Città del Vaticano , 05 November, 2024 / 9:00 AM
In più di 800 pagine di sentenza, il Tribunale Vaticano non solo non è riuscito a chiudere oltre ogni ragionevole dubbio una vicenda spinosa che riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Ha, piuttosto, aperto un altro dibattito, che riguarda l’efficacia stessa di un Tribunale Vaticano in cui il Papa interviene con quattro rescritti ad un processo in corso per – è la spiegazione del promotore di Giustizia Alessandro Diddi – “riempire i vuoti normativi”. la sentenza ha anche creato nuove comprensioni giuridiche, che a volte sembrano confondere o mescolare diritto canonico, legge dello Stato della Città del Vaticano e giurisprudenza italiana, fino ad arrivare alla teorizzazione che ci possa essere peculato solo per il fatto di aver usato male i fondi, senza che ci sia un vantaggio personale ed ha, soprattutto, aperto la strada a chi, in realtà, vuole colpire l’indipendenza stessa della Santa Sede. Perché di fronte a questo processo e al modo in cui è stato svolto, a partire dalle indagini, il parere che colpisce di più è forse quello di un vaticanista esperto come John Allen, che arriva a sostenere che eventualmente il Papa dovrebbe rinunciare al Tribunale vaticano ed alle proprie prerogative di giudice supremo.
La sentenza del processo della gestione dei fondi della Segreteria di Stato, terminato il 18 dicembre 2023, è stata pubblicata il 30 ottobre 2024. Si tratta di 819 pagine, delle quali la parte concernente le motivazioni, suddivisa a sua volta in sei parti, ne copre più o meno 700, laddove in realtà le motivazioni vere e proprie contano circa 600 pagine, considerando che per un centinaio di pagine il Tribunale ci tiene a spiegare le procedure, le linee guida e le modalità che hanno condotto a quello che viene definito un processo giusto, rigettando ogni tipo di lettura opposta. La sentenza conclude un percorso di due anni di dibattimento, dipanatisi in 86 udienze, di cui 25 per la discussione delle parti.
A qualche giorno dalla pubblicazione della sentenza, è possibile acquisire una visione di prospettiva per comprendere meglio il quadro, più che nei dettaglio, di quello che è stato il cosiddetto “maxi processo vaticano”, da alcuni descritto anche, con dubbio gusto, “il processo del secolo”.
Il processo
Per chiarezza di esposizione, definiamo i tre tronconi principali del processo, che riguarda fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifera in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. In seguito le quote furono date in gestione al broker Gianluigi Torzi, il quale senza darne conto alla –Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto e di conseguenza il pieno controllo del palazzo, rilevando infine il palazzo per intero. Quest’ultimo è stato recentemente rivenduto.
Una seconda parte del processo si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu: l’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) a fini personali.
Condanne e assoluzioni
Unico assolto completamente da ogni capo di imputazione è monsignor Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto della Segreteria di Stato.
Il Cardinale Becciu ha avuto condanne per tre capi di imputazione, due per peculato e uno per truffa. Uno dei reati di peculato lo vede in concorso con il broker Raffaele Mincione per aver destinato 200 milioni di euro (un terzo della capacità di investimento della Segreteria di Stato) in un fondo altamente speculativo appartenente al broker medesimo
René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, hanno ricevuto solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti aveva gestito i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è stato condannato alla pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Fabrizio Tirabassi, l’officiale dell`mministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è stato condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Su Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, pesa una pena con sospensione di un anno e sei mesi.
Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è stato condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposto per un anno.a vigilanza speciale.
Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, ha ricevuto una condanna a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.
La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha ricevuto divieto di intraprendere contratti con le pubbliche autorità per due anni.
Inoltre, il Tribunale, ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati, per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.
Tutte queste condanne possono essere impugnate in appello. Niente, per ora, è definitivo, e ancora non c’è una definitiva verità processuale di colpevolezza.
I risarcimenti danni
Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, sebbene vi sia una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già dopo la sentenza di primo grado.
Con le casse vaticane sofferenti, rese ancora più sofferenti dal provvedimento di inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia, con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità.
Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”.
Cardinale Becciu, è davvero un peculato?
