Padova, 12 November, 2020 / 6:00 PM
Nagorno Karabakh, un piccolo paese “aggrappato alle montagne”, “un giardino segreto”, il cui nome incantatorio evoca un luogo fiabesco, grembo ideale per partorire storie, leggende, canti e poesie.
Questo è il paese incantato per cui oggi soffre la nota scrittrice Antonia Arslan, un paese insanguinato, cosparso di rovine e macerie. Anche se proprio in questi giorni la guerra del Nagorno-Karabakh che ha infuriato per un mese registra una concreta battuta d’arresto: l’accordo sottoscritto da Armenia e Azerbaijan sotto la supervisione di Putin vede il passaggio di tre distretti della regione autonoma sotto il controllo di Baku, mentre il resto rimane sotto il controllo di Erevan.
L’esercito russo andrà a interporsi, come forza di pace, tra i duellanti, congelando la situazione per i prossimi cinque anni, durante i quali si spera di sciogliere nodi rimasti tali dalla fine della guerra precedente (1991-94). Molti osservatori hanno già definito questo come un accordo che, di fatto, vede uscire come “vincitrice” la Russia di Putin. E l’Armenia è già scossa da proteste e tumulti, suscitati da una parte del popolo che si sente tradita da questi accordi, che pensa che alla fine sia stati gli azeri ad imporsi con la forza e a mettere sotto il loro “tallone” una buona parte dei territori che erano riusciti a conquistare l’indipendenza.
Finirà, l’eterna contesa? Le speranze non sono molto fondate, se si considera che questo conflitto ha radici profonde nel tempo, comprimari e interessi strettamente connessi tra di loro. E nello stesso tempo questo ennesimo capitolo del conflitto ha rivelato alcuni aspetti inquietanti che l’Occidente non vuole guardare in faccia. Per questo, nei primi giorni di ottobre, la Arslan, insieme a molti altri protagonisti del mondo culturale e molti cittadini, ha rivolto un vibrante appello affinché l’Occidente non abbandoni l’Armenia alle ennesime, violente aggressioni. “È ormai da più di una settimana”, iniziava il testo dell’appello, “che il popolo armeno in Armenia e in Artsakh (Nagorno-Karabakh) sta respingendo la massiccia offensiva militare dell'Azerbaijan supportata apertamente dalla Turchia. La capitale Stepanakert e le altre città e villaggi dell’Artsakh, gli ospedali e le scuole, sono bombardate con bombe a grappolo, con missili, cacciabombardieri e droni kamikaze. Il numero delle vittime civili sta crescendo. Anche diversi giornalisti della stampa internazionali sono rimasti feriti”.
In seguito, il numero delle vittime è cresciuto, così come quello delle devastazioni. “Questa situazione, nonostante oggi si sia convinti di essere arrivati ad una svolta, mostra le reali intenzioni di chi ha voluto scatenare la nuova fase del conflitto. Dimostra che l’Armenia, ancora una volta, è in balia della violenza e dell’aggressività, e per l’ennesima volta, nella sua dolorosa storia, deve affrontare la paura, la guerra, la devastazione. Provo molta angoscia e non riesco a guardare con ottimismo al futuro”.
Antonia Arslan, scrittrice, studiosa, docente, è una grande divulgatrice della storia e della cultura armena, protagonista della battaglia che da anni viene portata avanti per il riconoscimento del genocidio del popolo armeno ad opera dell’impero turco, agli inizi del Novecento. Una realtà ancora oggi negata Turchia e in particolare dall’attuale presidente turco, Erdogan. Ed è proprio la Turchia ad avere sostenuto – e a continuare a sostenere - l’Azerbaijan nello scontro armato con l’Armenia. Arslan spiega, durante un colloquio con Acistampa, quello che significa questo conflitto, quello che nasconde, anzi “ che neppure più Erdogan si cura di nascondere, quando ha affermato, qualche settimana fa, durante l’infuriare del conflitto armato, che era giunto il momento di “completare l’opera” riguardo all’Armenia. Parole che suonano molto sinistre, che rimandano al terribile 1915, quando il popolo armeno è stato trascinato lungo le strade dell’Anatolia, decimato dalla fame, dagli stenti, dalle violenze. Chi non è finito in quella polvere insanguinata, è morto nelle prigioni o nei rastrellamenti. Chi ha potuto è fuggito, dando origine ad una nuova, dolorosa diaspora”.
Ora si plaude, almeno momentaneamente, all’azione intrapresa da Mosca per bloccare l’escalation militare: “La Russia è una tradizionale alleata dell’Armenia, dunque la sua azione si inserisce in un quadro geopolitico molto preciso. La UE ha brillato per la sua assenza. Per la verità, il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto sentire la sua voce, ma la Germania, alleata dei turchi dalla fine dell’800, ancora una volta è rimasta in silenzio”.
Eppure, sottolinea la scrittrice, l’Europa avrebbe validi motivi per interessarsi concretamente di quel sta accadendo nel Caucaso, e non solo per questioni prettamente economici, ossia legati al petrolio azero. “L’Europa sottovaluta Erdogan: se riesce a piegare la resistenza armena a est, dilagherà anche verso ovest. Perché non dovrebbe coltivare questo desiderio? Perché dovrebbe pensare di essere seriamente ostacolato, che l’Europa sarà in grado di resistergli?”.
Gli armeni sono sempre stati una popolazione ponte fra Oriente e Occidente. “Oggi si parla tanto di ponti, ma si abbandona al proprio destino una popolazione che, fin dal Medioevo, ha avuto ottimi rapporti, ad esempio con la Repubblica di Venezia”, spiega la Arslan, ricordando che appunto “gli armeni vivono a Oriente ma conoscono e amano l’Occidente, ne siano sempre stati parte integrante. Forse nessuno più del monaco Mechitar incarna questa capacità di essere “ponte” tra Occidente e Oriente. A lui il doge di Venezia donò l’isola di San Lazzaro, in mezzo alla laguna, dove potè fondare il suo ordine, quello dei mecharisti”.
Gli armeni sono sotto attacco anche in quanto popolo cristiano, questo elemento viene messo in ombra, in realtà il conflitto ha una precisa valenza religiosa. “E’ stata messa in atto una sistematica distruzione di luoghi e simboli religiosi: sono state bombardate chiese, cimiteri, ci si è accaniti contro i khachkar , le antiche, bellissime croci scolpite nella pietra. In questi giorni, come nel passato, anche più recente.
Pensiamo a quanto è successo nell'antica Julfa, in Nakhichevan, enclave dell'Azerbaigian in territorio armeno. Alla fine del 2005 sono state rese pubbliche testimonianze, costituite da racconti e da materiale fotografico, che mostravano soldati azeri deliberatamente intenti alla distruzione dei cippi funerari. Fotografie più recenti hanno rivelato che l'intero cimitero è stato raso al suolo e che al suo posto è stato costruito un campo d'addestramento militare. Che altro significato può avere una distruzione tanto sistematica, se non il desiderio di cancellare, oltre che la sua presenza fisica, l’anima di un intero popolo?”, conclude amaramente Antonia Arslan.
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