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Un servizio di EWTN News

Diplomazia pontificia, il “tutti per tutti” del Papa per la Pasqua orientale

La Cattedrale patriarcale della Resurrezione della Chiesa Greco Cattolico Ucraina a Kyiv

Tutte le donne, tutti i medici, tutti i sacerdoti: sono le tre categorie di prigionieri di guerra che è prioritario liberare, secondo Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina. La richiesta è stata reiterata nella lettera di Pasqua di Sua Beatitudine, diffusa lo scorso 29 aprile, e che fa riferimento all’appello “tutti per tutti” di Papa Francesco, il quale, nell’urbi et orbi del 31 marzo 2024, ha chiesto una liberazione di tutti i prigionieri di guerra da parte ucraina e da parte russa.

Il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, ha invece delineato il senso della “pastorale della pace” in una lectio magistralis che si è tenuta lo scorso 2 maggio presso la Pontificia Università Lateranense. Guardando alla sua esperienza in Terrasanta, e al conflitto che imperversa dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, il Cardinale ha anche sottolineato la necessità di combinare al perdono, necessario per andare avanti, alla giustizia e alla verità, altrettanto necessari se si vuole creare una nuova comunità di persone che possano fidarsi le une delle altre.

                                                           FOCUS UCRAINA

L’appello “tutti per tutti” di Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk

È costante l’interesse della Santa Sede nei confronti dell’Ucraina, e continua il meccanismo di “scambio” che si è creato con la visita del Cardinale Matteo Zuppi in Ucraina per il ritorno dei bambini che si trovano oggi nel confine russo, strappati dalle loro famiglie. In questo senso, si sa che la Segreteria di Stato è attiva con vari incontri, come dimostra anche l’interdicasteriale (cioè, un incontro con i rappresentanti vaticani dei dicasteri) che si è tenuto la scorsa settimana come seguito dell’interdicasteriale sulla situazione ucraina che Papa Francesco convocò per la prima volta nel 2019, e che ha avuto poi già un primo “aggiornamento” durante l’incontro del Sinodo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina nel settembre 2023.

Sua Beatitudine Shevchuk ha ripreso l’appello di Papa Francesco per una liberazione totale dei prigionieri di guerra tra Ucraina e Russia nel suo messaggio per la Pasqua di quest’anno. La Chiesa Greco Cattolica Ucraina, infatti, festeggia la Pasqua secondo il calendario giuliano. Sebbene una recente riforma abbia definito che le feste a “data fissa” come il Natale saranno invece celebrate dal calendario gregoriano, per la Pasqua la più grande delle Chiese sui iuris ha deciso per ora di mantenere la tradizione orientale, anche – ha spiegato Sua Beatitudine in una intervista due settimane fa – in segno di vicinanza verso i confratelli ortodossi.

Nel suo messaggio di Pasqua, Shevchuk ha sottolineato che “noi cristiani in Ucraina, riconosciamo che non possiamo veramente onorare appieno la passione del nostro Salvatore, i Suoi tormenti e le Sue piaghe, se non ricordiamo, non serviamo e non aiutiamo coloro che attualmente soffrono, patiscono e si trovano letteralmente nell'inferno della guerra”.

La Settimana Santa è stata dunque dedicata in particolare ai fratelli e sorelle che si trovano in prigionia in Russia. Sua Beatitudine ha detto l’appello allo scambio “tutti per tutti” di Papa Francesco devono diventare “un imperativo e un appello ad azioni concrete”.

In particolare, Sua Beatitudine chiede di liberare ogni donna. “Che sia detenuta in Ucraina o in Russia, adoperiamoci affinché, nel giorno di Pasqua, questa donna possa fare ritorno dalla sua famiglia, a casa sua”; ha scritto.

Quindi, ha chiesto il ritorno a casa di tutti gli operatori sanitari, i quali, “in base al diritto internazionale, non sono combattenti ma sono coloro che salvano vite umane”.

