Kaunas, 02 October, 2019 / 9:00 AM
Parlando con i membri del Dicastero per la Comunicazione, Papa Francesco ha fatto riferimento a lui, come esempio di testimonianza. Ma Sigitas Tamkevicius, gesuita di 80 anni, arcivescovo emerito di Kaunas, tutto si aspettava tranne di essere creato cardinale. La sua era stata una presenza silenziosa alle spalle di Papa Francesco, mentre il Papa, a Vilnius, visitava quella che era stata la prigione del KGB. E in quella prigione c’era stato anche lui, giovane sacerdote, per il suo lavoro di denuncia del sistema sovietico. Così, c’era anche Tamkevicius nel piccolo seguito che accompagnava Papa Francesco. E Papa Francesco se ne è ricordato nel momento di scegliere i nuovi cardinali.
Come ha preso la notizia di essere stato creato cardinale?
È stato inaspettato, e all’inizio, devo ammettere, la notizia mi ha disturbato un po’: alla mia età, gli onori contano meno, mentre è più importante comprendere cosa Dio voglia mostrarmi. Credo che il gesto di Papa Francesco sia molto importante, sia per me personalmente, ma soprattutto per la Chiesa in Lituania. È l’apprezzamento non solo della mia esperienza di vita, della croce che ho portato per un po’, ma piuttosto l’apprezzamento per la croce che tutta la nazione ha portato in tempi di oppressione di migliaia di persone che hanno combattuto per la libertà della loro fede.
Come è stata la visita di Papa Francesco al Museo dell’Occupazione e dei combattenti per la libertà?
La mia partecipazione a quella visita è stata più che altro una silenziosa testimonianza. C’era l’arcivescovo Gintaras Grusas, di Vilnius, che spiegava a Papa Francesco delle condizioni nelle prigioni, del sistema del KGB. Io ho visto che Papa Francesco ha vissuto l’esperienza profondamente. Ho visto in che modo intimo si è raccolto in preghiera, specialmente nella stanza delle esecuzioni, ma anche nelle stanze dove sono stati imprigionati altri vescovi, come il beato vescovo Teofilo Matulionis, l’arcivescovo Macislovas Reimis, l’arcivescovo Franziskas Maranauskas, l’arcivescovo Vincentas Boriciavinus, che fu condannato a morte. Io sono tornato in quella prigione molte volte, ero abituato. Ma chi visita la prigione per la prima volta resta davvero impressionato. Ed è stato il caso di Papa Francesco.
Lei ha parlato della stanza delle esecuzioni. Lì veniva eseguita la condanna a morte di molti, prelevati di notte, senza che nemmeno sapessero la loro sorte. Lei ha mai avuto paura di fare una fine simile?
Io sono stato 8 mesi in quella prigione, che era il tempo di indagine per il mio caso. Dopo, secondo il sistema sovietico, c’è stato un processo e la Corte Suprema mi ha condannato a dieci anni di prigione e lavori forzati in Siberia. Ma non mi sono mai aspettato di essere condannato a morte, perché, dopo la morte di Stalin, i combattenti per la libertà e per la libertà di coscienza non venivano più condannati a morte. Io mi aspettavo di essere condannato a 10 anni, una via di mezzo tra i 5 e i 15 anni di prigione generalmente dati per il mio tipo di reato. La mia previsione si rivelò azzeccata.
Lei è stato condannato per la pubblicazione delle Cronache della Chiesa in Lituania. Di cosa si trattava?
Ho finito il seminario a Kaunas nel 1962, e già allora si poteva percepire tutto il sofisticato sistema di persecuzione del regime sovietico. Era, per esempio, proibito ai preti di catechizzare bambini, il seminario poteva accettare solo cinque candidati da tutta la Lituania, c’erano limitazioni strette. Così ci siamo messi insieme, un gruppo di giovani preti molto coraggiosi e attivi, e abbiamo discusso di cosa avremmo potuto fare. Siamo giunti alla conclusione che il mondo doveva essere più informato di cosa succedeva sotto il governo sovietico, perché in teoria i sovietici proclamavano ci fosse libertà di coscienza e libertà di fede. Solo così il mondo avrebbe potuto cambiare atteggiamento. E qualcuno doveva cominciare a farlo.
Perché lei?
In quel gruppo di sacerdoti, io ero probabilmente il più giovane, e non avevano avuto alcuna esperienza precedente di prigionia. Decidemmo di creare questa pubblicazione le Cronache della Chiesa Lituana, con lo scopo di descrivere tutti i casi concreti di persecuzione dei diritti dei credenti e di far arrivare queste informazioni all’Occidente. Siamo riusciti nell’intento quasi al cento per cento, colpendo l’ipocrisia sovietica in maniera molto dura. Per questo, io sono stato incriminato per aver “tentato di danneggiare il sistema sovietico e di indebolire il regime governativo sovietico.
In che modo le cronache venivano diffuse?
Noi preparavamo un numero, lo stampavamo in 14 copie, e due di queste copie venivano immediatamente inviate a Mosca, dove c’erano giornalisti stranieri accreditati e dissidenti francesi. Da lì, c’erano vari modi di inviare il materiale a giornalisti occidentali. Il materiale veniva poi tradotto in inglese, corretto e pubblicato in maniera normale e distribuito alle ambasciate straniere, ai vescovi di ogni continente e ai media. Le informazioni venivano distribuite anche attraverso Radio Vaticana. Noi mandavano le informazioni anche attraverso microfilm. Le Cronache venivano microfilmate e poi i nostri amici a New York traducevano il materiale e lo pubblicavano a guisa di un piccolo libro.
Quali altre attività svolgeva in Lituania?
Sono stato condannato non solo per le Cronache della Chiesa Lituana, ma anche per la mia attività nel comitato che avevo formato con un altro prete, il Comitato Cattolica della Difesa dei Diritti dei Fedeli. Il Comitato era stato creato nel 1978, e una delle attività era quella di preparare documenti ufficiali, siglati con il nostro nome, e pubblicarli e diffonderli in occidente.
Quali documenti pubblicavate?
Abbiamo pubblicato almeno cinquanta anni negli anni di attività del Comitato. A differenza delle Cronache, i documenti venivano pubblicati con nomi e cognomi, ufficialmente firmati dai preti che li stilavano. Era ancora più pericoloso per il sistema sovietico, perché tutte le informazioni erano vero, così come lo era il contenuto dei documenti. I documenti parlavano della persecuzione dei bambini in età scolare, delle punizioni contro i sacerdoti che non osservavano le restrizioni sovietiche e in genere tutte le restrizioni che colpivano coloro che non aderivano al sistema sovietico.
Trenta anni dopo la caduta del muro di Berlino, c’è ancora una mentalità sovietica?
Dopo trenta anni, posso dire che abbiamo piena libertà, possiamo esprimerci nei media, possiamo parlare. Ma non siamo completamente liberi. La nostra nazione è stata occupata per cinquanta anni. Per raggiungere la completa libertà ci vogliono diverse generazioni. Abbiamo ancora del lavoro da fare.
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