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Un servizio di EWTN News

Diplomazia pontificia, la situazione in Bielorussia, Caucaso, Libano e Africa

L'incontro tra il ministro dell'Interno Karaev e l'arcivescovo Kondrusiewicz di Minsk, 21 agosto 2020

Nella settimana in cui il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, è stato in Francia per celebrare la festa dell’Assunzione a Lourdes, molti eventi internazionali hanno toccato, direttamente e indirettamente, la Santa Sede: dalla situazione nel Caucaso a quella della diga sul Nilo dell’Etiopia, dalle proteste in Bielorussia al golpe in Mali, sono molti i fronti in cui la Chiesa si deve barcamenare, sia con il suo sforzo diplomatico che con il lavoro dei vescovi locali. Resta poi aperta la situazione del Libano: il patriarca maronita Bechara Rai ha stilato un memorandum per un riconoscimento della “neutralità” attiva del Paese che metta fine alle infiltrazioni dall’esterno.

                                                FOCUS BIELORUSSIA

La situazione in Bielorussia: l’arcivescovovKondrusiewicz incontra il ministro dell’Interno

Su richiesta dell’arcivescovo di Minsk, c’è stato il 21 agosto un incontro tra l’arcivescovo Tadeusz Kondrusiewicz e il ministro dell’interno bielorusso Yuri Karaev. L’arcivescovo di Minsk ha espresso preoccupazione per la difficile situazione socio-politica nel Paese dopo le elezioni presidenziali e le azioni brutali delle forze dell'ordine, e ha sottolineato che la Chiesa cattolica è a favore dei deboli, e per questo non può rimanere silente.

Il ministro Karaev, dal canto suo, ha affermato di non aver mai ordinato una azione brutale delle forze dell’ordine e di simpatizzare delle vittime, e ha annunciato che è stata istituita una commissione interdipartimentale per indagare sugli atti di violenza. Il ministro ha anche sottolineato che non ci sono più dispersi, e che circa 40 persone restano agli arresti.

Il presidente della Conferenza episcoplae di Bielorussia ha informato il ministro degli Interni che i pastori della Chiesa sono molto turbati dal fatto che i sacerdoti cattolici non hanno l'opportunità di visitare i prigionieri nelle carceri e nelle carceri di custodia cautelare. Il ministro ha promesso di prendere in considerazione la questione, che sarà ulteriormente segnalata alle autorità ecclesiastiche.

Inoltre, il metropolita di Minsk e Mogilev ha aggiunto che le persone personalmente e altri sacerdoti gli chiedono di aiutare in situazioni difficili. 

In segno di pace, il Ministro degli Affari Interni ha consegnato al Presidente della CCCB una statuetta di San Michele Arcangelo, Guardiano della Chiesa in Bielorussia.

Da parte sua, l'arcivescovo Tadeusz Kondrusiewicz ha ringraziato le autorità per la loro disponibilità e per il tempo dedicato all'incontro di persona. Ha fornito l'occasione per trasmettere alle forze di sicurezza la posizione della Chiesa, che è fortemente contraria al trattamento crudele delle persone, perché ognuno è una persona che ha la propria dignità, e questa dignità deve essere sempre rispettata.

Lo stesso arcivesovo Kondrusiewicz è andato, lo scorso 19 agosto, a pregare davanti il centro di detenzione di via Akrestsin a Minsk, lì dove le persone arrestate durante le manifestazioni contro l’esito delle elezioni del 9 agosto che avevano confermato come presidente Aleksandr Lukashenko, in carica dal 1994.

L’arcivescovo Kondrusiewicz, che è anche presidente della Conferenza Episcopale Bielorussa, è andato sotto la pioggia nella strada adiacente al centro di dentezione. Insieme a lui, lo staff della Caritas, il Christian Social Center “Charity Mission of the Good Samaritan”, i volontari che stanno cercando di sostenere le persone in situazioni difficili.

Non è stato concesso all’arcivescovo di entrare nel centro, e così questi si è soffermato in preghiera per strada, nella pioggia, insieme ad un gruppo di fedeli. Quindi, l’arcivescovo ha parlato per più di una ora con quanti erano stati detenuti nel centro.

