Città del Vaticano , 23 January, 2021 / 4:00 PM
È rimbalzata dalla stampa camerunense la notizia che il Cardinale Parolin, segretario di Stato vaticano, sarà in Camerun dal 30 al 31 gennaio. L’occasione è ufficiale (la consegna del pallio all’arcivescovo Andrew Nkea Fuanya), ma ci sarà anche l’opportunità di una serie di incontri bilaterali. Il Camerun è scosso dalla cosiddetta “crisi anglofona”, e la Chiesa cattolica è stata una straordinaria forza di mediazione nel Paese.
Mentre ancora non è del tutto confermata l’agenda papale dei viaggi 2021 (anche l’Iraq già annunciato potrebbe essere in bilico) tre cardinali hanno incontrato il presidente indiano Modi per chiedergli di invitare Papa Francesco nel Paese.
Il 22 gennaio, è entrato in vigore il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari. Il tema è stato ricordato da Papa Francesco all’udienza generale del 20 gennaio, e da una conseguente intervista dell’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati.
FOCUS SANTA SEDE
Il cardinale Parolin in Camerun
Secondo la stampa locale, il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, sarà in Camerun dal 30 al 31 gennaio. Il viaggio del cardinale nella nazione è previsto da tempo per consegnare il pallio all’arcivescovo Andrew Nkea Fuanya, che dal 2019 guida la provincia ecclesiastica di Bamenda.
Allo stesso tempo, il Cardinale Parolin avrà diversi incontri di mediazione con le diverse parti politiche riguardo il conflitto, detto della “crisi anglofona” che da quattro anni affligge i fedeli della diocesi.
La crisi anglofona consiste nella ribellione della minoranza anglofona del Paese (circa il 20 per cento) contro le discriminazioni che starebbe subendo. Tutto è cominciato nel 2017 con uno sciopero organizzato da insegnanti e avvocati anglo parlanti, che si è poi trasformato in una rivolta contro l’emarginazione delle regioni di lingua inglese del Paese, con un dibattito che ha assunto toni fortissimi e vere e proprie spinte secessioniste, e la proposta della costituzione di uno Stato indipendente chiamato Ambazonia. La Chiesa Cattolica ha lavorato come fonte di mediazione.
La visita del Cardinale Parolin è stata annunciata il 13 gennaio da un comunicato dell’arcidiocesi di Bamenda. E subito la stampa locale ha segnalato come la presenza del porporato possa rappresentare anche il momento in cui la Santa Sede si coinvolgerà direttamente nella gestione della crisi. Tra le voci di corridoio, quella che il Cardinale Parolin porterà un messaggio di conforto alla popolazione. Il capo della diplomazia vaticana dovrebbe avere anche incontri bilaterali con i leader politici di Yaoundé, ma anche con i separatisti.
L’arcivescovo Gallagher sul Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari
L’entrata in vigore del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari è un appuntamento importante per la Santa Sede.
La Santa Sede, infatti, aveva votato l’approvazione del Trattato nel 2017, ed era la prima volta che la Santa Sede, che alle Nazioni Unite ha lo status di Osservatore Permanente, ha accettato di comportarsi da membro a tutti gli effetti in una negoziazione, votando prima che il trattato fosse adottato. In passato, la Santa Sede aveva partecipato alle negoziazioni dei trattati, ma non come membri con la possibilità di voto.
Per l’occasione, oltre all’appello di Papa Francesco al termine dell’udienza generale del 20 gennaio, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati ha concesso una lunga intervista a Vatican News, spiegando il perché dell’impegno della Santa Sede.
“L’obiettivo principale del Trattato – ha detto l’arcivescovo Gallagher nell’intervista a Vatican new - è quello di vietare le armi nucleari in maniera inequivocabile, inserendole nella stessa categoria di altre armi di distruzione di massa come le armi chimiche e quelle biologiche, già proibite. In tal modo, pone anche le armi nucleari all’interno di quelle armi il cui uso e possesso vanno continuamente stigmatizzati e delegittimati. Questo è uno dei motivi per cui la Santa Sede si è impegnata per l’entrata in vigore del Trattato e ha attivamente partecipato al suo processo di redazione. Molte sue disposizioni richiamano in maniera diretta o indiretta la centralità della persona umana, il paradigma umanitario e le strette connessioni del Trattato con la pace”.