Quindi, ha chiesto di liberare tutti i sacerdoti catturati. Shevchuk ha sottolineato che

“sono 10 i sacerdoti, di varie Chiese e denominazioni, che sono attualmente prigionieri in Russia. Ma, possibile che, oggi, il mondo intero non riesca a far sì che i 10 sacerdoti possano cantare ‘Cristo è risorto’ nelle loro chiese?”

Tra questi dieci prigionieri, due sacerdoti redentoristi greco cattolici, padre Bohdan Geleta e padre Ivan Levitskyi, che provengono da Berdyansk, nella regione di Zaphorizhzia, ormai detenuti illegalmente da quasi due anni e che, secondo alcune informazioni, sarebbero anche stati torturati.

Sua Beatitudine Shevchuk ha anche ricordato che “attualmente circa ottomila militari ucraini sono detenuti in Russia. E sono circa 1.600 civili a trovarsi in condizioni altrettanto infernali. Impegniamoci al massimo affinché, passo dopo passo, lo scambio "tutti per tutti" diventi una realtà pasquale.”.

Sua Beatitudine ha infine esortato: “Facciamo che, da entrambi i lati della linea del fronte, noi cristiani, possiamo essere quella mano di Cristo che libera i nostri fratelli e sorelle, donne, medici e membri del clero dall'inferno della prigionia”.

                                               FOCUS TERRASANTA

Il Cardinale Pizzaballa e i tre pilastri della pastorale della pace

Perdono, giustizia e verità sono i tre pilastri di una pastorale della pace, secondo il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca Latino di Gerusalemme. Il cardinale ha delineato questi tre principi in una lectio magistralis sulla diplomazia della pace che ha tenuto presso la Pontificia Università Lateranense lo scorso 2 maggio. L’1 maggio, il Cardinale aveva preso possesso del suo titolo cardinalizio di Sant’Onofrio, una celebrazione prevista prima e poi rinviata nel momento in cui c’era stata una escalation tra Israele e Iran che fortunatamente non ha avuto ulteriori conseguenze al momento.

Nella sua lectio, il Cardinale Pizzaballa ha fatto riferimento alla “tragedia senza precedenti” che avviene in Terrsanta, che sta deteriorando sia il contesto militare politico che quello religioso e sociale.

Come fare dunque una pastorale per la pace?

Prima di tutto, dice il Cardinale Pizzaballa, guardando il volto di Dio, perché “il cuore della pace è il mistero pasquale di Cristo”. Facendo riferimento al discorso di Paolo VI alle Nazioni Unite del 1965, il Patriarca latino di Gerusalemme ha detto che si deve prima di tutti essere consci della propria debolezza, e vedere proprio per questo il volto di Dio.

Quindi, si deve guardare il volto dell’altro, rimettendo l’uomo al centro, perché “quando il volto dell’altro si dissolve, svanisce anche il volto di Dio e quindi la vera pace”.

Quale è dunque la missione della Chiesa, specialmente su un contesto di guerra così lacerato, perché “il conflitto, con le sue conseguenze, coinvolge la vita di tutti nella nostra diocesi ed è quindi parte integrante della vita della Chiesa e della sua pastorale”.

Insomma, parlare di pace, per le comunità in Terrasanta, “non è parlare di un tema astratto, ma di una ferita profonda nella vita della comunità cristiana”, e arrivare al concetto di pace è in fondo un work in progress, perché ogni situazione interroga la fede.

(La storia continua sotto)

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La pace, in un crogiuolo di culture e confessioni religiose come quello della Terrasanta, non può essere “soppressione delle differenze, annullamento delle distanze ma nemmeno tregua o patto di non belligeranza garantito da patti e da muri”, ma si basa piuttosto “sull’accoglienza cordiale e sincera dell'altro, sulla volontà tenace di ascolto e di dialogo, che la nostra comunità sia chiamata ad essere strada aperta su cui la paura e il sospetto cedano il passo alla conoscenza, all'incontro e alla fiducia, dove le differenze siano opportunità di compagnia e collaborazione e non pretesto per la guerra”.