L’arcivescovo Kondrusiewicz ha più volte chiesto il rilascio di tutti i civili detenuti illegalmente durante le proteste, facendo anche un appello per la verità delle elezioni. La sua richiesta è stata anche esposta in una lettera aperta, pubblicata sul sito della Chiesa bielorussa il 14 agosto, destinata al presidente Lukashenko e a tutti coloro che detengono i poteri.

Le proteste in Bielorussia sono montate quando, lo scorso 9 agosto, i risultati elettorali avevano dato una schiacciante vittoria del presidente uscente Lukashenko con l’80 per cento dei voti. Il risultato ha fatto crescere il sospetto di brogli elettorali, mentre Svetlana Tikhanovskaja, leader dell’opposizione, è fuggita in Lituania per evitare scontri.

Il risultato elettorale è stato plaudito sia dal patriarca di Mosca Kirill che dal metropolita di Minsk Pavel, mentre l’11 agosto l’arcivescovo Kondrusiewicz è stato il primo ecclesiastico a chiedere un dialogo sociale e proporre una tavola rotonda, compattando tutti i vescovi cattolici sulla sua posizione. Il 13 agosto, c’è stata una marcia e preghiera per la pace dal sapore ecumenico, che serviva anche a dimostrare come poter portare avanti le proteste in maniera pacifica

Questo sforzo ha fatto cambiare anche posizione alla Chiesa ortodossa in Bielorussia, che tra l’altro dipende da Mosca: il 12 agosto, senza esporsi troppo, il metropolita Pavel e il suo sinodo limano il consenso a Lukashenko, e poi il 15 agosto pubblica con il sinodo una lettera che denuncia violenza, tortura, umiliazione, detenzioni ingiustificate, estremismo in tutte le sue forme, menzogne e tradimento» ricondotte in particolare alla polizia e ai centri di custodia cautelare. I vescovi non nominano il presidente Lukashenko, affermano di rimanere «fuori dalla politica» e di essere «dalla parte del popolo!”.

Il 16 agosto, Papa Francesco chiede dialogo e rinuncia alla violenza nel Paese dall’Angelus, mentre a Minsk arrivano tra le 100 e le 200 mila persone per chiedere l’annullamento delle elezioni

Il 17 agosto, dopo una contestazione, Lukashenko ha promesso una nuova Costituzione con relativo referendum e non esclude nuove elezioni. Il 18 agosto, l’arcivescovo Kondrusiewicz ha presieduto una manifestazione per la pace a sostegno dei dimostranti.

                                                FOCUS CAUCASO

Conflitto armeno-azero, il punto di vista dell’ambasciatore di Azerbaijan presso la Santa Sede

Prosegue il botta e risposta tra Armenia e Azerbaijan sulla questione del Nagorno Karabach, che ha visto una escalation nella regione a metà dello scorso mese, che ha causato 16 vittime, e della quale armeni e azeri si attribuiscono reciproche responsabilità, cosa che aveva suscitato l’attenzione del Papa all’Angelus dello scorso luglio.

In una dichiarazione rilasciata ad ACI Stampa, l’ambasciata di Azerbaijan presso la Santa Sede aveva accusato gli armeni di essere responsabili dell'escalation, affermando tra l’altro che in questo modo l’Armenia voleva mettere in gioco l’idea che l’Azerbaijan potesse essere un partner affidabile nella gestione del gas. L’ambasciatore armeno aveva invece rimandato al mittente le accuse, sottolineando invece le responsabilità dell’Azerbaijan e puntando anche il dito contro una longa manus turca dietro le attività azere.

L’ambasciatore di Azerbaijan presso la Santa Sede Rahman Saih oglu Mustafayev ha voluto ulteriormente chiarire la sua posizione. In dichiarazioni rese ad ACI Stampa, ha parlato di “provocazione armata” nella regione di Tovuz, che ha “inferto un duro colpo al processo di pace sulla risoluzione del conflitto armeno-azero del Nagorno Karabach”.

