Città del Vaticano , 02 October, 2015 / 9:00 AM
Il pensiero del teologo carmelitano, Antonio Maria Sicari, su alcuni aspetti che verranno trattati nel prossimo Sinodo dei vescovi
«Quando una società cristiana si trova a vivere paurosi fenomeni di recessione, al punto che si rende necessaria una nuova evangelizzazione, la Chiesa deve ricordare che la sua vera missione consiste nel riproporre un annuncio totale e travolgente che può essere fatto di schianto, anche agli inizi del cammino. Solo se la Chiesa attinge le sue risposte alla massima profondità (o altezza) possibile del “Mistero cristiano”, essa è in grado di recuperare e riproporre al mondo ogni sua verità dogmatica, morale e ascetica». Risponde così, il teologo carmelitano, p. Antonio Maria Sicari, riguardo alle attese del prossimo Sinodo dei vescovi. Una lunga e articolata intervista, pubblicata su “Dialoghi Carmelitani” (rivista legata alla spiritualità carmelitana), che tocca alcuni fra i temi maggiormente dibattuti nel corso dell’anno e che verranno affrontati prossimamente durante il Sinodo sulla famiglia.
Sta diventando corrente – afferma p. Sicari – questa persuasione: «se molti si allontanano dalla Chiesa, bisogna prenderne atto e andar loro incontro, valorizzando la positività che c’è in ogni cammino umano. Si può tuttavia muovere a questo approccio una fortissima obiezione: quando l’evangelizzazione cristiana era ai suoi inizi, la Chiesa si trovò davanti a un mondo già ben consolidato nelle sue persuasioni antropologiche e in costumi (familiari e sessuali) del tutto dissonanti. Se ci fu mai nella storia cristiana un momento in cui poteva sembrare importante dimostrare tolleranza, pazienza e misericordia verso una società lontanissima dagli ideali evangelici e non attrezzata a comprenderli – nemmeno dal punto di vista concettuale – fu proprio quello degli inizi. E la Chiesa divenne sì esperta di pazienza pedagogica e di misericordia, ma non prima d’aver proclamato l’intero ideale cristiano (anche sulla famiglia, sulla sessualità, sulla illiceità di tanti comportamenti allora ritenuti perfino ovvii) e di provocare, nelle società allora esistenti, uno shock salutare ponendo la sua “radicale differenza”, subendo persecuzioni e offrendo anche l’evidenza della testimonianza eroica dei suoi fedeli».
Il Sinodo dei vescovi, probabilmente, opererà un giudizio relativamente ai diversi i tipi di famiglia che chiedono di essere riconosciuti, alla pari con quella tradizionale, e sono in tanti ad attendere un chiarimento. A tal proposito, il teologo carmelitano afferma: «Strettamente parlando, il Sinodo (e la stessa Chiesa) non hanno “un giudizio da dare”, ma “una verità da affermare”: quella che Dio stesso ha rivelato. Il giudizio, quando è necessario, nasce dalla difformità che si può e si deve riscontrare tra le scelte e i comportamenti umani e la verità che la Chiesa deve annunciare al mondo. La rivelazione biblica (ripresa decisamente e con forza da Gesù), ci dice, dunque, che esistono due modi di essere “umani” e due modi di “essere corpo”, che si completano reciprocamente, e ci avverte che bisogna “abbracciarli” in un unico sguardo (e poi anche “vederli abbracciati!”). Proprio in tempi recentissimi la Chiesa ha ricevuto al riguardo, dal Papa San Giovanni Paolo II, una “catechesi” sistematica e approfondita (ben 136 catechesi!). Sarebbe un errore trascurarla e non farla diventare un testo permanente da gustare e approfondire. Ai nostri giorni la Chiesa ha il dovere di affermare – come faceva Papa Wojtyła – che è essenziale avere “una coscienza beatificante del significato sponsale del corpo”. Si tratta di dire con tutta chiarezza che ogni corpo umano ha fame di una oggettiva felicità, ma nessuno di essi se la può dare da se stesso, se è privo della capacità di completarsi in un corpo diverso e in un’altra anima, e poi in un altro nuovo essere, corporalmente e spiritualmente generato dall’unione del corpo maschile con quello femminile. Secondo la rivelazione biblico-cristiana tutto ciò sta alla base della vocazione dell’uomo alla felicità. Può forse la Chiesa dimenticarlo o lasciare che ciò venga dimenticato? Può la Chiesa trascurare l’annuncio della felicità? È lecito o no alla Chiesa ricordare agli uomini che ogni altra scelta o ogni altra combinazione di corpi conserva e rivela una certa incompiutezza e una certa tristezza?».