L’arcivescovo Gallagher ha anche spiegato la differenza tra il Trattato per la Proibizione di Armi Nucleari e il Trattato sulla Non Proliferazione delle Armi Nucleari: il primo è un bando giuridico vincolante alle armi nucleari, mentre il secondo ha i tre obiettivi della non proliferazione delle armi nucleari, del disarmo graduale di tali ordigni e della cooperazione nell’uso pacifico della tecnologia nucleare.
L’arcivescovo Gallagher ha anche citato una serie di altri trattati per il disarmo nucleare, e ha sottolineato che comunque si tratta di un mosaico con “tessere ancora non ben modellate”, perché in alcuni Paesi i trattati non sono entrati in vigore o non vengono implementati in modo coerente.
La Santa Sede, ha spiegato l’arcivescovo Gallagher, è stata sempre in prima linea, ratificando tutti i principali trattati nucleari.
Certo, il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari è entrato in vigore 90 giorni la ratifica da parte di cinquanta Paesi, ma tra questi Paesi non ci sono le grandi potenze nucleari. L’arcivescovo Gallagher ha detto che “da un lato, siamo preoccupati per il fatto che le Potenze nucleari spesso sembrano voltarsi di fronte al multilateralismo in campo nucleare e al tavolo dei negoziati, come evidenzia una certa erosione dell’architettura delle armi nucleari messa in luce dall’abbandono del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF), dall’indebolimento del JCPoA (Piano d’Azione congiunto comprensivo) iraniano, dall’incertezza del futuro del menzionato START, dalla crescente spesa militare non solo per la manutenzione ma anche per l’ammodernamento degli arsenali nucleari”.
D’altra parte, ha detto il “ministro degli Esteri” vaticano, dobbiamo “essere motivati e propositivi, rimanendo fermi nei nostri sforzi per lavorare al disarmo nucleare e alla non proliferazione”.
Per farlo, ha continuato l’arcivescovo Gallagher, serve evitare polarizzazioni, costruire una cultura di dialogo, lavorare insieme per costruire la casa comune., e sottolineato che “un approccio concreto dovrebbe promuovere una riflessione su un’etica della pace e della sicurezza multilaterale e cooperativa che vada oltre la paura e l’isolazionismo che dominano oggi molti dibattiti. Il destino comune dell’umanità esige il rafforzamento pragmatico del dialogo e la costruzione e il consolidamento di meccanismi di fiducia e cooperazione, capaci di creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari”.
Gallagher, la Dottrina Sociale e il Green New Deal
L’arcivescovo Paul Richard Gallagher ha anche tenuto il 23 gennaio una lectio su “Il rapport tra la Dottrina Sociale e il Green New Deal nella pratica degli Stati e nella valutazione del bene commune”, inaugurando così il corso di Dottrina Sociale promosso dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice.
Il “ministro degli Esteri” vaticano, basandosi su vari passi della Bibbia ma anche sulla Laudato Si di Papa Francesco, ha notato che “l’ambiente che ci circonda non deve essere ridotto a luogo per generare profitti, a risorsa alternativa per ricercare nuove forme di investimenti, o ad opportunità commerciale per incrementare gli utili.”. Ha ricordato l’evento virtuale Economy of Francesco, e i vari interventi di Papa Francesco sul tema.
L’arcivescovo Gallagher ha sostenuto che “sarebbe, però, limitante ridurre il pensiero economico e sociale della Chiesa ad un generico invito alla deferenza nei confronti dei valori della libertà e della giustizia sociale, perché in quanto cristiani sentiamo il richiamo alla carità e alla fraternità universale come gioiosa osservanza della volontà di Dio”.