L’ambasciatore Mustafayev sottolinea che la situazione ha minato la fiducia azera nel Gruppo di Minsk e nell’OSCE, ma che ha intenzione di andare avanti seguendo anche l’appello del Papa, “equilibrato e costruttivo”, a coinvolgere la comunità internazionale.

(La storia continua sotto)

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Secondo l’ambasciatore, “il quadro giuridico e politico per la soluzione del conflitto è stato definito nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1993, nonché nelle successive decisioni dell'OSCE, in particolar modo il vertice OSCE di Budapest del dicembre 1994”.

L’ambasciatore nota che si tratta di “un approccio graduale”, che significa, afferma, come prima cosa “il ritiro immediato, completo e incondizionato delle forze armate dell’Armenia da tutti i territori occupati dell’Azerbaijan”, quindi “il ripristino delle relazioni distrutto e dei legami tra comunità armena e azera nel Nagorno Karabch”, e infine lo sviluppo economico della regione, che dovrebbe coinvolgere la comunità armena.

Riguardo lo status dei territori, l’ambasciatore Mustafayev punta il dito contro l’Armenia, che interpreterebbe “a proprio piacimento” il principio di autodeterminazione, e che questo principio è già stato soddisfatto dall’Armenia con la costituzione del suo Stato nel 1991, ma non può essere soddisfatto a discapito di altri Stati Sovrani.

Per quanto riguarda la situazione dei diritti umani nella regione, l’ambasciatore Mustafayev sottolinea che “quasi 700.000 azeri, russi e curdi sono stati deportati da 7 dipartimenti adiacenti al Nagorno-Karabach e occupati nel 1992-1993. Inoltre, 40.000 azeri sono stati espulsi dal Nagorno-Karabach, il che rappresenta più del 21% della popolazione della regione dall'inizio del conflitto nel 1988. Tutti questi rifugiati hanno diritti e libertà e devono essere ripristinati”.

“In altre parole – conclude l’ambasciatore - la nostra posizione sul rispetto dell'integrità territoriale dell'Azerbaigian e sull'autodeterminazione del Nagorno-Karabach nella sua interezza, proteggendo i diritti e le libertà delle sue due comunità, quella armena e quella azera, si basa su un chiaro quadro giuridico internazionale. Ma una solida base legale non è sufficiente per andare avanti. C’è bisogno, come ha giustamente sottolineato il Pontefice, del coinvolgimento attivo della comunità internazionale e della buona volontà delle parti in conflitto”.

                                                    FOCUS LIBANO

Libano, il memorandum del Cardinale Bechara Rai per una “neutralità attiva”

Dopo l’esplosione del 4 agosto che ha causato circa 180 morti, diversi dispersi, 7 mila feriti e oltre 300 mila sfollati, il Cardinale Bechara Boutros Rai, patriarca dei Maroniti, che da tempo mette in guardia sull’aggravarsi della situazione sociale in Libano, ha pubblicato un lungo memorandum. Il memorandum è una difesa della “neutralità del Libano” e del modello dello Stato, e arriva in un momento particolarmente difficile per la nazione. L’esplosione era arrivata, infatti, alla vigilia della sentenza del Tribunale Speciale dell’Aja per l’attentato nel centro di Beirut che il 14 febbraio 2005 provocò la morte dell’ex presidente Rafiq Hariri e altre 21 persone. La sentenza, poi emessa il 18 agosto, si è conclusa con un condannato latitante e tre assolti per insufficienza di prove. I quattro sono tutti attivisti di Hezbollah, sigla contro cui il Cardinale Rai non aveva mancato di puntare il dito prima dell’esplosione, accusandola in pratica della destabilizzazione del Paese.

Il memorandum del Cardinale Bechara Rai, pubblicato il 17 agosto, riprende le proposte che il cardinale ha lanciato a più riprese, in particolare nell’omelia del 5 luglio e del 16 agosto.

Nel memorandum, il Cardinale ricorda il suo appello all’ONU per “operare per il consolidamento dell’indipendenza del Libano e della sua unità, di applicare le risoluzioni delle Nazioni Unite che lo riguardano e di riconoscere la sua neutralità”.