Primo cardinale, per decisione del Papa, ad essere giudicato da un tribunale di primo grado vaticano, Becciu è stato giudicato colpevole di peculato. Le accuse riguardano una erogazione di fondi della Segreteria di Stato, che erano nella disponibilità decisionale del Cardinale quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, alla società SPES della Caritas di Ozieri. È stato accertato che, in realtà, nessuno dei fondi destinati alla Caritas sia andato a vantaggio della famiglia del Cardinale o del Cardinale stesso.
(La storia continua sotto)
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Eppure, la sentenza arriva a parlare di “un uso illecito dei fondi” anche se non c’era finalità di lucro”, perché – secondo il tribunale – il fatto che non ci sia stato un vantaggio è un “argomento che può forse avere una sua rilevanza in una dimensione metaprocessuale (tanto da aver trovato risalto anche sotto il profilo mediatico), ma sotto il profilo squisitamente giuridico perde del tutto significato, perché la finalità di lucro è del tutto estranea alla fattispecie di peculato prevista dall’ordinamento vaticano”.
Insomma, c’è delitto, secondo il Tribunale, quando “emerge la volontà di usare i beni in contrasto con gli interessi delle pubblica amministrazione di cui egli appartiene”.
Quindi, per quanto riguarda Becciu, il collegio parla di “uso illecito”, perché “l’allora sostituto ha disposto del denaro della Segreteria di Stato, facendone - in concreto - oggetto di una donazione in favore della cooperativa SPES amministrata dai suoi familiari, e in particolare del fratello Becciu Antonino”. Per i giudici “non è in dubbio l’interesse privato di Becciu nella elargizione di denaro della Segreteria di Stato”, mentre, al di là del conflitto di interessi, si rivendica la prudenza richiesta dal canone 1298.
La questione del diritto canonico usato nel processo penale
Insomma, il tema di fondo resta quello dell’amministrazione del buon padre di famiglia. Posto che il diritto canonico è fonte di diritto nello Stato di Città del Vaticano, è anche vero che l’integrazione del diritto canonico in un processo penale, specialmente per qualificazioni come quella del buon padre di famiglia, rischiano di far perdere di vista lo scopo principale del processo, che è quello di raccogliere prove e individuare possibili crimini. La mancanza di prudenza, insomma, è da considerarsi reato secondo il codice penale vaticano?
La questione della prudenza del “buon padre di famiglia” è il grande tema che tocca anche il dibattito sull’investimento sull’immobile di Londra, considerato anche questo dai giudici un uso illecito perché, in fondo, investimento in qualche modo avventato. Ma è davvero così?
Lasciando da parte il fatto che la Santa Sede ha condotto in varie occasioni operazioni simili a quelle dell’investimento di Londra (basta scorrere i rapporti annuali dell’APSA degli ultimi anni, con in particolare il riferimento a un affare immobiliare a Parigi gestito dalla Sopridex che fa capo alla Santa Sede), l’acquisto di un immobile a Londra, la sua ri-destinazione di uso, la sua possibile rivendita in un mercato tendente al rialzo come quello del Regno Unito era da considerarsi una operazione potenzialmente vantaggiosa e remunerativa.
E qui c’è da notare un altro tema.Tutto nasce dal fatto che, l’allora sostituto Becciu, avesse proposto un investimento in Falcon Oil, compagnia petrolifera in Angola, di un suo amico. Da subito, Becciu sottolinea che va valutata la fattibilità dell’affare e che in caso negativo, non ci si debba fare scrupolo a dire di no. Ma, ed è un dato che colpisce, il Cardinale rende anche noto durante il processo che era la prima volta che si occupava personalmente di qualcosa e che si era cercato in qualche modo di avere un guadagno superiore, più speculativo.
Il periodo in cui l’affare nasce è il 2012, ma le valutazioni, le riunioni risalgono tutte al 2013, periodo questo nel quale Papa Francesco diventa pontefice, avvia un processo di verifica e risanamento delle finanze (qualora ci fosse da risanare) a completamento del quale avanza a tutti la richiesta di aumentare il margine dei guadagni.,. È il periodo in cui lo IOR avvia una campagna di investimenti più aggressiva (ne parlò l’ex funzionario Paolo Tosi), è il periodo in cui ci si rivolge alla nuova architettura finanziaria vaticana che punta alla creazione di un Vatican Asset Management, è il periodo in cui si comincia a parlare dei problemi finanziari facendoli risalire alla eccessiva autonomia degli enti vaticani, tanto che il Cardinale George Pell arriverà a parlare di milioni di euro occultati.
