Roma, 14 August, 2018 / 4:00 PM
Nel decennale della morte dello scrittore russo Aleksandr Solženicyn, avvenuta il 3 agosto 2008 il prof. Adriano Dell’Asta nell’ultima newsletter de ‘La Nuova Europa’ ha ricordato questo grande premio Nobel della letteratura, condannato a vivere nei gulag. Laureatosi in matematica, partecipò alla Seconda guerra mondiale.
Benché decorato per due volte al valore, fu condannato per motivi politici e deportato in un lager siberiano. La condanna a otto anni fu poi prolungata di altri tre, cosicché egli uscì dal campo di lavoro solo nel 1956. Fu riabilitato nel 1957, e poté guadagnarsi da vivere con l'insegnamento e cominciare a scrivere.
Nel 1962 il romanzo ‘Una giornata di Ivan Denisovic’ costituì un evento politico, prima ancora che letterario: per la prima volta si parlava direttamente, in un romanzo, dei lager staliniani. Durante il periodo brezneviano fu tra i capi riconosciuti del dissenso sovietico e questo lo espose a nuove persecuzioni e lo costrinse infine all'esilio negli Stati Uniti, da dove rientrò in patria solo dopo la caduta dell'Unione Sovietica. Alla sua produzione letteraria appartengono i romanzi ‘Divisione Cancro’ (1967) ed ‘Il primo cerchio’ (1969), anch’essi dedicati alle persecuzioni staliniane. Nel 1970 Solzenicyn ottenne il Premio Nobel per la letteratura.
Nella newsletter il prof. Dell’Asta ha scritto che a 10 anni dalla morte ed a 100 anni dalla sua nascita il suo valore letterario è ancora alto: “Il valore che Solženicyn aveva in vita non è diminuito dopo la sua scomparsa, anzi, là dove le passioni politiche hanno lasciato lo spazio a un giudizio più ragionato, l’evidenza di questo valore si è fatta più chiara e meditata: Solženicyn ha segnato la storia del XX secolo per lo sguardo che ha avuto sull’uomo, uno sguardo che ha saputo mostrarne l’inesauribilità anche là dove tutto sembrava condannare l’uomo e ridurlo a un misero granello, spazzato via dalla casualità degli eventi o macinato dalla macchina del potere.
Dalla concentratissima e minuscola ‘Giornata di Ivan Denisovič’ (che narrava la giornata tipo di un detenuto in un ‘normale’ campo staliniano) all’enorme affresco di ‘Arcipelago Gulag’ (che tracciava la storia e smascherava l’intenzione omicida dei campi di concentramento sovietici), tutta l’opera di Solženicyn è la testimonianza del permanere di un’umanità piena anche là dove lo svuotamento, il vero e proprio annichilimento dell’uomo sembrava aver raggiunto un livello di non ritorno:
l’uomo poteva tradire la propria dignità fino a diventare un carnefice senza più umana parvenza o una vittima senza più memoria non solo della sua dignità ma neppure della sua esistenza; e però, come dice Solženicyn descrivendo uno dei suoi indimenticabili personaggi, poteva anche resistere fino a conservare la capacità di restare a «testa alta» di fronte a tutti perché, là dove tutti si piegavano, i suoi occhi ‘fissavano qualcosa di invisibile’ che stava più in alto sopra la testa di tutti, di tutti i detenuti come di tutte le guardie”.
In sostanza Solženicyn, attraverso la narrazione artistica, ha gettato uno sguardo ‘nuovo’ sull’uomo: “E’ la potenza della letteratura e dell’arte che sa mostrare questa dimensione di libertà e di gratuità come qualcosa di bello e di vivibile nell’epoca della solitudine e della negazione di ogni forma.
Se questo sguardo sull’uomo, come essere libero nel secolo dei nuovi Colossei, ha saputo imporsi a dispetto di tante brutture e deformità è proprio perché si è presentato non con la forma di un nuovo discorso astratto, eternamente contestabile, ma con la forza di un’autentica esperienza estetica: hai davanti qualcosa che si impone con la sua presenza e di cui fai esperienza, vedendolo, sentendolo, toccandolo e, alla fine, ammirandolo pieno di sorpresa e stupore.