Il cardinale nota che solo il Libano neutrale potrebbe essere “in grado di contribuire alla stabilità regionale, di difendere i diritti dei popoli arabi e la causa della pace, di assumere un ruolo nella concretizzazione di relazioni giuste e sicure tra i Paesi del Medio Oriente e dell’Europa”.

Il cardinale dice che l’appello ha avuto “larga approvazione da diverse confessioni e partiti politici”, sottolinea che “può darsi che la neutralità del Libano, sotto l’aspetto costituzionale, non fosse presente nello spirito dei fondatori dello Stato del Grande Libano”, ma ricorda che il tema era comunque presente “come politica di difesa e relazioni con l’estero”, e questo è stato chiaro quando come modello della Costituzione libanese del 1926 è stata scelta la Costituzione Svizzera, e quando poi nel 1945, durante la redazione della Carta della Lega dei Paesi Arabi, il Libano ha dichiarato di impegnarsi per “la neutralità tra Oriente e Occidente”.

È stata una politica – continua il patriarca dei Maroniti – che ha permesso al Libano di mantenere l’unità territoriale, e questo anche quando il fattore palestinese è entrato sulla scena interna con l’inizio delle attività militari che hanno portato allo scoppio della guerra del 1975.

Il Cardinale sottolinea che lo Stato libanese ha accettato di compromettere la sua sovranità solo “di fronte alla divisione tra cristiani e musulmani che ha bloccato il governo del Paese”, e così si è firmato l’accordo del Cairo del 1969 che “autorizzava le organizzazioni palestinesi a compiere operazioni militari contro Israele.

Il Cardinale Rai ha poi ricordato in successione i fatti della guerra, dall’occupazione di Israele alla dominazione di organizzazioni palestinesi all’ingresso dell’esercito siriano, tutti fatti che “si sono verificati a causa delle deviazione del Paese dalla politica di neutralità”.

Insomma, nel centesimo anniversario della Costituzione, il Libano non può essere “Paese – messaggio”, come lo definì Giovanni Paolo II, senza “adottare il regime di neutralità”.

Il memorandum spiega le tre dimensioni della neutralità attiva del Libano: “il rifiuto definitivo di entrare a far parte di a far parte di coalizioni, assi, conflitti politici e guerre regionali e internazionali”, la “solidarietà del Libano con le cause dei Diritti dell’Uomo e della Libertà dei Popoli”, che significa anche “proseguire a difendere i diritti del popolo palestinese”; e infine il rafforzamento dello Stato libanese, anche dal punto di vista militare, per preservarne i confini dopo aver definito la delimitazione delle frontiere con Israele e con la Siria.

Secondo il Patriarca Bechara Rai, la neutralità “salva la neutralità del Libano e rianima la collaborazione nazionale islamo-cristiana” e rafforza l’economia.

Per questo, il Cardinale Rai si appella alle Nazioni Unite perché “essa definisca quando sarà il momento lo Statuto di neutralità”.

                                                FOCUS VATICANO

Papa Francesco, la questione di Etiopia e Sudan

Durante l’Angelus di Ferragosto, Papa Francesco ha detto di seguire con particolare attenzione la situazione delle difficili negoziazioni sulla questione del Nilo tra Egitto, Etiopia e Sudan. Il Papa ha chiesto che il “fiume eterno” possa continuare ad essere linfa di vita e che non divida, e che “nutra sempre amicizia, prosperità, fraternità e mai l’inimicizia”.

Le negoziazioni riguardano la gigantesca diga idroelettrica del Nilo impiantata ad Addis Abeba, chiamata “La Grande Diga del Rinascimento Etiope”. I negoziati sono stati lunghissimi, e ora si sta lavorando all’unificazione dei testi degli accordi sottomessi dalle tre nazioni. La decisione di ripristinare il dialogo è arrivata durante gli incontri gestiti dall’Unione Africana tra i ministri degli Esteri e dell’Acqua delle tre nazioni.