Ovviamente, la campagna speculativa porta con sé le inevitabili controindicazioni. Lo IOR apre una nuova gestione, in netta discontinuità con quella precedente e arriva addirittura a processare i propri vecchi dirigenti, senza però mai raggiungere i loro positivi risultati economici. La Segreteria di Stato si trova a dover difendere la propria autonomia, fino a perderla del tutto proprio a motivo di questo processo, in cui dapprima il Papa mostra di voler difendere l’investimento, e poi alla fine decide di agire in maniera opposta.
Conseguenza del tutto è il fatto che in questo momento le finanze della Santa Sede soffrono al punto che si attua una generale campagna di speculazione e privatizzazione degli investimenti, con provvedimenti che includono anche il taglio del piatto cardinalizio e la richiesta volta ai cardinali a coprire in autonomia le spese degli stessi immobili a loro affidati virtù del proprio ufficio.
L’indipendenza della Segreteria di Stato
Ecco allora che si arriva al processo, che nasce da una denuncia dell’Istituto per le Opere di Religione. La sentenza richiama tutti i passaggi proprio a partire dalla segnalazione del Direttore Generale Gianfranco Mammì, del 2 luglio 2019. Quello che è emerso dal processo è che la Segreteria di Stato aveva chiesto allo IOR un anticipo – che sarebbe stato restituito ad interesse – per superare una sofferenza finanziaria riguardo l’immobile di Londra. Lo IOR si prende tempo, per dire di prima dice sì e poi i improvvisamente ritrattare, decidendo infine di denunciare e sottolineando come l’operazione avessse punti oscuri arrivando ad attaccare addirittura l’Autorità di Informazione Finanziaria per la clearance.
È un po’ come se la Banca d’Italia denunciasse il governo che le chiede aiuto per poi andare a contrastare l’autorità di intelligence giunta in aiuto del governo.
La denuncia dello IOR ha dunque l’effetto di scardinare un intero sistema vaticano. Lo IOR è controllato dall’AIF, che viene bloccato di fatto nella sua attività di intelligence dalle perquisizioni scaturite dalla denuncia. La Segreteria di Stato si trova a dover ristrutturare il prestito, dopo aver già dovuto ridefinire una situazione difficile al fine di non perdere i capitali di investimento. Il promotore di Giustizia diventa una sorta di deus ex machina, dotato di poteri speciali e autorizzato dal Papa ad agire in maniera sommaria.
Nella sentenza, si legge che “il Promotore di giustizia precedeva poi all' assunzione di numerosi testimoni, all'interrogatorio di alcuni degli imputati, che presentavano peraltro anche memorie difensive e all'inoltro di commissioni rogatorie alle Autorità giudiziarie di alcuni Stati esteri (Italia, Svizzera, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Lussemburgo, Repubblica Dominicana, Baliato di Jersey), che trasmettevano - nel corso del tempo - la documentazione richiesta, o almeno parte consistente di essa, tra cui anche i cellulari e gli apparati informatici di alcuni degli imputati. Altre informazioni venivano acquisite tramite l 'A.I.F. e i canali di collaborazione fra le autorità di polizia”.
Alla fine, i dirigenti dell’AIF risultano condannati per abuso di ufficio per non aver inoltrato una denuncia al promotore di Giustizia. Tutte le informazioni, però, provenivano da canali attivati dall’AIF, che aveva svolto una grande attività di intelligence in un tempo e con mezzi limitati. Se davvero si fosse voluto occultare, perché dunque si sarebbe dovuto aprire un fascicolo? E, alla fine, se davvero si fosse voluto favorire qualcuno, perché in entrambe le possibilità di ristrutturazione proposte alla Segreteria di Stato dall’AIF si parla comunque di un prosieguo delle indagini che non escludono un inoltro della denuncia al promotore di Giustizia?
La posizione dei vari imputati
Sono tutte domande che restano sullo sfondo di una sentenza necessariamente complessa, che delinea anche dei rapporti di forza all’interno dell’affare. Per il Tribunale, è pacifico che Raffaele Mincione, primo gestore del fondo che avrebbe dovuto investire in Falcon Oil e che aveva poi poi investito nel palazzo di Londra, facesse i propri interessi, nella misura in cui il proprio contratto di fatto gli consentiva, ma il Tribunale considera anche evidente il rapporto personale con Gianluigi Torzi, il broker che poi lo sostituirà nella gestione dell’immobile.