In questo senso, la novità dello sguardo di Solženicyn sull’uomo e sulle cose si può comprendere fino in fondo proprio alla luce di questa sua dimensione di artista”.
In fondo Solženicyn narrava la sconfitta delle ideologie che negavano l’uomo: “L’uscita dalla menzogna ideologica, e dalla sua radicale negazione dell’umanità, non era realmente possibile se si restava sul piano delle pure idee, se si contrapponeva all’ideologia una nuova idea, magari più ricca: un simile modo di procedere significava restare prigionieri della dialettica ideologica, del principio secondo cui ciò che decide della verità e della realtà delle cose è sempre un’idea: buona o cattiva che sia, non fa differenza, perché quello che conta è che si pretende di sostituire la realtà (fino a eliminarla) con una fantasia.
D’altro canto, una volta capito che non si poteva proporre una nuova verità ideologica, non ci si poteva neppure limitare a rinunciare semplicemente a ogni verità: anche questo avrebbe significato una resa al principio della menzogna ideologica. Da questo punto di vista, Solženicyn aveva capito benissimo che l’idea secondo cui non esiste nessuna verità è solo uno dei tanti mezzi con cui i potenti cercano di mantenere il loro potere: se non esiste una verità con cui tutti devono fare i conti, l’unico modo per mantenere una coesistenza pacifica è affidarsi al potente di turno che metterà sempre d’accordo i suoi sudditi recalcitranti”.
Quindi ‘Una giornata di Ivan Denisovic’ resta come una testimonianza degli orrori dell’Unione Sovietica staliniana e del terrore che ogni dittatura ha del libero pensiero, svincolato da ogni inchino al potere e capace di subire terribili sofferenze in nome della verità:
“Suchov prendeva sonno soddisfatto. Quella giornata era stata ricca di doni: non l’avevano sbattuto in prigione, la squadra non era stata spedita al villaggio socialista, a pranzo aveva fregato una scodella di polenta, il caposquadra aveva sistemato per bene la percentuale, lui aveva lavorato con gioia al suo muro, era riuscito a non farsi beccare la sega alla perquisizione, la sera aveva guadagnato qualcosa da Cezar e aveva comperato il tabacco.
E non si era ammalato, ce l’aveva fatta. Era passata una giornata, senza ombre, quasi felice. Di queste giornate, dal principio alla fine della sua condanna ce n’erano tremilaseicentocinquantatre. Più tre, per via degli anni bisestili…”.
E chiudiamo il ricordo dello scrittore russo con l’inizio dell’altro capolavoro letterario, quale ‘Arcipelago Gulag’: “In questo libro non vi sono personaggi né fatti inventati. Uomini e luoghi sono chiamati con il loro nome. Se sono indicati con le sole iniziali, è per considerazioni personali.
Se non sono nominati affatto, è perché la memoria umana non ne ha conservato i nomi: ma tutto fu esattamente così... Dedico questo libro a tutti coloro cui la vita non è bastata per raccontare. Mi perdonino se non ho veduto tutto, se non tutto ricordo, se non tutto ho intuito. Un uomo solo non avrebbe potuto creare questo libro.
Oltre a quanto ho riportato io dall’Arcipelago: con la mia pelle, la memoria, l’udito e l’occhio, il materiale per questo libro mi è stato dato, in racconti, ricordi e lettere, dall’elenco di 227 nomi. Io non esprimo loro qui la mia riconoscenza personale: sarà il nostro comune monumento eretto da amici in memoria di tutti i martoriati e uccisi.
Da questo elenco avrei voluto far emergere chi ha faticato molto per aiutarmi, affinché quest’opera fosse corredata di punti d'appoggio bibliografici tratti da libri esistenti oggi nei fondi delle biblioteche o da tempo ritirati e distrutti, tanto che ci è voluta molta tenacia per trovare una copia superstite; ancor più avrei voluto segnalare chi ha aiutato a nascondere questo manoscritto in un momento duro, e poi a riprodurlo. Ma non è ancora giunta l'ora in cui possa osare nominarli”.
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