La diga – conosciuta anche con l’acronimo inglese GERD – è stata oggetto di controversie da quando l’Etiopia ha iniziato il progetto – del valore di 4 miliardi di dollari – nel 2011. Egitto, Etiopia e Sudan hanno parlato per anni, attraverso moltissimi mediatori, senza però riuscire a trovare una soluzione. Il punto è che la diga, sul Nilo Blu, va a colpire un affluente del Nilo che è la fonte di circa l’85 per cento del fiume Nilo e rischia così di far rimanere senza approvvigionamenti Etiopia e Sudan.

Si cerca, dunque, un accordo che garantisca i diritti e gli interessi di tutte le nazioni coinvolte. L’Egitto dipende completamente dal Nilo per approvvigionare le sue fattorie e la sua popolazione di 100 milioni di persone, e la diga pone un problema esistenziale alla Nazione. Il Sudan, da parte sua, sostiene che il progetto potrebbe anche danneggiare le proprie dighe.

Papa Francesco nomina il nuovo nunzio a Panama

L’arcivescovo Luciano Russo è il nuovo nunzio a Panama. Succede all’arcivescovo Miroslaw Adamczyk, che Papa Francesco ha nominato lo scorso febbraio come suo “ambasciatore” in Argentina.

L’arcivescovo Russo, classe 1963, sacerdote dal 1988, è entrato nel 1993 nel servizio diplomatico della Santa Sede e ha svolto servizio nelle nunziature in Papua Nuova Guinea, Honduras, Siria, Brasile, Paesi Bassi, Stati Uniti d'America e Bulgaria.

Nel 2012, Benedetto XVI lo ha nominato nunzio in Rwanda, mentre nel 2016 è stato nominato nunzio in Algeria e Tunisia.

Ha un dottorato in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Lateranense, con una tesi sulle “Organizzazioni Internazionali”.

La visita del Cardinale Parolin a Lourdes

Nel giorno di Ferragosto, il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, è stato a Lourdes. È il secondo viaggio in Francia nel mese, dopo quello ad Ars del 4 agosto per ricordare San Giovanni Maria Vianney, e il terzo viaggio dall’emergenza pandemia, dato che il cardinale è stato anche in Spagna per ordinare arcivescovo il nuovo nunzio in Sudan.

I festeggiamenti dell’Assunta a Lourdes si sono tenuti in condizioni speciali per via della pandemia: accesso limitato a 10 mila persone, divieto di toccare parti della grotta di Massabielle, obbligo di mascherina. La presenza del Segretario di Stato vaticano alle celebrazioni è una rarità.

Nell’omelia, il Cardinale Parolin ha sottolineato che Maria è “segno di consolazione e speranza”, specialmente in questo periodo di pandemia che “ancora minaccia tutta l’umanità e per i tanti conflitti e tensioni che affliggono il nostro mondo”. Si tratta – ha detto il Segretario di Stato vaticano – di “un mondo che conosce l’oscurità, la paura, il dominio degli assassini, la concorrenza sleale, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e il disorientamento”.

La presenza del Segretario di Stato ha celebrato anche il 175esimo della Congregazione degli Agostiniani dell’Assunzione, che per l’occasione stanno tenendo un pellegrinaggio nazionale.

Parlando agli Agostiniani dell’Assunzione, il Cardinale Parolin ha descritto loro “volto sfaccettato” in cui si riflette quello del loro fondatore, Emmanuel d’Alzon.

È un volto che è chiamato ad affrontare oggi un “cristianesimo che muta e che abbraccia una trasformazione antropologica dagli esiti incerti”, e per questo non ci si deve fermare al passato, ma piuttosto “mettersi in moto perché la fine diventi un nuovo inizio, una nuova tappa nel continuo cammino attraverso il quale la gioia del Vangelo si costruisce una tenda in mezzo agli alti e bassi dell’umanità”.

Il Cardinale Parolin ha sottolineato che è anche necessario cambiare modi e atteggiamenti dell’evangelizzazione, dato che “non siamo più gli unici oggi a produrre cultura, né i primi, né i più ascoltati”, e chiede di abbracciare una mentalità pastorale che non è relativistica, ma che parta dalle nostre città, anche per affrontare il calo delle vocazioni.

