Roma, 22 July, 2018 / 3:00 PM
Ci sono tragedie che non possono mai concludersi, che rimangono a scavare solchi profondi di dolore nonostante gli anni, i decenni, i secoli. Sono ancora oggi vita quotidiana la tragedia del popolo armeno, il suo genocidio spietato, il Grande Male, come per triste tradizione viene chiamato, e, insieme, la sua storia millenaria e la sua fede, la "resistenza" di questa entità inscindibile: il popolo e la sua fede.
Esistono opere d'arte che, pur nella trasfigurazione lirica, perpetuano questa presenza, la rendono viva, contemporanea. E' questo il caso del romanzo di Antonia Arslan "La masseria delle allodole", pubblicato nel 2004 e già diventato un classico. Trasposto in chiave cinematografica, nel commovente film diretto dai fratelli Taviani, ora e' stato adattato per una messa in scena teatrale, altrettanto emozionante e poetica.
Per la regia di Michele Sinisi, dunque, con lo scenografo Federico Biancalani e con il drammaturgo Francesco Maria Asselta, con una decina di interpreti, tra cui Marco Cacciola e Stefano Braschi, "La masseria delle allodole" va in scena in questi giorni nell'ambito della annuale Festa del Teatro/Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, una manifestazione che ha alle spalle una tradizione consolidata di valore e di successo, che ha come coordinate-guida la ricerca spirituale della parola e dell'atto teatrale, insieme al dialogo interreligioso.
Un'occasione in più per tornare a quel romanzo così importante, in cui la Storia insanguinata -il genocidio degli Armeni perpetrato dai turchi durante la Prima Guerra mondiale - prende corpo nella vicenda di una famiglia, ricostruita dall'autrice sul filo di ricordi dolci e dolorosi allo stesso tempo, a volte allontanati dalla stessa memoria per non doverne sopportare il peso.
La Masseria è il luogo della vita felice, il rifugio, il sogno perduto per sempre eppure scintillante di una luce eterna. Qui, proprio nella pacifica e remota masseria, dove la famiglia al centro della narrazione passa i momenti di svago, di villeggiatura, al riparo dal caldo e dai travagli quotidiani, irrompono un giorno i soldati turchi che uccidono, seviziano, deportano.
L'orrore arriva fino al cuore dei luoghi della pace, dei ricordi, nel tempo delle lunghe chiacchierate a tavola o nel giardino ricco di, piante e di frutta. Imbratta e devasta la bellezza, fa calare una nube oscura su ogni cosa, su ogni essere vivente. Il mito della Grande Turchia, processato dai Giovani Turchi, ingoia la vitalità mite della gente armena, al profumo dei gelsomini, così tenacemente risuscitato dalla forza dei ricordi della Arslan, si perse nell'amore del sangue versato, nelle macerie in cui quasi si estinse la famiglia di Yerwant, vissuta e prosperità "nella piccola città", dalle fattezze fiabesche dell'Anatolia perduta.
Lo spettacolo in scena a San Miniato rappresenta il pranzo, l'ultimo, della famiglia riunita in campagna, rievocandone gli umori, i litigi, i rapporti, i sogni, i progetti, e parallelamente il dialogo tra alcuni rappresentanti del, potere turco, che progettano a tavolino il genocidio, cercando di darne una "giustificazione", una motivazione, in realtà presentando il volto oscuro della voglia di distruzione, di predominio, di sopraffazione, di avidità.
La fine della rappresentazione coincide con la fine della storia, con la distruzione fisica, in un silenzio allucinato, di ogni cosa, tranne un flebile canto di allodole, ormai consapevoli he ogni essere vivente puo' cedere al male, che "esiste quando Dio non c’è". Nelle note di scena il regista Sinisi spiega che "nella seconda parte, durante la strage, l'intero gruppo di attori giocherà tragicamente a far crollare tutto ciò he si sarà costruito in scena nella, prima parte intorno al tavolo, durante quella vita bella nella masseria. Senza parole, l'intera struttura della prima parte collasserà. Gli unici suoni saranno quelli che un’allodola in scena ricorderà dopo la strage, avvenuta sotto gli occhi di tutti, come del resto avviene a noi tutti i giorni. Seduti nelle nostre poltrone".
Il romanzo, torniamo a sottolineare, ha un valore, oltre che intrinsecamente letterario, di testimonianza dolente e un j'accuse potente che molto ha contribuito, in questi anni, a far scuotere le coscienze in tutto il mondo nei confronti di quelle stragi che in molti modi, ma soprattutto con il silenzio, si è tentato di cancellare, di negare, e ancora si continua a farlo.
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