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Il teologo Coda: “Sinodalità e gerarchia non sono in competizione”

Il teologo Piero Coda durante una conferenza stampa in Sala Stampa della Santa Sede

Mettersi in ascolto prima di tutto. Comprendere che sinodalità e gerarchia non sono in competizione, ma due realtà che in qualche modo si compensano e si aiutano. Lavorare sulla collaborazione e sul dialogo, e non sulla polarizzazione. Il teologo Piero Coda spiega così il senso della Chiesa sinodale voluta da Papa Francesco.

Coda è stato uno dei relatori dell’ultimo Consiglio dei Cardinali, che si è tenuto lo scorso 15-16 aprile, e in particolare ha curato la sessione in cui si è riflettuto sul sinodo in corso insieme al Cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Ma monsignor Coda era anche il membro della sottocommissione della Commissione Teologica Internazionale che ha lavorato all’importante documento sulla sinodalità licenziato nel 2018, i cui temi sono stati poi sviluppati nell’attuale sessione del Sinodo.

In questa intervista con ACI Stampa, Monsignor Coda ha affrontato alcuni dei temi di cui si è discusso al Consiglio dei Cardinali.

Quali sono le priorità di una Chiesa sinodale e in che modo le ha descritte al Consiglio dei Cardinali?

La priorità o meglio la “conditio sine qua non” è l’ascolto di ciò che lo Spirito Santo oggi dice alla Chiesa. Per testimoniare e annunciare il Vangelo di Gesù a tutti, in tutti i contesti e in tutte le situazioni, in questo momento drammatico e sfidante della storia. La promozione della figura e della dinamica sinodale della Chiesa ha lo scopo di manifestarne e promuoverne in modo credibile e incisivo la missione. Va privilegiato ciò che risulta più efficace in ordine all’annuncio del Vangelo, trovando il coraggio di abbandonare ciò che si rivela meno utile o persino di ostacolo.

In che modo questo meccanismo aiuta?

È questa spinta missionaria a garantire che il processo sinodale non si risolva in un esercizio attraverso cui la Chiesa si guarda allo specchio e si preoccupa dei propri equilibri, ma si proietta con slancio e amore verso l’umanità nella responsabilità per la casa comune, chiedendo a ciascun membro del Popolo di Dio di offrire il proprio insostituibile contributo. Tenendo conto – con maggiore consapevolezza e determinazione di quanto si è fatto nella prima sessione della XVI assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, lo scorso ottobre – che l’impegno culturale, sociale, economico e politico è dimensione irrinunciabile della missione del popolo di Dio, nella prospettiva disegnata nel Vaticano II dalla Gaudium et spes e nel magistero sociale. In fondo, si tratta di assumere l’impegno che San Giovanni Paolo II ci ha indicato come decisivo, per la Chiesa, nell’affrontare il mare aperto del terzo millennio: “duc in altum, prendi il largo”, impegno a cui Benedetto XVI c’invitava descrivendo il ruolo dei cristiani nel mondo come “minoranza creativa”.

Il documento della Commissione Teologica Internazionale del 2018 chiedeva anche una riforma delle strutture della Chiesa. In che modo questa riforma può essere applicata alla Curia romana?

Il documento della CTI è un documento importante: non solo perché è il primo che offre un quadro approfondito e articolato del “chi è?” e del “come va?” una Chiesa sinodale, ma anche perché costituisce un punto di riferimento autorevole per il processo sinodale in atto, come è emerso da più voci durante la celebrazione della prima sessione. Circa la specifica domanda che mi pone c’è da sottolineare che nel capitolo terzo, dedicato alla “attuazione della sinodalità”, dopo aver descritto “la vocazione sinodale del popolo di Dio”, il documento esamina l’esercizio della sinodalità rispettivamente nelle singole Chiese particolari, nelle Chiese particolari a livello regionale e nella Chiesa universale. E ciò in conformità alla tradizione maturata lungo i secoli sino a giungere al Vaticano II.

Cosa viene proposto?

In tal modo viene proposta una recezione creativa di “ciò che è attualmente previsto dall’ordinamento canonico per evidenziarne il significato e le potenzialità e darvi nuovo impulso, discernendo al contempo le prospettive teologiche di un suo pertinente sviluppo” (n. 71). L’assemblea del Sinodo dei Vescovi, la cui seconda sessione sarà celebrata l’ottobre prossimo, si muove in questa direzione. Tenendo conto del fatto che, nel frattempo, sono state promulgate la Costituzione apostolica sul Sinodo dei Vescovi Episcopalis communio, nel 2018, e la Costituzione apostolica sulla riforma della Curia Romana Praedicate evangelium, nel 2022.