                                                            FOCUS AFRICA

ISIS in Mozambico, la telefonata di Papa Francesco al vescovo di Cabo Delgado

Papa Francesco ha chiamato lo scorso 19 agosto al vescovo Luiz Fernando Lisboa, vescovo di Pemba, in Mozambico, per esprimergli vicinanza riguardo la difficile situazione che si vive a Cabo Delgado. Da tempo, la regione è sotto l’attacco dei militanti islamici, tanto che Papa Francesco la ha menzionata anche durante il messaggio urbi et orbi di Pasqua. Recentemente, i militanti ISIS si sono anche appropriati di uno dei porti più importanti.

Il vescovo Lisboa ha raccontato che il Papa ha affermato la sua vicinanza a lui e e alla popolazione, ha sottolineato di seguire “con grande preoccupazione” la situazione nella provincia e ha chiesto al vescovo se c’è altro che può fare.

Da parte sua, il vescovo ha ringraziato anche per la menzione della crisi nell’urbi et orbi di Pasqua, menzione che che “ha creato molto più interesse” da parte di tutti, da dentro o fuori il Mozambico.

Il vescovo ha poi parlato al Papa della “difficile situazione di Mocimbos de Praia, che è in procinto di essere presa dagli insorti, e del fatto che le religiose della Congregazione di San José de Chamberry che lavorano lì non hanno contatti con la diocesi da una settimana”.

Papa Francesco ha anche ricordato la sua visita in Mozambico del 2019, e ha detto di fare riferimento per gli aiuti al Cardinale Michael Czerny, del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Integrale.

Il porto di Mocimba de Praia è stato preso dagli insorti lo scorso 11 agosto, dopo quasi cinque giorni di scontri tra la Marina Mozambicana, che ha difeso il porto finché non sono rimasti a corto di munizioni. Il sedicente Stato Islamico ha pubblicato foto di militari mozambicani morti nei suoi canali di comunicazione.

Il porto di Mocimboa da Praia è importante e strategico, in particolare per i progetti sul gas che sono in corso e sono rimasti senza elettricità e comunicazione per diverse settimane per via dei danni causati dall’attacco.

Zimbabwe, il governo convoca il nunzio

Il 14 agosto, i vescovi dello Zimbabwe hanno pubblicato una dura lettera pastorale sulla condotta delle istituzioni durante le proteste nazionali e la repressione che ne è seguita il 31 luglio scorso. Il governo del presidente Mnanagagwa ha reagito con durezza alla lettera pastorale, e ha attaccato in particolare l’arcivescovo Robert Christopher Ndlovu, di Harare, presidente della Conferenza dei Vescovi cattolici dello Zimbabwe.

L’arcivescovo Paolo Rudelli, nunzio apostolico nel Paese, ha voluto dunque portare personalmente la sua solidarietà il 16 agosto, in un atto simbolico di solidarietà con tutti i vescovi del Paese È stato reso successivamente noto che il governo ha convocato il nunzio, per chiarire se la posizione dei vescovi locali rispecchia quella della Santa Sede.

Le proteste in Zimbabwe sono state scatenate dalla malagestione della crisi economica e sanitaria. Le proteste di piazza sono avvenute sotto lo slogan #ZimbabweanLivesMatter, ma l governo ha messo a tacere ogni forma di dissenso con dure repressioni, criticate da diversi osservatori, come Amnesty International anche per la violazione di diritti umani contro attivisti, giornalisti e popolazione.

Nella lettera pastorale dei vescovi, sono contenute osservazioni che sono state fatte anche da varie altre organizzazioni.

“La paura – hanno scritto i vescovi - corre lungo la spina dorsale di molte delle nostre persone oggi. La repressione del dissenso è senza precedenti. È questo lo Zimbabwe che vogliamo? Avere un'opinione diversa - scrivono i vescovi - non significa essere un nemico. È proprio dal contrasto di opinioni che nasce la luce".