(La storia continua sotto)
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Parlando del Green New Deal, l’arcivescovo Gallagher nota che l’espressioone si fa strada nel 2007, nell’ambito della crisi finanziaria, che promette di creare nuovi posti di lavoro e che è stata anche portata avanti, negli Stati Uniti, dal nuovo presidente Joe Biden, nonché a livello internazionale in alcune agende del World Economic Forums.
“Oltre a raccomandazioni legate all’ambiente o alle politiche sociali – spiega l’arcivescovo Gallagher - i contenuti del Green New Deal e dei programmi affini contemplano anche la promozione dell’alta tecnologia e dell’uso di nuovi strumenti finanziari”, I cosiddetti green bond.
Si tratta di piani che “non mettono in questione né il sistema industriale, che storicamente è all’origine dell’inquinamento, né quello finanziario delle Borse internazionali, ma sono anzi programmi che tendono a rispondere a dinamiche economiche che affrontano il problema ambientale, direttamente e indirettamente, con i veicoli elettrici e autonomi, le varie altre forme di industria di stampo ecologico, l’informatica, l’intelligenza artificiale, la robotica, e la tecnologia 5G, tanto per fornire alcuni esempi particolarmente rilevanti”.
È un argomento che la Santa Sede osserva con grandissima attenzine, ha detto l’arcivescovo Gallagher. Il quale sotttolinea che “potrebbe per esempio risultare saggio prediligere nei Green New Deals quei contenuti che meno sappiano di ambientalismo interessato,” dato che “desta qualche perplessità, infatti, un certo atteggiamento culturale che se da una parte convince per le buone intenzioni sociali, dall’altra delude perché non mette in discussione la speculazione economica.”
Perché c’è un rischio. Che “i più critici della logica del profitto finiscono inconsapevolmente per sostenerla, mentre i suoi difensori si illudono che essa possa preservare quei buoni valori ai quali si dichiarano legati”.
L’arcivescovo Gallagher nota che è “fondamentale osservare che l’economia globalizzata, intesa come dilatazione estrema di una logica commerciale, nulla ha a che vedere con la vocazione universale della Chiesa e con l’auspicio della fraternità e della pace mondiale”.
Gallagher chiede un approccio caso per caso da parte dei cattolici impegnati in politica, ricordando che “il rapporto tra la Dottrina Sociale della Chiesa, fervida sostenitrice di un ambientalismo sano, profondo e rispettoso dell’essere umano, e i vari Green New Deals, dipenderà dai diversi gradi di compatibilità che potranno essere via via individuati da entrambe le parti. Impegniamoci sin d’ora affinché questo cantiere aperto si risolva in un dialogo costruttivo”.
E – aggiunge l’arcivescovo – “forse la vera grande spaccatura che divide le sensibilità politiche e culturali odierne è la scelta di fondo tra il riporre la fiducia in Dio o nei soli prodotti dell’azione umana. Noi scegliamo di credere nell’Uomo amato da Dio, chiamato ad essere il custode del suo giardino e non il suo concorrente”.
FOCUS ECUMENISMO
Il ministro degli Esteri russo sulla questione ucraina
Il dibattito sulla autocefalia concessa alla Chiesa Ortodossa Ucraina dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli continua ad avere risvolti politici. Il patriarca di Mosca Kirill, nella sua intervista di Natale, aveva detto che il Patriarca Bartolomeo aveva subito pressioni politiche e non aveva saputo dire no, permettendo così la creazione della Chiesa Ortodossa Ucraina, che avrebbe lo scopo di “allontanare la Chiesa russa dai cristiani ortodossi di Grecia, del Mondo Arabo e del Medio Oriente, rendendo così più debole l’ortodossia”.
Il 18 gennaio, Sergey Lavrov, ministro degli Esteri Russo, parlando in una conferenza stampa dedicata ai risultati della diplomazia russa nel 2020, ha toccato anche lui la questione.
