Le ordinazioni clandestine si moltiplicavano negli anni Ottanta, e l’arcivescovo Celli confida l’emozione nel ricevere i bigliettini scritti in latino in cui era scritto “Ego consecravi episcopus” e la data.
“In quell’epoca – racconta l’arcivescovo – toccava a me redigere l’appunto che informava il Santo Padre delle ordinazioni episcopali clandestine. E queste avevano un ritmo marcato. A volte in una diocesi si consacravano tre vescovi clandestini, mantenendo uno stile che si era consolidato negli anni della presidenza di Mao Tse Tung, e cioè quello di affidare la responsabilità di una diocesi a tre ecclesiastici, così da superare gli arresti”.
Si è trattato di un cammino non facile. “Dobbiamo a Giovanni Paolo II, al Cardinal Agostino Casaroli, all’allora monsignor Silvestrini i primi passi di un colloquio con le autorità civile. Ci sembrava impossibile potere cominciare un rapporto più attento alla grande e complessa realtà della Chiesa in Cina senza avere un colloquio con le autorità cinesi”.
Si parla spesso di una Chiesa ufficiale e di una Chiesa clandestina in Cina, ma l’arivescovo Celli rigetta questa dicotomia. “In Cina abbiamo una sola Chiesa, con una comunità ufficiale e con una comunità clandestina. Ma abbiamo una sola Chiesa. Non posso dimenticare certe lettere che vescovi clandestini scrivevano al Papa, manifestando la propria fede e la propria comunione”, afferma l’arcivescovo Celli. E poi ricorda: “Un giorno leggevamo di fronte al Papa una di queste lettere, di un vescovo illegittimo, e io dissi al Papa: Padre Santo, ci sarebbero vescovi legittimi nel mondo che non scriverebbero mai una lettera del genere.”
“È stata una delle grandi decisioni di Giovanni Paolo II nel poter recuperare un rapporto di comunione con tutti quei vescovi che nel corso degli anni avevano accettato di essere ordinati illecitamente”, ricorda ancora Celli.
Un altro tema era quello di sostenere la comunità clandestina, che non aveva accettato di essere ufficiale. Così si viveva “una grande tensione bipolare:da un lato sostenere il cammino di fedeltà della Chiesa cattolica che aveva accettato la clandestinità, dall’altro il recupero alla piena comunione di coloro che avevano cercato determinate realtà”.
La sollecitudine dei Papi verso la Cina è costante. “Ricordo ancora che quando Giovanni Paolo II era già in sedia a rotelle, mi domandava: ‘Pensa che ce la farò ad andare a Pechino?’”
Racconta l’arcivescovo Celli che “Benedetto XVI ha continuato sulla stessa scia. Se mi permettete, non violo qui nessun segreto di ufficio, il cardinale Ratzinger era stato sempre coinvolto nel dialogo sulla Cina. Toccava a me andare a parlargli, perché il Papa prima di prendere una decisione voleva sapere cosa pensava il Cardinale Ratzinger, specialmente dove c’erano tematiche di una delicatezza impressionante, di delicatezza teologica, di riflessione”.
“Per questo, quando il Cardinale Ratzinger divenne Papa, sapeva perfettamente cosa era il cammino del dialogo con la Cina. Con le autorità cinesi. Questo è stato direi che per lui un cammino che poi l’ha condotto nel 2007 alla pubblicazione della famosa lettera ai cattolici cinesi, una lettera di una grande apertura. Papa Benedetto ha aperto in maniera quasi silenziosa, ma direi quasi in forma naturale determinate porte che rispondevano a delle problematiche che la comunità cinese soffriva profondamente. È possibile passare da una clandestinità ad una ufficialità? È possibile stabilire un dialogo con le autorità cinesi?”
Il dibattito è aperto, anche all’interno della stessa comunità cinese. Ma “la vita propria della Chiesa non è la clandestinità. Va in clandestinità unicamente di fronte a determinate situazioni, ma il cammino proprio della Chiesa non è la clandestinità, ma è la testimonianza della luce del sole. Benedetto XVI ha richiamato determinate realtà, pur riaffermando determinati principi che sono fondamentali per noi cattolici”.
Ricorda l’arcivescovo Celli: “Innegabilmente Papa Benedetto era favorevole a proseguire nella linea del dialogo con le autorità cinesi. Quello che ho sempre apprezzato in lui era il fatto di essere tremendamente libero nella consapevolezza che quello era il cammino da scegliere in questo momento. E Papa Benedetto ha guidato la Segreteria di Stato e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli in questo cammino”.
“Papa Francesco si pone nella stessa scia. Il dialogo non è facile. Io dico sempre un poco scherzando che siamo due entità un poco dogmatiche. Loro e noi. Ed è innegabile che partiamo da contenuti culturali, divisioni d’insieme, particolarmente diverse. Basti pensare solo ad una definizione: la Chiesa cattolica in Cina. Che cosa vuol dire? Oggi, se io domando ai cinesi, loro diranno Chiesa Cattolica in Cina, ma è innegabile che noi diamo alle due espressioni un contenuto leggermente diverso. C’è una semantica legata a loro che è quella di una Chiesa indipendente, autonoma, che ancora ha delle ripercussioni”.
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Ma c’è anche ottimismo. “Il martirio della pazienza si può applicare anche alla Cina. Dobbiamo andare avanti assolutamente. Non si può rimanere legati a formulazioni da torre d’avorio. Il grande cambiamento, la grande sottolineatura che Papa Francesco sta portando è proprio di questa dimensione ecclesiale. E oggi la Santa Sede è in un dialogo forte. Quando termineremo? Anche io vorrei saperlo”.
Di certo, le cose sono migliorate. “Ho usato molte volte un esempio, quello del bellissimo uccello in gabbia. Ritengo ancora che siamo ancora in gabbia, ma quando cominciai il dialogo la gabbia era piccola, oggi è molto più grande. Quando cominciai ad occuparmi di Cina non si poteva nemmeno menzionare il nome del Papa nella celebrazione eucaristica, oggi tutti i sacerdoti menzionano la comunione ecclesiale. Si è camminato e quel cammino è l’unica soluzione che abbiamo, l’unico percorso che possiamo fare insieme, confrontandoci, vedendo il come, in che misura, perché abbiamo realtà ricca”.