I vescovi hanno anche sottolineato che “l'appello alle manifestazioni è l'espressione della crescente frustrazione e dell'aggravamento causato dalle condizioni in cui si trova la maggior parte dei cittadini dello Zimbabwe. La repressione della rabbia della gente non può che servire ad approfondire la crisi e portare la nazione in una crisi più profonda".

I vescovi hanno anche accusato il governo di non essersi preso responsabilità per le situazioni, avendo invece scaricato le colpe su “stranieri, colonialismo e altri detrattori interne”, e lamentato il modo ingiusto in cui sono stati distribuiti gli strumenti sanitari necessari per far fronte alla pandemia di Covid-19.

I vescovi hanno concluso la lettera facendo un appello per “la pace e la costruzione nazionale attraverso l’impegno inclusivo, il dialogo e la responsabilità collettiva per la trasformazione”.

Solidarietà ai vescovi dello Zimbabwe è arrivata da parte di cattolici e non cattolici. In particolare, la Federazione luterana mondiale (Flm), il Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), la Comunione mondiale delle chiese riformate (Wcrc) e il Consiglio metodista mondiale hanno inviato una lettera pastorale nella quale si esprime solidarietà a tutte le chiese e al popolo dello Zimbabwe impegnati nella difesa dei diritti umani, nella lotta per la giustizia e la sicurezza fisica ed economica delle proprie comunità.

Da parte sua, il governo ha attaccato il nunzio, facendo cadere il sospetto che le sue azioni non riflettessero invece il pensiero della Santa Sede e di Papa Francesco. Monica Mutsvangwa, ministro dell’Informazione, ha anche definito l’arcivescovo Ndlovu come “errante e cattivo”.

La situazione in Zimbabwe è difficilissima, l’inflazione è oltre al 700 per cento e la nazione soffre anche di disoccupazione di massa e mancanza di cibo e medicine, il tutto nel mezzo della pandemia del coronavirus.

Golpe in Mali, il lavoro della Chiesa per il dialogo

Dopo il colpo di Stato avvenuto in Mali il 18 agosto, l’abate Alexandre Denou, segretario generale della Conferenza Episcopale del Mali ha spiegato a Vatican News l’impegno della Chiesa in questa difficile transizione. In particolare, la Chiesa cattolica chiede che ci sia una “transizione politica in un tempo ragionevole”, e chiedono il dialogo tra tutte le componenti sociali per ristabilire la democrazia.

Il golpe in Mali è avvenuto ad opera dei militari guidati dal colonnello Assimi Goita. Questi hanno preso il potere rovesciando la presidenza di Ibrahim Boubacar Keita con lo scopo dichiarato di stabilire un nuovo sistema democratico che coinvolga anche ampie fasce dalla società civile. Obietivo che la comunità internazionale contesta, anche perché avviene attraverso un colpo di Stato.

Il Mali si trova di fronte a un bivio, colpito, tra l’altro, da crisi economica, corruzione e violenza jihadista.

Parlando con Vatican News, l’abate Denou ha spiegato che la Chiesa cattolica locale sta lavorando come “ponte” tra le varie componenti sociali, sottolineando che quelli che hanno preso il potere sono chiamati ad adoperarsi per “riportare quella sicurezza che noi aspettiamo da tanto tempo”.

L’abate Denou ha ricordato che la Chiesa è “una minoranza, ma viene molto ascoltata”, e si è “impegnata molto, si è unita alle altre confessioni per portare una voce unica”, e ha sempre sostenuto il dialogo”. Ma sottolinea che la Chiesa potrà accompagnare la transizione “non solo attraverso una linea di pensiero, ma anche attraverso una preghiera”.

Già nel 2012 il Mali fu soggetto ad un colpo di Stato militare. Nel mezzo delle notizie del colpo di Stato, il primo di cui si abbia notizia in questo 2020, resta anche la preoccupazione per la sorte di suor Gloria Narvaez, religiosa di 59 anni di origine colombiana che è stata rapita nel 2017. La famiglia Narvaez spera di poter avere un maggiore dialogo con i militari, puntando alla liberazione di suor Gloria.

Questa era in missione nella regione di Sikasso, sei ore al Nord di Bamako, quando è stata rapita insieme ad altre tre missionarie da un gruppo jihadista.