“Recentemente – ha detto il ministro russo – ho visitato Grecia e Cipro, e ho parlato con il ministro degli Esteri di Cipro Nikos Christodoulides al telefono. Non vedo ragione per cui queste nazioni debbano essere persuase che la Russia è un loro nemico o che abbia portato avanti una politica non amichevole nei loro confronti. Qualcuno sta cercando di convincerli, ma i politici con senso comune possono vedere la verità: stanno solo cercando di creare un nemico nella Federazione Russa”.
Lavrov ha poi sottolineato che “non c’è diplomazia qui, ma solo un modo crudo di fare pressione sull’opinione pubblica”, e ha detto che sono i colleghi americani che “stanno cercando di minare la connessione spirituale” con i fedeli ucraini, avendo pressato “il Patriarca Ecumenico Bartolomeo affinché seguisse la linea dello scisma, mettendo a rischio tradizioni lunghe di secoli”.
È un percorso, aggiunto, “chiamato papismo, che è sempre stato rifiutato dalle Chiese Ortodosse Orientali”, tanto che “non c’è l’analogo di un Papa nel mondo ortodosso”. Lavrov non ha mancato di accusare il Patriarca Bartolomeo di agire “sotto la pressione di Washington”, e addirittura quasi di complottare con altre Chiese ortodosse “per continuare ad approfondire queste azioni canoniche sovversive contro l’Ortodossia orientale”, al punto che dalla prima decisione di Bartolomeo si è già arrivati a “una divisione nella Chiesa ortodossa cipriota e ad inquietudine in altre Chiese ortodosse”.
Nello stesso 18 gennaio, giorno in cui è iniziata la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, il Cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha scritto come di consueto un articolo sull’Osservatore Romano, tutto dedicato alla sinodalità .
Parlando del documento di Ravenna del 2007, che ha riconosciuto il primato petrino, il Cardinale Koch ha sottolineato che “da parte delle Chiese ortodosse, ci possiamo aspettare che, nel dialogo ecumenico, arriveranno a riconsocere che il primate a livello universale non è solo possibile e teologicamente legittimo, ma anche necessario”.
E fa appunto l’esempio delle tensioni intra-ortodosse, che sono emerse prima con il Sinodo Pan-Ortodosso di Creta nel 2016, e che – dice il Cardinale Koch – “dovrebbe farci comprendere il bisogno di considerare un minister di unità anche a livello universale della Chiesa”, che non dovrebbe essere limitata a un primato onorario, ma dovrebbe includere qualche elemento legale.
Indirettamente, la visione del Cardinale Koch appoggia l’operato del Patriarca Bartolomeo, che in fondo fa andare avanti proprio nel processo verso l’universalizzazione del primate.
La questione, però, è diventata anche politica. Sarà un tema dibattuto nei prossimi mesi.
FOCUS ASIA
Tre cardinali dal presidente Modi per chiedere un viaggio di Papa Francesco
Papa Francesco avrebbe voluto andare in India già nel 2017, ma l’ipotesi del viaggio non si concretizzò anche per il mancato invito arrivato da parte del presidente. Lo scorso 19 gennaio, tre cardinali indiani sono stati a colloquio con il presidente Narendra Modi per chiedergli di fare tutti i passi istituzionali necessari per invitare Papa Francesco nel Paese. Ne ha dato notizia l’agenzia Fides della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
I Cardinali che hanno incontrato Modi erano: il Cardinale Oswald Gracias, Presidente della Conferenza episcopale indiana; il Cardinale George Alencherry, a capo della Chiesa siro-malabarese; e il Cardinale Baselios Cleemis, leader della chiesa siro-malankarese. L’incontro è durato circa 45 minuti, e – secondo il Cardinale Gracias – “si è trattato di un dialogo su temi di ampio respiro. Abbiamo parlato delle diverse opere portate avanti dalla Chiesa in India, a livello nazionale, in particolare di come le istituzioni cattoliche lavorano in diversi campi dell'istruzione, dell'assistenza medica e sociale. Ci siamo confrontati su come la Chiesa può collaborare con il governo".
