Mosca, 29 November, 2021 / 10:00 AM
Monsignor Igor Kovaleskij è stato sacerdote durante i trenta anni della rinascita religiosa della Russia post-sovietica. Segretario generale della Conferenza Episcopale Russa, è stato per anni la voce di una Chiesa che era, sì, minoranza, che cominciava a rinascere, “aggiustando” volta per volta i rapporti con gli ortodossi, e cominciando a guardare anche al futuro. Così, mentre per la prima volta in decenni l’arcidiocesi della Gran Madre di Dio di Mosca ha un vescovo ausiliare russo (il vescovo Dubinin), monsignor Kovaleskij ha deciso di lasciare il servizio ecclesiastico. A 56 anni, riparte da zero, cerca un lavoro, e cambia vita. Ma la sua non è una crisi di fede. È, piuttosto, una crisi di fiducia.
Perché mai, nei suoi post nel suo blog, Kovalevskij ha invitato ad abbandonare la Chiesa o ha lamentato una perdita di fede. Piuttosto, ha fatto domande cruciali per il futuro della Chiesa che è in Russia, chiedendosi anche in che modo fare missione oggi. Una domanda che, lamenta, viene sempre fatta meno nelle gerarchie ecclesiastiche. E che invece sarebbe centrale per comprendere quale deve essere il futuro della Chiesa Russa.
Il nodo del contendere, la causa principale di questo repentino allontanamento dalle gerarchie ecclesiastiche, è stato il destino degli edifici legati alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Mosca. L’arcidiocesi vuole usare questi edifici per avere dei vantaggi economici, mentre Kovalevskij spinge perché siano riportati alla disponibilità del culto. Da qui, la contestazione all’arcivescovo Paolo Pezzi, e l’accusa di aver coinvolto privati nella gestione di un edificio della Chiesa, che viene vista da Kovalevskij come segno ulteriore “della debolezza materiale e spirituale della Chiesa in Russia”, chiedendosi se l Chiesa debba reggersi su “progetti ambiziosi” o sul “realismo”.
I progetti ambiziosi sono quelli che hanno portato alla costituzione di molte strutture nel trentennio post-sovietico. Kovalevskij, in uno dei suoi interventi, ha notato come lo stesso Patriarca Kirill, quando era a capo del Dipartimento delle Relazioni Esterne del Patriarcato di Mosca, aveva maliziosamente chiesto se le strutture della Chiesa cattolica in Russia corrispondessero al suo peso reale. Maliziosamente, perché era un modo per attaccare i cattolici, in un momento in cui i rapporti non erano dei migliori, e comunque non erano buoni come quelli di adesso.
Kovalevskij vorrebbe virare verso una sorta di realismo missionario, considerando che i cattolici praticanti non sono più di 100 mila su circa un milione di cattolici in Russia. Un realismo che deve anche essere aperto ad accogliere e integrare sacerdoi di altre nazionalità, anche se questi vengono da popoli considerai tradizionalmente nemici o che comunque non hanno avuto buoni rapporti con l’Unione Sovietica.
Il riferimento particolare è ai polacchi, ma Kovalevskij non manca di sottolineare anche i suoi legami con Lituania e Ucraina, mettendo in luce come si possono avere tutti questi legami senza per questo essere meno russi.
Kovalevskij, per questo, si chiede se sia possibile “un sano patriottismo cattolico russo”, che permetta anche di sviluppare un ecumenismo più reale, perché c’è una discrasia tra l’ecumenismo ufficiale (si parla persino di un prossimo secondo incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill, magari in Kazakhstan) e la situazione sul territorio.
Insomma, le domande che pongono le dimissioni di Kovalevskij sono attuali, e tutte da considerare. E chissà che non siano state anche parte della riflessione dell’arcivescovo Paul Richard Gallagher, “ministro degli Esteri” vaticano, di recente tornato proprio da un viaggio in Russia.
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