la guerra una ‘inutile strage’. Appena salito al trono, nel discorso inaugurale spiega che il suo obiettivo è la pace e la fratellanza tra i popoli. Si arriva così al fatidico 1918, che segna la fine della guerra e, conseguentemente, dello stesso impero. Si apre, per Carlo e la sua famiglia, il periodo dell’esilio. Ma ecco che emerge la sorprendente capacità di quest’uomo di guardare alle vicissitudini da un’altra prospettiva, di considerare le sconfitte, le perdite, le disgrazie con serenità e distacco, persino con ironia, come prove disseminate nel cammino della vita e di trovare – o almeno di provare a trovare – i lati positivi. Dopo la guerra, dopo l’esilio e la morte, dopo una seconda guerra mondiale, passano lunghi anni di oblio, fino ad una progressiva riscoperta della sua figura e della sua spiritualità. Si apre la causa di beatificazione e si giunge alla cerimonia del 3 ottobre 2004, durante la quale papa Giovanni Paolo II dichiara che Carlo deve essere “un esempio per tutti, soprattutto per quanti oggi hanno in Europa la responsabilità politica”.
Questa lettura, però, conduce soprattutto alla riflessione sul concetto di “perdente”. Nella nostra società essere frustrati, emarginati, non essere “vincenti”, è un vero tabù; invece la vita di Carlo d’Asburgo, così come quella di molti santi, beati, padri spirituali, artisti, protagonisti dei loro tempi o degli anni che stiamo vivendo, segnata appunto dalla caduta e dal fallimento agli occhi della logica mondana, disegnano una parabola esistenziale luminosa, che punta dritta verso il cielo.
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