Il Cardinale Gracias ha anche sottolineato che "Modi concorda sull'invitare il Papa in India. Il Primo Ministro deve trovare un momento appropriato in cui il Santo Padre può essere invitato, date attuali condizioni di salute e sicurezza in India", segnate dalla pandemia. Il Cardinale Gracias ha sollevato la questione dei contadini, auspicando "che si trovi una giusta soluzione" e il Primo Ministro ha dichiarato che il governo sta facendo ogni sforzo per questo.
Nei 45 minuti di incontro, si è toccato anche il tema dell’arresto del padre gesuita Stan Swamy, che ha pagato il suo attivismo sociale. Secondo il Cardinale Gracias, “il Primo Ministro si è detto a conoscenza della situazione ma ha rilevato che, essendo il caso gestito da un'agenzia indipendente, il governo non vuole interferire nella questione”.
I Cardinali hanno anche informato Modi sul lavoro della Chiesa durante la Pandemia, dove hanno investito 15,2 milioni di rupie. Il Cardinale Alencherry ha parlato delle minoranze religiose, e ha chiesto una “necessaria equa distribuzione di beni e servizi", insistendo poi con il Primo ministro sull'urgenza di promuovere l'armonia religiosa. Su questo tema il Premier ha concordato.
Fides riferisce anche che il Primo Ministro ha parlato anche del Foreign Contribution Regulation Act (FCRA),che ostacola l'arrivo di fondi esteri anche a enti e organizzazioni cattoliche , giustificato da Modi con il fatto che "c'erano così tante agenzie che ricevevano denaro straniero, senza tenere una contabilità adeguata", giustificando il provvedimento.
Il Cardinale Cleemis ha chiesto che i fondi stanziati dal governo federale da distribuire tra i poveri siano distribuiti equamente. I cardinali hanno anche affrontato il problema dei dalit, i cosiddetti intoccabili, che invece devono essere inclusi nella società I cardinali hanno anche specificato che la Chiesa non fa politica.
Il nuovo ambasciatore di India presso la Santa Sede, non residente, ha presentato le credenziali a Papa Francesco lo scorso 4 dicembre. In India, i cattolici vivono spesso discriminati a causa di un processo di “hinduizzazione” che a
volte diventa persino violento.
FOCUS EUROPA
La presidenza COMECE si incontra con il commisario UE Varhelyi
Una delegazione della COMECE (la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea) ha incontrato lo scorso 18 gennaio il Commissario per il Vicinato e l’Allargamento Oliver Varhelyi. La delegazione della COMECE era guidata dal presidente, il Cardinale Jean Claude Hollerich, e includeva il vescovo libanese Soueif.
La delegazione della COMECE ha fornito raccomandazioni perché una futura partnership con il confine Sud dell’Europa centrata sulle persone. Questo nell’ambito del rinnovo della Partnership con le 10 nazioni dei confini a Sud dell’Europa, annunciato lo scorso anno dall’UE in occasione del 25esimo anniversario dell’Unione per il Mediterraneo”.
L’arcivescovo Hollerich ha detto di apprezzare “gli sforzi dell’Unione Europea di creare stabilità, pace e prosperità nei confini a Sud”. Il commissario Varheyi ha affermato che l’Unione Europea ha preso decisioni “sempre nel pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di ogni persona, inclusi migranti e rifugiati”.
La COMECE ha sottolineato che il Mediterraneo deve tornare ad essere di nuovo “un luogo di pacifici incontri di persone di differenti culture e religioni”. L’arcivescovo Youssef Soueif, arcivescovo di Tripoli dei Maroniti, ha detto che l’Unione Europea “dovrebbe supportare una cultura dell’incontro nei suoi confini a Sud, e contribuire a sviluppare la pace attraverso educazione, dialogo, costruzione della fiducia e rispetto per la diversità religiosa e socio-culturale.
La COMECE ha anche messo in luce l’impegno attivo delle Chiese locali in Libano e in altre nazioni dei confini Sud, e ha presentato più di 30 proposte politiche divise in cinque aree prioritarie – Migrazioni, Pace, Libertà Religiosa, Sviluppo Umano ed Ecologia Integrale.
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