Per cedere le proprie quote e la propria gestione, Mincione otterrà 40 milioni di euro, tramite un accordo che secondo il Tribunale l’accordo era stato in qualche modo orchestrato insieme a Torzi. Quest’ultimo, da parte sua, avrebbe raggirato la Segreteria di Stato prendendo le uniche mille azioni con diritto di voto che controllavano l’immobile, estromettendo di fatto la Santa Sede dal controllo, motivo questo per cui è stato condannato insieme all’avvocato Squillace.
La sentenza parla anche di una connivenza di interessi tra Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse ha gestito per anni il patrimonio della Segreteria di Stato e di Mincione sin dall’inizio dell’affare, quando si cerca, secondo il tribunale, di portare avanti l’investimento in Falcon Oil sebbene presentasse dei profili di rischio.
E poi c’è la posizione di Fabrizio Tirabassi, officiale della Segreteria di Stato parte dell’amministrazione, che viene messo sulla graticola per un suo patrimonio personale ingente, ma di cui non si definisce l’illiceità. Lo stesso Tirabassi riceveva delle retrocessioni da un contratto che aveva con la banca svizzera UBS, autorizzato dalla Segreteria di Stato, ma questo non costituisce in sé un reato.
Tirabassi tuttavia viene condannato sia per il riciclaggio di due milioni in Svizzera pagati nel 2011 come fees autorizzate dalla Segreteria di Stato che, insieme a Becciu e Crasso per aver investito 200 milioni in un fondo speculativo.
Secondo la sentenza, tuttavia, “non può certo negarsi che l'uso in modo illecito dei beni della Chiesa si sia risolto in un tanto evidente guanto significativo vantaggio per Mincione ed i suoi sodali quale diretta conseguenza della condotta illecita posta in essere da S.E.R. Becciu, sicché a nulla rileva che egli non abbia inteso agire con finalità di lucro, né che non abbia conseguito alcun vantaggio. L'uso illecito che integra il reato di peculato è quindi quello che viola la normativa di diritto canonico che regola l'amministrazione dei beni ecclesiastici, tra cui viene in rilievo, in particolare, il canone 1284 la cui applicabilità all'amministrazione dei beni della Segreteria di Stato è stata riconosciuta dallo stesso Cardinale Becciu all'udienza del 5 maggio 2022”,
La questione Obolo
Si è detto, a più riprese, che il denaro impiegato per l’investimento speculativo venisse dal Fondo dell’Obolo di San Pietro, destinato però alle opere di carità del Papa. Ci sono tuttavia due imprecisioni, però. La prima è che c’è un “Conto Obolo” intestato alla Segreteria di Stato, che però non riceve più i proventi dell’Obolo di San Pietro, ma in cui sono inserite diverse contabilità, ed è il residuo di un conto utilizzato appunto per i fondi dell’Obolo. E c’è poi l’Obolo di San Pietro, che però da sempre è destinato al Papa, cioè alla Santa Sede, cioè alle attività della Santa Sede, e che nasce proprio per aiutare le spese del pontefice. Spese che riguardano anche la gestione della Curia.
I 200 milioni investiti dalla Segreteria di Stato rappresentano un terzo del patrimonio che la Segreteria di Stato gestiva al tempo, pari a circa 600 milioni. Ma, si legge nella sentenza, “il problema di fondo, in sostanza, è che non è stato possibile accertare, né alcuna delle parti ha prospettato strade istruttorie per farlo, quale origine avessero le somme (che, si ripete, costituivano solo una parte del totale complessivo nella disponibilità della Segreteria di Stato) investite nelle specifiche operazioni oggetto delle imputazioni di peculato”.
L’Autorità di Informazione Finanziaria
Coinvolta dalla Segreteria di Stato, l’Autorità di Informazione Finanziaria chiede al sostituto Edgar Pena Parra, che nel 2018 ha sostituito il cardinale Angelo Becciu come numero due, di inviare una segnalazione di transazione sospetta per avviare le indagini. A quel punto, la Segreteria di Stato vuole prendere il controllo dell’immobile, rilevandolo da Torzi. Resta sempre sullo sfondo la possibilità di una denuncia, ma l’obiettivo primario è quello di salvare l’investimento, evitando sia il danno reputazionale, sia che Torzi, esercitando il controllo completo delle azioni, possa vendere l’immobile e far realizzare una perdita alla Segreteria di Stato.
