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Un servizio di EWTN News

Somalia, la beatificazione di Suor Leonella Sgorbati per un Paese da costruire

Il vescovo Giorgio Bertin, che amministra Somalia e Gibuti

La beatificazione di Suor Leonella Sgorbati, lo scorso sabato, ha posto ancora una volta i riflettori sulla Chiesa di Somalia. Una Chiesa che conta molti martiri, come suor Leonella, in un Paese dove la Chiesa vive con difficoltà.

Anche perché la Somalia è uno dei pochissimi Paesi al mondo che non ha relazioni diplomatiche con la Santa Sede. E non ce le ha anche perché il primo obiettivo è quello di ricostruire lo Stato, sottolinea ad ACI Stampa il vescovo Giorgio Bertin, che amministra la Somalia e Gibuti.

“Trenta anni fa – dice il vescovo Bertin – la Chiesa era presente, e faceva parte del paesaggio della Somalia. Con l’anarchia che si è instaurata con il crollo dello Stato somalo, tutto è stato attaccato, bruciato e occupato. Non solo la Chiesa è stata colpita, ma tutte le istituzioni”.

Da quanti anni è in Somalia?

Sono entrato tra i francescani all’età di 11 anni e mezzo, ho fatto il mio noviziato nel 1968 e ho fugato i dubbi della contestazione che ci venivano inculcati anche dagli educatori con una missione di due anni in Somalia. Dopo quella missione, durante la quale ho insegnato nelle scuole elementari (allora avevamo ancora le scuole), sono tornato, ho studiato da sacerdote, ho studiato l’Islam al PISAI e l’inglese, e poi, nel gennaio del 1978, sono tornato a Mogadiscio, in Somalia.

Quali sono state le sue sfide di evangelizzazione?

Ho capito che bisogna parlare il più possibile un linguaggio comprensibile, che risponda ai quesiti della popolazione cui ci si rivolge. Per far comprendere il Vangelo, devo usare un linguaggio comprensibile, e per farlo devo conoscere le loro tradizioni. Così, nel 2000, quando ero ormai rifugiato in Kenya, ho potuto preparare una nuova versione dei Vangeli in lingua somala, con note appropriate e destinate proprio alle popolazioni locali e ai musulmani.

Questo porta conversioni?

Le conversioni sono rare, sia in Somalia che a Gibuti, perché la società musulmana rende impossibile la vita ad una persona che si converte. Ma posso dire che, se il registro dei Battesimi non è enorme, c’è un grande registro di Battesimi nel Regno dei Cieli, persone che si avvicinano alla Chiesa grazie alla nostra testimonianza. La conversione riguarda il cambiare il cuore e renderlo più aperto, più disponibile e rispettoso delle differenze.

Cosa è cambiato in questi 40 anni in Somalia?

La nazionalizzazione del 1972 ha privato la Chiesa del lavoro principale, che erano le scuole. Eppure la Chiesa è riuscita a rafforzare la presenza negli ospedali e nel 1979, per affrontare il dramma dei rifugiati di guerra, è stata istituita Caritas Somalia. Questa presenza di testimonianza, specialmente quella delle suore, è essa stessa mezzo di dialogo.

Come mai la Chiesa è stata presa così di mira?

Con il crollo dello Stato, la Chiesa è stata prima preda di forme ‘claniche’, e poi del fatto che si è insistito sull’Islamismo per portare unità nella regione. Questo, però, non ha portato l’unità, ma ha permesso di impiantare una forma di islamismo radicale che rende impossibile la nostra presenza, soprattutto perché lo Stato è debole: può controllare le grandi città, ma le zone rurali sono in mano alla Shabab e ad altri gruppi radicali.

Quanti sono i cattolici in Somalia?

Non eravamo tanti. Fino all’1989-1990 c’erano circa 2000 cattolici e il 95 per cento erano stranieri, in buona parte italiani, che sono tornati in patria dopo il dissolvimento dello Stato. Chi è rimasto, è stato ucciso o sequestrato. Molti i nostri martiri: il 26 maggio è stata beatificata suor Leonella Sgarbati. Ma ricordiamo anche Annalena Antonelli, il nostro vescovo Salvatore Colombo, Padre Pietro Turati, Graziella Fumagalli,  molti altri.

Cosa può fare la Chiesa nel Paese?

Ci sono azioni che facciamo con la cooperazione di alcuni amici e alcune ONG, attraverso la nostra Caritas Somalia. Facciamo buone attività in modo molto discreto. La Caritas non ha solo la funzione di rendere prioritaria l’azione concreta, ma di risvegliare l’attenzione, e far aprire gli occhi e il cuore alla gente. Se apriamo i loro occhi, possono cambiare atteggiamento.

 

 

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