Tutto, però, può essere accolto e perdonato dalla infinita misericordia di Dio, ed questa stessa che rilancia il senso del mistero cristiano e, legato a ciò, il tentativo di operare una svolta nella vita del credente. Riguardo a tale questione, e in vista anche del prossimo Giubileo, p. Sicari precisa: «La misericordia, prima di essere l’atteggiamento che Dio assume in seguito ai nostri peccati, è l’atteggiamento proprio del Creatore e Padre verso tutti gli uomini, sue creature, da Lui infinitamente amate. Non sono i nostri peccati la “causa” della misericordia di Dio! Ne deriva che la Sua misericordia risplende maggiormente nel mondo là dove c’è più desiderio e accoglienza della paternità di Dio, e non là dove si commettono più peccati. […] Le parole di Gesù non vanno mai interpretate, prescindendo dalla Persona di Gesù! Il Primogenito Gesù è “il volto della Misericordia del Padre”. In questo senso parlare di “Misericordia di Dio onnipotente” significa dire che Dio Onnipotente può tutto ciò che vuole e vuole poter perdonare ogni peccato, per quanto grande esso sia. Ma Dio non vuole mai impiegare la sua onnipotenza per rendere vana la libertà dell’uomo. Ed è quindi sbagliato pensare che Egli possa vanificare la nostra libertà ricorrendo alla “onnipotenza della sua Misericordia”».
Di fronte all’annoso problema sulla possibilità di concedere l’Eucaristia ai divorziati risposati, Sicari ritiene che ogni cristiano dovrebbe «interrogarsi sulla qualità delle relazioni che intrattiene con Dio e con Gesù. Non sono soltanto i divorziati “risposati” a non poter ricevere l’Eucaristia, d’altra parte, ma tutti i cristiani che sanno d’aver gravemente offeso Dio e intendono persistere nell’offesa. Non è la Chiesa che nega loro l’Eucaristia, ma il fatto oggettivo che all’Eucaristia da sempre accede chi, attraverso la confessione, ha riconosciuto la propria situazione di peccato e ne ha chiesto perdono. I “risposati”, prima di porre desideri e necessità spirituali, e di invocare diritti, dovrebbero confrontarsi, nel modo più semplice e sincero possibile, con questa parola di Gesù chiaramente attestata dal Vangelo: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi. (…). Perciò io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio”. (Mt 19, 4-9). Non si può far coesistere l’abbraccio intimo a Cristo con la disobbedienza grave alla sua Parola».
Ma che cosa impedisce loro di ricevere l’Eucaristia come “perdono” e aiuto? «Nei divorziati-risposati – prosegue il teologo – ci sono, in senso oggettivo, due situazioni di peccato. C’è il peccato commesso da chi ha voluto e provocato il divorzio (e può trattarsi di ambedue i coniugi o di uno solo di essi). Questo peccato può essere perdonato (quando la rottura tra i coniugi è irreversibile) se ci si pente del male fatto e se si riparano tutti i torti commessi con la rottura del patto coniugale. C’è poi il peccato di adulterio, commesso da chi si risposa. Questo non può essere perdonato finché i due persistono nel considerarsi “una sola carne”, cioè nel possesso coniugale. Nessun peccato può essere perdonato se chi lo commette non lo considera tale o si ostina in esso. Può invece accadere che due divorziati-risposati si trovino legati dai reciproci obblighi che hanno assunto, (soprattutto verso dei figli) e li vivano con vero amore e generosità. In tal caso la loro convivenza può essere perdonata (e possono ricevere anche l’Eucaristia, là dove non destano scandalo), ma soltanto se rinunciano al reciproco possesso coniugale, riconoscendo così di non poter essere, davanti a Dio, “marito e moglie”. Se non lo fanno e finché non lo fanno, la Chiesa non li considera scomunicati né in alcun modo li abbandona: li invita anzi ad un percorso di accompagnamento e di discernimento per vivere l’esperienza cristiana ed ecclesiale nel miglior modo possibile. Chiede loro soltanto di restare davanti all’Eucaristia con umile e ardente desiderio e in “stato di preghiera” (si vive allora l’esperienza della “comunione spirituale” che può essere molto gradita a Dio) riconoscendo di essere, nella Chiesa, in uno stato oggettivamente difforme dalla volontà Dio e affidandosi comunque a Dio stesso: Lui sa quello che giova alle sue creature e le farà maturare se trova in loro umiltà e sincerità di cuore».
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