Per il cardinale Pizzaballa, dovremo “sempre più uscire dalla preoccupazione di occupare strutture fisiche e istituzionali, per concentrarci maggiormente su dinamiche belle e buone di vita che, come credenti, possiamo avviare”, e la profezia di ciascuno deve essere una “testimonianza quotidiana, perché in un contesto sociale e politico dove la sopraffazione, la chiusura e la violenza sembrano l’unica parola possibile, noi continueremo ad affermare la via dell’incontro e del rispetto reciproco come l’unica via d’uscita capace di condurre alla pace”.

Il bivio in cui ci si trova di fronte è quello tra la “necessaria denuncia della violenza e del sopruso” e il rischio di ridurre la religione ad agente politico, o addirittura a partito o fazione, specialmente in un contesto come quello mediorientale in cui la politica “avvolge la vita ordinaria in tutti i suoi aspetti”.

Allora, “non si può tacere di fronte alle ingiustizie o invitare al quieto vivere e al disimpegno”, ma prendere posizione “non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e gemono”.

Il cardinale Pizzaballa sottolinea che “invece di essere il supporto religioso di regimi politici poco credibili, la leadership religiosa dovrebbe prima di tutto cooperare con tutta la parte migliore della società nel creare una nuova cultura della legalità, e diventare una voce libera e profetica di giustizia, diritti umani e pace”.

Non si deve mai, soprattutto, smettere di chiedersi se e come la fede possa orientare la propria comunità, perché “dobbiamo prendere atto che si può dunque non scegliere la vita e il bene, e lo vediamo ogni giorno”.

In una riflessione cruciale, il Cardinale Pizzaballa nota che “la fede religiosa, inoltre, ha un ruolo fondamentale nel ripensamento delle categorie della storia, della memoria, della colpa, della giustizia, del perdono, che pongono in contatto direttamente la sfera religiosa con quella morale, sociale e politica”.

E allora “non si supereranno i conflitti interculturali se non si rileggono e si redimono le letture diverse e antitetiche delle proprie storie religiose, culturali e identitarie. Le ferite causate nel passato remoto e recente, come pure quelle attuali, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli”.

Sono percorsi che non si fanno da soli, e la pace “non è responsabilità esclusiva del pastore o del leader religioso”, ma questo ha comunque il ruolo di guida, di profeta.

La pastorale della pace, nota Pizzaballa, si nutre di dialogo interreligioso, perché “senza la collaborazione delle altre Chiese e delle altre comunità religiose, nessuna pastorale ecclesiale della pace potrà avere consistenza. Il collaborare con altri da sé sulla pace aiuterà anche a guarire i problemi interni alle nostre comunità, perché è solo in una sincera relazione con l’altro che possiamo definirci al meglio e in verità”.

Anzi, denuncia il cardinale, c’è “un grande assente ed è la parola dei leader religiosi”, mentre “rapporti di carattere interreligioso che sembravano consolidati sembrano oggi spazzati via da un pericoloso sentimento di sfiducia. Ciascuno si sente tradito dall’altro, non compreso, non difeso, non sostenuto”. Per questo, “questa guerra è uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei”.

E invece si deve ripartire da questa esperienza, “coscienti che le religioni hanno un ruolo centrale anche nell’orientare, e che il dialogo tra noi dovrà forse fare un passaggio importante, e partire dalle attuali incomprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite. Non potrà essere più un dialogo solo tra appartenenti alla cultura occidentale, c come è stato fino ad oggi, ma dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire”.

È una ripartenza da fare “non per bisogno o necessità, ma per amore”. Ed è qui che si instaura un altro tema cruciale: il perdono.

La pace, infatti – spiega Pizzaballa – non è qualcosa di astratto, ma “un modo di stare nella vita”, ed è dunque strettamente legata al perdono, con il quale “il male commesso non si dimentica, ma richiede una precisa volontà di superamento, che è frutto di un desiderio chiaro e definito. Non cancella il torto subito, ma lo vuole superare per un bene maggiore”.

Il perdono richiede “tempi lunghi”, ma “per guardare al futuro con speranza e in pace, è necessario fare un percorso di purificazione della memoria”.