Una prima ristrutturazione viene sconsigliata, una seconda viene approvata, fermo restando che si sarebbero continuate le indagini. Ma approvato è una parola sbagliata. L’AIF non può sostituirsi, nelle decisioni, alla Segreteria di Stato. Ma collabora, perché c’è un profilo di aiuto alle istituzioni che viene sempre rispettato.
Scrive il Tribunale: “Non è invece condivisibile, come si è detto, la conclusione della Difesa secondo cui l'A.I.F. non è né libera né indipendente, ma vincolata all'obbligo di collaborazione nei rapporti con gli altri Enti della Santa Sede e dello Stato non sottoposti a Vigilanza (cioè diversi dallo 1.O.R.), mentre invece sarebbe totalmente libera di gestire a suo arbitrio ‘la disseminazione delle informazioni’ cioè, nel caso che qui interessa, le comunicazioni al Promotore di giustizia. Si tratta di una posizione paradossale e insostenibile”.
Secondo il Tribunale, insomma, se l’AIF è indipendente non può essere anche dipendente allo stesso modo, non considerando che questa collaborazione istituzionale non intacca il profilo di indipendenza.
Anzi, l’indipendenza viene mantenuta proprio nel lavoro di intelligence, che include anche la decisione di segnalare o meno, e quando, al promotore di giustizia una eventuale ipotesi di reato. Ma questo non viene accettato dal Tribunale, secondo cui l’AIF manca proprio nel momento in cui non segnala subito al promotore di Giustizia, sebbene poi non ci sia dolo in nessuna delle azioni. Addirittura, si arriva a dire che l’AIF aveva agito in malafede. Eppure, è provato che l’AIF avesse interlocuzioni costanti con l’autorità superiore.
È un principio che mette l’apparato giuridico dello Stato al primo posto, come se i giudici dovessero essere informati sempre anche di attività di intelligence e di governo, e come se poi dovessero punire se questa attività viene svolta autonomamente.
Verso gli appelli
Restano le questioni minori, come l’erogazione di soldi alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, decisi dal Cardinale Becciu e che hanno continuato ad essere erogati ad anche dopo che quest’ultimo non era più sostituto, che rientrano appunto nell’uso illecito dei fondi della Segreteria di Stato.
Gli appelli, tuttavia, saranno interessanti.
Possiamo fare delle ipotesi riguardo a come ci si muoverà, basandoci proprio sul processo. Mincione ribadirà la sua totale sovranità sul fondo di bene comune e la sua totale buona fede, e così farà Torzi, che reclamerà la legittimità del compenso erogatogli di 15 milioni di euro per uscire dal controllo dell’immobile di Londra. Un compenso, in fondo, derivato da eventuali obblighi contrattuali e liquidato nella volontà di chiudere una questione che per la Santa Sede poteva essere spinosa. Tirabassi ribadirà la sua totale fedeltà alla Segreteria di Stato e lo stesso farà Crasso, che rimpiange solo di aver agito da “ufficiale” della Segreteria di Stato senza averne le competenze in una sola circostanza.
Il Cardinale Becciu, da parte sua, sottolineerà che non ci sono profili di reato per quello che ha fatto, né profili di interesse privato, per quanto una erogazione sia andata poi ad una coop gestita da suo fratello.
Gli appelli, però, non andranno a risolvere il grande tema: la credibilità della Santa Sede, in un processo così controverso, è rimasta intatta? L’attività del Papa nelle attività processuali ha garantito il profilo di indipendenza o ha messo a rischio il senso stesso dello Stato di Città del Vaticano – considerando che Giovanni Paolo II delegò le sue funzioni di sovrano ad una commissione cardinalizia proprio per preservare l’indipendenza dello Stato e la sua da Papa? E, soprattutto, abbiamo assistito ad una “vaticanizzazione” della Santa Sede, dove le leggi dello Stato hanno sovrastato l’importanza di mantenere un profilo internazionale e istituzionale, aderente alle convenzioni internazionali ma fermo nella sua specificità?
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