Roma, 25 September, 2021 / 2:00 PM
“Per questo ho pensato di dedicare il messaggio per la 107^ Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: ‘Verso un noi sempre più grande’, volendo così indicare un chiaro orizzonte per il nostro comune cammino in questo mondo. Questo orizzonte è presente nello stesso progetto creativo di Dio… Dio ci ha creati maschio e femmina, esseri diversi e complementari per formare insieme un noi destinato a diventare sempre più grande con il moltiplicarsi delle generazioni. Dio ci ha creati a sua immagine, a immagine del suo Essere Uno e Trino, comunione nella diversità”.
Così inizia il messaggio di papa Francesco per la 107^ giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebra domenica 26 settembre ed ha come tema ‘Verso un noi più grande’; un messaggio che apre sempre più ad una Chiesa cattolica, come ha spiegato p. Leonir M. Chiarello, superiore generale degli Scalabriniani: “Il messaggio del Santo Padre per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato spinge l’orizzonte più in là. Si tratta di un’operazione necessaria se si vogliono superare le fratture che caratterizzano la nostra storia. Se rimaniamo nell’orizzonte dell’oggi, lo sguardo resta radente, viene ostruito dai muri ed emergono soprattutto crepe e rovine. La migrazione vista con lo sguardo radente è soprattutto lotta di sopravvivenza, conflitto tra speranza e norme, fastidio per la presenza non richiesta e non desiderata di altri. Un contesto apparentemente coeso viene disturbato e, come un sasso in uno stagno, le onde si propagano”.
Perché il papa invita a pensare al plurale?
“Un orizzonte più lontano richiede uno sguardo più alto. Quando lo sguardo si innalza, i dettagli che, prima erano così rilevanti, sbiadiscono ed emergono connessioni che prima non apparivano. Cambiano i parametri che danno origine al ‘noi’ e agli ‘altri’. Questi parametri agiscono reciprocamente. Quanto più circoscritto è il noi, tanto più ampi sono gli altri e viceversa. Allo stesso tempo, rimane la varietà delle dimensioni in cui il noi e gli altri si articolano, per cui là dove il noi è più grande, sotto altri aspetti anche le alterità sono più accentuate. Lo sguardo del Santo Padre si alza così in alto da immaginare solo il noi. È lo sguardo dal punto di vista di Dio, che vede tutti come suoi figli. Da quello sguardo le differenze sono necessarie per creare armonia, come un quadro divisionista. Da quello sguardo, l’unico altro è l’assolutamente Altro”.
Poi spiega come la Chiesa è sempre più cattolica: “Alla rappresentazione cromatica il pontefice attribuisce anche una valenza etica. Non è sufficiente cambiare prospettiva per cambiare la realtà, perché le relazioni sono il risultato di interazioni concrete, a partire dall’incontro tra un io e un tu. Il tu rimane necessariamente ‘altro’. Ma l’altro può essere opposto o complementare. La dimensione etica consiste nel superamento degli opposti, che non è frutto di spontaneità ma il risultato di adesione all’azione dello Spirito che agisce in tutti.
Da questo orizzonte più ampio anche i migranti sono incontrati in modo diverso. Naturalmente, il cambiamento di orizzonte non deve condurre a un ingenuo irenismo. I migranti, come tutti noi, sono portati all’egoismo, al sotterfugio, all’approfittare della situazione. Ma con una prospettiva diversa il cammino di redenzione non viene compiuto senza di loro o contro di loro ma insieme con loro”.
Ecco il motivo per cui il papa invita la Chiesa ad uscire nelle ‘strade’ delle periferie esistenziali: “Uno dei mali del nostro tempo è lo sguardo di breve respiro, la prospettiva di corto raggio. Forse è il male di ogni tempo, ma accentuato ai nostri giorni, nel passaggio per la maggioranza da un coinvolgimento nel rurale, dove l’attesa è essenziale, al lavoro industriale, che vede in breve il prodotto finito, e a quello nei servizi, basati sempre più nell’utilizzo del digitale, dove tutto accade sul momento. In questi passaggi non ci siamo accorti delle trasformazioni imposte alla natura e della minaccia dei disastri ambientali che incombono su di noi. Siamo parzialmente coscienti che il benessere non è nostro se non è di tutti. Dobbiamo diventare coscienti che non è nostro se non è anche del domani”.
Come è nata l’opera del beato Scalabrini?
“All’inizio furono solo in due ad ascoltare l’appello di Scalabrini. All’inizio furono solo dieci i missionari mandati per la prima volta oltre oceano. Erano missionari per i migranti italiani nelle Americhe. Da allora, il nostro noi si è fatto sempre più grande. Prima si sono fatti scalabriniani alcuni giovani nelle Americhe. Poi si è allargata la missione, senza più confini, ad abbracciare tutti. Un salto coraggioso, considerata la pochezza di mezzi. Poi si è allargata la chiamata, sempre più in là, ad accogliere tutti coloro che vogliono farsi compagni dei migranti. Ed ora coloro che si riconoscono discepoli di Scalabrini provengono da 26 nazioni diverse. Ed ora, i missionari di Scalabrini si trovano ad incontrare i migranti in 33 nazioni diverse. Un noi più grande, che forse in numeri assoluti non sta crescendo, ma che è cresciuto nella diversità dell’appartenenza e della missione”.
In quale modo gli Scalabriniani operano per rendere ‘visibili’ i migranti?
“A un noi più grande ci chiama papa Francesco proprio sotto il profilo della missione quando accenna a migranti e rifugiati di altre confessioni e religioni. Si tratta di un’esperienza in cui molti si trovano già coinvolti. Basti pensare a quanti bussano alle case del migrante o ai marittimi e pescatori che vengono visitati e assistiti nelle Stella Maris. In molte missioni si è imparato il linguaggio del primo incontro, del noi più grande dove tutti sono migranti. La Chiesa ci chiede di essere testimoni di come nell’incontro si può costruire umanità non ostacolata ma irrobustita dalla diversità. Non si tratta di un compito facile, ma da noi la Chiesa aspetta qualcosa di più”.
Al termine spiega lo specifico del carisma scalabriniano: “In modo specifico la Chiesa ci chiede di testimoniare e condividere come nell’incontro i migranti possano, da altri, diventare noi. E’ lo specifico della missione con i migranti, è lo specifico del carisma scalabriniano. Non sempre ne siamo capaci, ma quando lo siamo proviamo a condividere queste esperienze perché è nostro dovere narrare quanto Dio opera nella storia. Una storia costellata da fratture, ci dice papa Francesco, e tra queste fratture risalta la realtà delle migrazioni. Ma se il noi si fa più grande, le migrazioni sono anche strumento di risanamento dell’umanità ferita, balsamo che cura le ferite di un’umanità troppo chiusa nei propri egoismi e la rende più simile a quella sognata dal Creatore”.
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