Certo, la fede apre il credente alla relazione, ma è piuttosto “necessaria un’educazione umana al perdono, una formazione culturale che consenta all’uomo di guardare gli eventi non esclusivamente dalla prospettiva delle proprie ferite, che hanno sempre un orizzonte limitato e chiuso, e lo aiuti ad interpretare gli eventi, personali e collettivi, con uno sguardo verso il futuro, che tenga in considerazione anche il bene della realtà umana e sociale circostante, il bisogno di riattivare dinamiche di vita. In questo contesto, dunque, la riflessione sul perdono può aprirsi anche ai non credenti”.

Il perdono prima di tutto libera “dai lacci emotivi prodotti dal rancore e dalla vendetta”, e così “permette la guarigione dell’animo umano, riattiva le dinamiche di vita e apre al futuro”. Il cardinale Pizzaballa ricorda che “la Chiesa, insieme alle altre comunità di fede, ha un ruolo fondamentale nella educazione alla riconciliazione, nel creare il contesto per un approccio al perdono, ma non lo può imporre”.

Il cardinale Pizzaballa nota che “la pastorale della chiesa non può non avere nel suo orizzonte di azione la proposta di perdono e riconciliazione, che tenga conto delle ferite e del dolore, ma che non si ferma ad esso”, perché “senza questa prospettiva, in Terra Santa nessun progetto politico potrà avere successo, e la pace resterebbe solo uno slogan poco credibile. Compito della pastorale della Chiesa, dunque è quello di proporre senza stancarsi percorsi di riconciliazione, accompagnare gli sforzi di guarigione, proporre linguaggi che non escludano nessuno, tessere pazientemente trame di relazioni, costruire con gesti concreti la fiducia all’interno della propria comunità ecclesiale, innanzitutto, e poi con le altre comunità religiose”.

Gli altri due pilastri sono la verità e la giustizia. Guardando alla situazione in Terrasanta, il cardinale sottolinea che “da decenni in Terra Santa sussiste l’occupazione israeliana dei territori della Cisgiordania, con tutte le sue drammatiche conseguenze sulla vita dei palestinesi e anche degli israeliani”, cosa che ha come prima conseguenza “la condizione di ingiustizia, di non riconoscimento di diritti basilari, di sofferenza nella quale vive la popolazione palestinese in Cisgiordania. È un’oggettiva situazione di ingiustizia”.

Per questo, “mantenere la comunione tra i cattolici palestinesi e israeliani, in questo contesto lacerato e polarizzato, è quanto mai arduo”.

E allora “non dire una parola di verità sulla vita di un palestinese, la cui vita da decenni è in attesa che gli sia riconosciuta giustizia e dignità, significherebbe giustificare una oggettiva situazione ingiustizia”.

Sottolinea il Cardinale: “Più concretamente, mi si chiede spesso: ‘Come posso pensare di perdonare l’israeliano che mi opprime, finché sono sotto oppressione? Non significherebbe dargliela vinta, lasciargli campo libero senza difendere i miei diritti? Prima di parlare di perdono non è forse necessario che si faccia giustizia?’. L’israeliano, a sua volta, potrà aggiungere: Come posso perdonare chi uccide la mia gente in maniera così barbara?’ Sono domande dietro alle quali vi è un dolore reale, sincero, da rispettare”.

Per questo, né il perdono, né la verità e la giustizia possono da sole costruire la pace, ed è dunque necessario che “la pastorale ecclesiale sappia porre questi tre elementi in continuo, difficile, doloroso, complesso, lacerante, faticoso dialogo tra loro”.

C’è, poi, una riflessione ulteriore: di fronte alla crisi degli organismi multilaterali, ci si trova senza riferimenti politici e sociali, in un contesto desolante in cui “gli operatori pastorali, i pastori, la Chiesa, devono fare attenzione a non cadere in una facile tentazione: quella di sostituirsi a quegli organismi, e di entrare in dinamiche di negoziazioni politiche che per loro stessa natura sono soggette a mai facili compromessi, spesso anzi dolorosi e controversi. La tentazione di colmare il vuoto lasciato dalla politica è facile, e anche la richiesta da parte di molti di colmare quel vuoto è sempre insistente”.

