Erevan, 22 June, 2016 / 9:00 AM
Quando si imbocca la strada per Khor Virap, che è anche l’unica strada che dalla capitale Yerevan porta fino all’Iran, l’Ararat è lì. La montagna su cui si posò l’Arca di Noè, da sempre parte della tradizione armena, con le sue due vette, la più piccola Sis e la più grande Massis, si staglia lungo tutto il percorso, e resta sullo sfondo del santuario che è nato intorno al pozzo dove Gregorio l’Illuminatore, colui che ha battezzato l’Armenia facendone la prima nazione cristiana, è rimasto per anni. Ma proprio quando si arriva al santuario, l’Ararat si presenta con tutto il suo paradosso: è lì, è vicino, ma è in territorio turco. La catena di alberi che si vede alle sue pendici è solo l’accesso ad un fiume che fa da confine. E il confine con la Turchia è chiuso.
Forse è da Khor Virap che si pensava che Papa Francesco andasse vicino al confine con la Turchia, come si è detto alla vigilia del viaggio, per dare un segnale ai turchi e chiedere un disgelo, forse un appello al riconoscimento del genocidio, il “Grande Male” dell’Armenia. Alla fine, magari il Papa volgerà uno sguardo verso l’orizzonte – la gendarmeria vaticana ha cominciato i sopralluoghi finali il 21 giugno – ma di certo non farà gesti eclatanti. E nemmeno se lo aspettano, in Armenia.
“Parlare del genocidio non significa niente – dice ad ACI Stampa l'arcivescovo Raphael Minassian, a capo dell’ordinariato armeno dell’Europa Orientale – perché il Papa lo ha già fatto, ha difeso il diritto dell’uomo, ha condannato il crimine… non è nella ripetitività che le cose si confermano. La storia è molto più severa. Quello che è accaduto è storia. Non abbiamo bisogno che il mondo lo accetti”.
Ecco allora che si dipana il paradosso dell’Ararat. Perché il monte, con la sua magia, con le innumerevoli poesie a lui dedicate dal popolo armeno, rappresenta un po’ il passato armeno che ora è di qualcun altro. Un qualcosa presente e allo stesso tempo distante. Come un po’ tutte le cose per gli armeni, in una visione che abbraccia la geopolitica (resta viva la ferita del conflitto in Nagorno Karabach) ma anche la società, la storia recente, e persino la teologia.
Cosa è l’Armenia oggi? E’ una nazione alleata con la Russia, e che pure subisce dalla Russia quando questa si mostra vicino anche all’Azerbaijan. Una nazione che vive il mondo post-sovietico, che è quello dei grandi capitalisti, ma che allo stesso tempo rischiava di sacrificare in nome del consumismo la sua storia.
C’è un quartiere liberty, a due passi da piazza della Repubblica, dove Papa Francesco celebrerà una preghiera per la pace insieme ad altri leaders religiosi sabato 25 giugno: è stato sventrato, in nome di un quartiere nuovissimo, con tutti i negozi delle grandi marche occidentali che in pochi si possono permettere. Ora, ci si accorge che quel quartiere era un pezzo di storia, e si pensa di ricostruirlo. Ricostruirlo, sì, ma da un’altra parte.
Basta poi fare pochi passi oltre il quartiere ricchissimo per rendersi conto delle sacche di povertà, delle strade in cui le fabbriche un tempo floride campeggiano come carcasse senza vita, delle case cui non viene passata una mano di intonaco da tempo. Anche in questo caso, l’Armenia potrebbe avere tutto. Ha l’intelligenza, la cultura, la storia, per raggiungerlo. Ma la popolazione, che pure in tempi di diaspora ha smosso le montagne, ora sembra come intorpidita dai 70 anni di regime comunista.
“Quando sono tornato in Armenia, io, nato in Francia da genitori armeni e nonni sopravvissuti al genocidio, ho pensato che non dovevo elargire denaro. Dovevo dare lavoro. Ma certo, anche sviluppare una nuova mentalità del lavoro richiede tempo”, racconta Michel Davoudian, che non solo è imprenditore informatico, ma lavora nella fondazione Narek ed ha anche avviato una stazione di Radio Maria in Armenia. “Abbiamo tradotto la Laudato Si di Papa Francesco, l’abbiamo diffusa nel mondo politico. Abbiamo tradotto anche l’Amoris Laetitia. Ma il lavoro più grande è stato la traduzione del catechismo della Chiesa cattolica in armeno”, racconta.
Sono questi i piccoli segnali di una ricomposizione del paradosso Ararat. Ci vuole comunque tempo. Perché – lo si diceva prima – oltre alla questione economico-sociale, c’è anche la questione teologica. La Chiesa Apostolica di fatto non differisce in niente dalla Chiesa Cattolica, tranne che sull’unione con Roma.
Lo spiega sempre l'arcivescovo Menassien: “L’unica separazione che c’è, è data da una situazione piuttosto umana: che la Chiesa Apostolica è separata dalla Santa Sede, da Pietro diremmo. Quindi, siccome hanno questo senso di Chiesa nazionale, questo ha preso una direzione differente da quella che può essere una Chiesa nazionale, eppure legata ad una Chiesa universale”.
Ci vorrebbe, insomma, più “maturità” da parte di tutti, perché “i fedeli non sono per niente divisi”. Ed anche questo è il paradosso Ararat, per l’Armenia che visiterà il Papa: quella di una unità sempre a portata di mano, eppure sempre così irraggiungibile.
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