Quali sono i frutti della prima sessione del Sinodo sulla sinodalità?

Un significativo frutto in merito della prima sessione – mi pare – è quello che si registra nel chirografo di Papa Francesco sulla collaborazione tra i Dicasteri della Curia Romana e la Segreteria Generale del Sinodo del 17 febbraio scorso. In esso infatti si dispone che “secondo quanto stabilito dall’art. 33 di Praedicate evangelium i Dicasteri della Curia Romana collaborino, ‘secondo le rispettive specifiche competenze, all’attività della Segreteria Generale del Sinodo’, costituendo dei gruppi di studio che avviino, con metodo sinodale, l’approfondimento di alcuni tra i temi emersi nella prima sessione”. Si tratta di promuovere una prassi più sinodale e attenta alla diversità dei contesti e alla legittima e auspicabile pluriformità nella fedeltà a ciò che è essenziale, permanente e universale nell’affronto dei temi in oggetto.  

Sinodalità significa compartecipazione nel governo e nelle decisioni della Chiesa o un cammino condiviso su alcuni temi? E in che modo si preserva l'autorità dei vescovi e quella del Papa in questo cammino condiviso?

Il documento della CTI già richiamato sottolinea con pertinenza, alla luce delle sue fonti normative e dei suoi fondamenti teologali, che la sinodalità in senso ampio designa il modo di vivere e di operare che qualifica la vita e la missione della Chiesa e che si esprime in quelle istituzioni e in quegli eventi “in cui la Chiesa è convocata dall’autorità competente e secondo specifiche procedure determinate dalla disciplina ecclesiastica, coinvolgendo in modi diversi, sul livello locale, regionale e universale, tutto il Popolo di Dio sotto la presidenza dei Vescovi in comunione collegiale e gerarchica con il Vescovo di Roma, per il discernimento del suo cammino e di particolari questioni, e per l’assunzione di decisioni e orientamenti al fine di adempiere alla sua missione evangelizzatrice” (n. 70).

Sinodalità e gerarchia sono dunque compatibili?

Dimensione sinodale e dimensione gerarchica non sono in competizione. La polarità che le correla struttura teologicamente e istituzionalmente la vita della Chiesa ed è la fonte del dinamismo missionario. In particolare, i processi sinodali di consultazione, di discernimento e di recezione sono il luogo in cui esercitarsi a vivere creativamente questa polarità, in modo che a ciascuno sia consentito esercitare la propria specifica responsabilità nell’armonia della comunione che è frutto dello Spirito Santo e che è garantita dal ministero dell’autorità.

Anche se la definizione è sbagliata, quando e come il cammino sinodale potrà essere considerato un successo?  

Parlare di “successo” nelle cose di Dio – ha proprio ragione – è sempre difficile: perché il criterio di giudizio, che non di rado non collima con quello che possiamo dare noi, da ultimo sappiamo bene a Chi compete…. Penso però si possa dire che un frutto del processo sinodale già c’è, anche se è solo un piccolo seme. È stata Madre Ignazia Angelini – già badessa del monastero benedettino di Viboldone, presso Milano – a offrire l’interpretazione più azzeccata di quanto vissuto sinora. Avendo accompagnato l’intero percorso della prima sessione con le meditazioni bibliche dettate in tandem con il domenicano P. Timothy Radcliffe, Madre Ignazia ne ha concluso che il Sinodo ha messo a segno, senza clamori, un salutare…atto sovversivo!

Di quale atto si tratta?

Ha invitato cioè ad andare controcorrente. Per seguire la strada tracciata da Gesù. Che non è quella della polarizzazione, che giunge sino a demonizzare e persino a eliminare l’avversario. Tanto che la domanda in cui si finisce col restare intrappolati diventa: “ma tu, da che parte stai?”. Occorre voltare pagina e reimparare a fare silenzio: per ascoltare la voce del Padre, la chiamata di Gesù, il gemito dello Spirito. Riscoprire e imparare insieme, dunque, a vivere la natura colloquiale della Chiesa – quella di cui parlava San Paolo VI nella Ecclesiam suam –, in ascolto della Parola di Dio e “apud praesentem Veritatem” come diceva Sant’Agostino: è questo il primo e più grande guadagno e al tempo stesso un “segno levato tra le genti” nel mondo di oggi. Solo così, con verità e incisività, si può far nostra l’esortazione della prima lettera di Pietro: “adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. E questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza”.

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