La Chiesa, però, non ha questo compito – sottolinea il Patriarca di Gerusalemme –, deve “rimanere Chiesa, comunità di fede”, e la pastorale della pace “ha solo il Vangelo come riferimento”.

                                               FOCUS SEGRETERIA DI STATO

Il Cardinale Parolin delinea la diplomazia della pace della Santa Sede

Parlando con il quotidiano dei vescovi italiani Avvenire, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha sottolineato che la diplomazia della Santa Sede è sempre al lavoro per favorire la pace e per fornire uno sguardo etico sulle questioni al centro del dibattito, e ha sottolineato l’importanza della presenza del Papa al prossimo G7 in Puglia, dove parteciperà ad una sessione all’intelligenza artificiale.

È una prima volta per un Papa, anche perché da sempre la Santa Sede ha preferito impegnarsi in incontri multilaterali, piuttosto che in incontri di gruppi di Stati che possono decidere anche a discapito delle grandi nazioni.
Secondo Parolin, la scelta del Papa è “il riconoscimento che il tema dell’intelligenza artificiale ha dei risvolti fondamentalmente etici. La richiesta di una parola della Chiesa, e in particolare del Papa, va proprio nel senso di dare un orientamento su questa tematica che oggi è di grandissima attualità e nello stesso tempo di grandissima preoccupazione”.

Il cardinale ha piuttosto visto in questo invito “la richiesta di criteri etici per affrontare la questione”.

Si parlerà, comunque, anche di pace, perché “il Papa è estremamente preoccupato per la situazione che stiamo vivendo e continua a rinnovare i suoi appelli perché si cerchino vie, cammini e percorsi di pace. Egli è dunque pronto a utilizzare tutti i mezzi e gli spazi che gli sono offerti, per tentare di ricostruire il tessuto della comunità internazionale che si è ultimamente lacerato e che purtroppo ha difficoltà a essere ricomposto”.

Il cardinale Parolin ha anche sottolineato che è stato accolto l’appello del Papa per lo scambio dei prigionieri, e gli “è stato dato seguito” cosa che viene percepita come “un segno positivo, perché noi crediamo che anche tutto l’impegno profuso lo scorso anno dal cardinale Matteo Zuppi nel corso della missione affidatagli dal Papa abbia avuto un grande valore”.

Secondo il Cardinale, proprio il “concentrarsi sugli aspetti umanitari per quanto riguarda sia i prigionieri, sia i bambini - possa creare le condizioni per arrivare a dei negoziati e, speriamo, alla conclusione della guerra”.

Secondo il Segretario di Stato, tuttavia, la missione del Cardinale Zuppi non può considerarsi conclusa, “nel senso che lui ha aiutato a mettere in moto questo meccanismo dello scambio dei bambini. E la missione si era concentrata fondamentalmente su questo aspetto. Ma rimane aperta a qualsiasi sviluppo che possa darsi”.

Per quanto riguarda la situazione in Medio Oriente, il capo della diplomazia vaticana nota che “la Santa Sede ha dei contatti a vari livelli. Ci stiamo muovendo a livello diplomatico per cercare di trovare una via di uscita. Certo che la situazione è estremamente complicata anche lì. Ma a me sembra che ci potrebbero essere, anzi che ci sono delle soluzioni”.

Il Cardinale ha detto che la Santa Sede è sempre disponibile ad offrire mediazione, in Medio Oriente come ovunque possa “essere utile” e laddove la sua presenza sia “di giovamento”.

Il cardinale Parolin ha anche affrontato il tema del diritto alla libertà di abortire, incluso nella costituzione francese. Il Segretario di Stato ha sottolineato che “quando si attacca in maniera così radicale la vita, c’è veramente da chiedersi che futuro vogliamo costruire. Sento nel profondo del cuore una grande tristezza, non ho neanche le parole per esprimerla adeguatamente. Ma, lo ripeto, mi sento estremamente triste di fronte a questo modo di approcciare la situazione. Come possiamo pensare che l’aborto sia un diritto? Che assicuri un futuro alla nostra società? Non capisco. Davvero non capisco”.