Suor Gloria è solo una delle migliaia di vittime del conflitto aperto in Mali da Al Qaeda, cominciato proprio nel 2012 dopo l’altro colpo di Stato militare.

                                                            FOCUS EUROPA

Il Cardinale sloveno Rodé loda gli sforzi per superare le divisioni che provengono dalla Seconda guerra Mondiale

Il Cardinale Franc Rodé, prefetto emerito della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, ha lodato la scorsa settimana il presidente di Slovenia Borut Pahor e il Primo Ministro Janesz Jansa per i loro sforzi per la riconciliazione nazionale e per superare le dimissioni che restano dalla Seconda Guerra Mondiale.

“Abbiamo aspettato per lungo tempo – ha detto il Cardinale – un uomo di Stato con il coraggio e la comprensione che la leadership è l’unico veicolo di riconciliazione”.

Il Cardinale Rodé ha detto che questo processo di riconciliazione è iniziato a giugno, quando Pahor e Jansa, insieme, hanno posto una corona di fiori al cimitero della Guardia Nazionale e allo stesso tempo onorato la memoria dei partigiani uccisi dalla Guardia Nazionale.

                                                            FOCUS ASIA

Verso l’accordo Santa Sede – Cina. La questione dei vescovi

Sembra sia in dirittura di arrivo un rinnovo dell’accordo tra Santa Sede e Cina per la nomina dei vescovi. Dal momento dell’accordo, non ci sono state nuove nomine episcopali. Quelle che hanno avuto la doppia approvazione fino ad ora erano preparate da tempo. Restano, in Cina, più di 43 diocesi vacanti o rette da vescovi ultraottantenni. Il ricambio ci dovrà essere, e sarà molto ampio.

Nell’ultimo anno, ci sono state cinque installazioni ufficiali di vescovi. Scrivendo su Asia News, l’agenzia della Pontificio Istituto Missioni Estere, il missionario Picozzi ha però negato che questa doppia approvazione sia un frutto dell’accordo tra Cina e Santa Sede.

L’ultima installazione ufficiale è stata quella di Francesco Saverio Jin Yangke come vescovo ordinario della diocesi di Ningbo, avvenuta lo scorso 18 agosto. Il suo predecessore, il vescovo Matteo Hu Xiande, era morto due anni fa e lo aveva ordinato come suo vescovo coadiutore il 28 novembre 2012. Alla morte del vescovo Hu, il vescovo Jin gli era succeduto sia come capo della diocesi che dell’Associazione Patriottica locale, ma solo ora il Consiglio dei vescovi cinesi ha dato il consenso alla sua installazione. La celebrazione è stata presieduta dal vescovo Giuseppe Ma Yinglin, presidente del Consiglio, e ha avuto la partecipazione di circa 200 fedeli.

Era la quinta installazione ufficiale a vescovi ordinari di diocesi in Cina dall’accordo sino-vaticano, così come due ordinazioni episcopali.

Le ordinazioni sono quelle di Antonio Yao Shun di Jining (Mongolia interna), il 26 agosto 2019, e di  Stefano Xu Hongwei di Hanzhong (Shaanxi), il 28 agosto 2019, e la procedura era partita diversi anni prima, dunque non possono essere considerate frutto dell’accordo. Quindi, ci sono state due ufficializzazioni di vescovi “candestini”, Pietro Lin Jiashan di Fuzhou (Fujian) e  Paolo Ma Cunguo di Shuozhou (Shanxi). In particolare, il primo era in predicato da tempo di ricevere il riconoscimento, ma aspettava l’autorizzazione di Roma, finché ha accettato.

Le altre due installazioni, quella di  Pietro Li Huiyuan ordinato vescovo nel 2014 da Luca Li Jingfeng e succedutogli nel 2017) di Fengxiang, in Shaanxi e l’ultima di mons. Jin Yangke di Ningbo sono di vescovi già ufficiali, che dopo la morte del vescovo ordinario sono diventati loro successori, ma senza essere ufficialmente installati, perché la Conferenza episcopali per vari motivi ha tardato a dare il consenso.

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