Gallagher chiede un rimpatrio più veloce dei bambini ucraini

Lo scorso 19 aprile, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, è intervenuto alla “Giornata del Diritto” organizzata dall’arcidiocesi di Pescara-Penne con il Tribunale Ecclesiastico, l’Unione Giuristi Cattolici e l’Associazione Canonista diocesana.

Nella sua relazione, dal titolo “Santa Sede e Diritto internazionale – Esperienze”, l'arcivescovo ha evidenziato che “la Santa Sede vuole intrecciare un ‘dialogo proattivo’ con il mondo, a livello istituzionale” e che “alla Chiesa sta a cuore l’uomo e la sua comunità, ad ogni livello questa si organizzi”.

La diplomazia della Santa Sede ha come caratteristica “la neutralità, perché il popolo che la compone non ha confini”. Parlando della mediazione, il “ministro degli Esteri” vaticano ha anche ricordato l’azione umanitaria “in favore del rimpatrio dei minori ucraini dislocati nella Federazione Russa”, dopo l’“aggressione” di quest’ultima, due anni fa, all’Ucraina, auspicando che le procedure “siano accelerate e che cresca la fiducia tra le parti coinvolte”.

E ancora, la Santa Sede “non è rimasta inoperosa” nel contesto della guerra in Ucraina, ha offerto più volte, prima dello scoppio della guerra, “una facilitazione al dialogo tra le parti, nel rispetto del diritto internazionale e dell’integrità territoriale”, chiedendo colloqui e sollecitando il dialogo tra i due Stati.

In questo contesto vanno lette, ha spiegato Gallagher, la visita di Papa Francesco all’ambasciatore russo accreditato presso la Santa Sede il 25 febbraio 2022, “il dialogo con il Patriarca Kirill, l’invio in Ucraina di aiuti con i cardinali Michael Czerny e Konrad Krajewski” e “i numerosissimi appelli pubblici”, in particolare “durante la preghiera domenicale dell’Angelus, con un richiamo forte e deciso ad una pace giusta”, e infine l’iniziativa coordinata dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, per “tutelare i minori delle zone di guerra e, in particolare, tesa a favorire il ricongiungimento dei bambini alle loro famiglie”.

Questi bambini – ha detto l’arcivescovo Gallagher – sono bambini ucraini – e tra loro anche orfani e minori privi di cure parentali – che sono stati portati in Russia, “affidati ad altre famiglie, alloggiati in centri di assistenza sociale e orfanotrofi, o sistemati in centri di formazione poco adatti alla loro permanenza”, in alcuni casi raccolti “dalle autorità russe nelle operazioni di controllo delle zone ucraine”, sebbene sia “difficile conoscere con esattezza la situazione di molti di loro”.

Quella che viene messa in campo è una “azione umanitaria in favore dei minori in territori di conflitto armato” che viene “condotta in coordinamento non solo con la Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali”, ma anche con le due iniziative coinvolte. Ma la questione dei minori è seguita anche da Qatar, Unicef e alcune e ONG, con sforzi “complementari ma non congiunti”.

Come funziona lo scambio? Ha spiegato Gallagher che “in pratica, in seguito ai colloqui con le autorità civili di Russia e Ucraina, è avvenuto lo scambio della lista dei minori segnalati, sono stati poi costituiti “gruppi stabili di lavoro che si mettono in comunicazione reciproca con la partecipazione delle Rappresentanze Pontificie” ed è stato poi avviato “uno scambio regolare di informazioni”.

Sono le due nunziature a facilitare gli incontri tra il cardinale Zuppi e le autorità civili e a seguire, poi, l’effettivo “rimpatrio dei minori”. Ci sono comunque difficoltà, dovute anche alla “complessità di fornire da ambo le parti informazioni precise sui minori e i numeri ancora esigui dei rimpatri”.

L’arcivescovo Gallagher ha anche ricordato la mediazione della Santa Sede tra Argentina e Cile per il canale di Beagle, la cui firma del Trattato di Pace e Amicizia avvenne in Vaticano ormai 40 anni fa.

Il segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati ha notato che con l’accordo “due membri della comunità internazionale che, rinunciando all’uso della forza, si impegnano solennemente a rispettare tutte le regole del diritto internazionale e a promuovere la cooperazione bilaterale, in uno spirito di amicizia, buona fede e comprensione reciproca”, e per questo si tratta di “un esempio da seguire e imitare per il mondo intero”.

                                                        FOCUS AMBASCIATORI

Un nuovo ambasciatore del Venezuela presso la Santa Sede

Ha atteso pochissimo prima di presentare le lettere credenziali, e questo è un segno dell’attenzione che la Santa Sede ha per il Venezuela. Franklin Mauricio Zeltzer Malpica, nuovo ambasciatore di Venezuela della Santa Sede arrivato a rimpiazzare il predecessore dopo appena un anno che questo era in carica.

Papa Francesco ha ricevuto Zeltzer la mattina dell’1 maggio. Classe 1955, laureato in Scienze Navali, il nuovo ambasciatore del Venezuela non ha una formazione accademica, ma è stato piuttosto nella carriera accademia, fino a prendere incarichi come direttore dell’Intelligence della Marina, capitano del porto di Margarita, Presidente de Diques y Astilleros Nacionales C.A. – Dianca (2013 – 2019).

Tutto pronto per le credenziali del nuovo ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede

Lo scorso 19 aprile, Boris Sahakyan, ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede, ha consegnato la Copia delle Lettere Credenziali all’arcivesco Edgar Peña Para, Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede. È un passaggio importante, che rende più operativo l’ambasciatore designato in attesa della presentazione delle lettere credenziali a Papa Francesco.

Durante l'incontro, l’ambasciatore e il sostituto – sottolinea l’ambasciata di Armenia presso la Santa Sede “hanno sottolineato l’importanza di un ulteriore approfondimento delle relazioni interstatali tra l'Armenia e la Santa Sede basate su valori comuni, forti legami storici e culturali e su un dialogo politico ad alto livello già esistente”.

Sahakyan è stato nominato ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede lo scorso 1 marzo.

                                                        FOCUS MULTILATERALE

La Santa Sede alle Nazioni Unite, il 30esimo della Conferenza di Pechino

Il 29 aprile, si è tenuta alle Nazioni Unite di New York la Commemorazione del Trentesimo Anniversario della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo. La Conferenza, che si tenne al Cairo nel 1994.

In una dichiarazione depositata sul sito delle Nazioni Unite, l’arcivescovo Gabriele Caccia, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York, ha enfatizzato che le persone “sono al centro delle preoccupazioni per lo sviluppo sostenibile” e che anzi non dovrebbe essere considerato un ostacolo allo sviluppo.

Il bene comune può essere ricercato attraverso la promozione del diritto umano integrale e il ruolo della famiglia. Tuttavia, ha notato l’arcivescovo Caccia, che il dialogo intorno al programma di azione della Conferenza ha “preso un focus incredibilmente stretto, mostrando la popolazione come un problema da risolvere, e, come noto, attraverso la promozione dell’aborto”.

La Santa Sede – ha detto – rifiuta l’uso del controllo delle nascite come un mezzo per raggiungere lo sviluppo sostenibile e ha chiesto opportunità che permettano a tutti gli uomini, le donne e i bambini di “concretizzare il loro pieno potenziale”.

La Santa Sede a New York, la Commissione Popolazione e Sviluppo

Il 2 maggio si è tenuta la 57esima sessione della Commissione sulla Popolazione e Sviluppo alle Nazioni Unite. L’arcivescovo Gabriele Caccia, Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite, ha riconosciuto i progressi fatti dalla Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo al Cairo, ma restano comunque “sfide significative”, a partire dallo sradicamento della povertà in tutte le sue forme che “è un affronto alla dignità inerente della persona umana”.

L’arcivescovo Caccia ha anche sottolineato che la crescita della popolazione è spesso “erroneamente citata come una causa principale della crescita dell’insicurezza alimentare” eppure ci sono studi che documentano il contrario, e invece le vere sfide riguardano “ineguaglianza, povertà, mancanza di sviluppo”.

Inoltre, il Piano di Azione della Conferenza riconosce la famiglia come “unità base della società”, e che questa debba essere rafforzata.

                                                        FOCUS AMERICA LATINA

Colombia, i vescovi il 3 maggio pregano per la riconciliazione e la pace

Il cardinale Luis José Rueda Aparicio, presidente della Conferenza Episcopale colombiana, ha indetto per il 3 maggio una giornata di preghiera perché siano trovate vie di riconciliazione e di pace. L’occasione è la Giornata della Riconciliazione istituita dai vescovi colombiani nel 2017, a seguito del viaggio di Papa Francesco in Colombia e dell’incontro di preghiera per la riconciliazione nazionale a Villavicencio. La Giornata si celebra il 3 maggio, festa dell’Esaltazione della Santa Croce.

Il Cardinale Rueda Aparicio ha notato in un messaggio che la riconciliazione richiede la possibilità di vedere l’altro come un fratello, e ha sottolineato che la Giornata si inserisce nell’anno della Preghiera istituito da Papa Francesco.

Per questo, il presidente dei vescovi colombiani ha invitato a esporre il Santissimo Sacramento nelle chiese parrocchiali, negli oratori delle scuole, nelle università, nelle case religiose maschili e femminili, nei seminari e nei movimenti laicali e a celebrare l’Eucaristia per la riconciliazione nel Paese. “La pace porta al rispetto della vita, allo sviluppo integrale di tutte le regioni del nostro Paese. Per questo vi invitiamo a intensificare la vostra preghiera chiedendo al Signore di aiutarci a superare queste divisioni, queste fratture, queste polarizzazioni che non ci permettono di vivere in pace, nemmeno nelle nostre famiglie, né nei nostri ambienti di lavoro”, ha sottolineato il cardinale.

                                               FOCUS EUROPA

L’ambasciata di Francia onora due nuovi cardinali transalpini

Lo scorso 19 aprile, l’ambasciata di Francia presso la Santa Sede ha celebrato con un ricevimento a Villa Bonaparte i cardinali francesi Christophe Pierre e François-Xavier Bustillo in occasione della presa di possesso delle loro chiese cardinalizie a Roma.

Tra i presenti, gli Ambasciatori degli Stati Uniti e dell'Ordine di Malta presso la Santa Sede, mons. Guillaume Millot, capo della sezione francese della Segreteria di Stato, i rettori delle cinque chiese francesi a Roma, nonché membri della Curia.

L’ambasciatore Florence Mangin, ha sottolineato l'ammirevole carriera dei due cardinali francesi, come uomini di fede e di pace, invitando anche a non dimenticare la situazione internazionale, “in particolare la guerra mondiale a pezzi, nelle parole di Papa Francesco, che avviene in Terra Santa, in Ucraina, ma anche in Africa e in Asia”.

Questa dolorosa consapevolezza – ha detto l’ambasciatore – “è tanto più significativa oggi in quanto l'attribuzione di una Chiesa cardinale e la sua presa di possesso segnano l'ingresso nel clero della diocesi di Roma, «la Chiesa che presiede alla carità» secondo l'espressione di Ignazio di Antiochia. Inoltre, come vescovi, secondo le parole del Concilio Vaticano II, condividete con il Santo Padre la preoccupazione per tutte le Chiese”.

L’ambasciatore Mangin ha anche ricordato che “una settimana fa il vostro collega cardinale Pizzaballa è stato impedito dai bombardamenti su Israele di prendere possesso della sua chiesa cardinalizia” e che “questo è ciò che rende la Chiesa cattolica così unica, nella sua unità e diversità: essa nasce nel cuore di ogni credente, si riunisce sotto la guida del suo Signore mediante il ministero del vescovo e completa la sua unità nel ministero di Pietro assunto dal Papa”.

Le parole del Papa, ha aggiunto l’ambasciatore, “sono più che mai attese dai fedeli disorientati dai disordini del mondo, ma anche dalle donne e dagli uomini di buona volontà che cercano di costruire la pace. Oggi più che mai si attendono operatori di pace in cantiere”.

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