Carpi, 21 April, 2024 / 10:00 AM
Gesù, in questa quarta domenica di Pasqua, si presenta con queste parole: “Io sono il buon Pastore”. Questa presentazione che Cristo fa di se stesso è una delle più commoventi e suggestive. Non a caso in una delle prime raffigurazione - in un affresco nelle catacombe romane - Cristo viene raffigurato come un Pastore che porta sulle spalle una pecora. Al mercenario, cioè al pastore prezzolato, le pecore non interessano poiché non sono sue e così quando si avvicina il lupo le abbandona al loro drammatico destino. Il Signore, utilizzando questa immagine, ci svela che il rapporto tra Lui e i suoi discepoli è di appartenenza.
Ma in che cosa consiste quest’appartenenza? In primo luogo in un rapporto di reciproca conoscenza: “Io conosco le mie pecore- dice il Signore - e le mie pecore conoscono me". Una conoscenza che, da parte nostra, è propiziata dall’ascolto della Parola di Gesù - “ascolteranno la mia voce” - da cui nasce una relazione di vera e profonda amicizia con Lui. Per il Signore, invece, conoscere equivale ad amare. Pertanto, possiamo fidarci di Lui perché ci ha amati, non a parole o in maniera virtuale, ma con i fatti e nella verità. E con il suo amore vuole colmare l’abisso di nullità in cui noi siamo precipitati a causa del peccato. Il peccato, dunque, rappresenta il male più distruttivo che l’uomo possa auto infliggersi, perché lo separa dalla Vita. Dio avrebbe potuto abbandonarci al nostro tragico destino di morte e, invece, ci cerca, ci rincorre, quasi ci supplica di accoglierlo, perché non sopporta di “perdere” nemmeno una delle sue cento pecore (cfr Lc 15,3-7).
L’amore che il “buon pastore” porta per noi, lo spinge fino al punto di dare la sua vita per noi “e offro - dice Gesù - la mia vita per le pecore". Il Signore, poiché ci conosce e a Lui apparteniamo, non può permettere che altre forze ci rapiscano e ci disperdano. A questo scopo ha offerto la sua vita. Si è trattato di una scelta assolutamente libera. Potendo disporre completamente di se stesso, ha deciso di morire per la nostra salvezza. Queste le sue parole: "nessuno me la toglie [la vita], ma la offro da me stesso, poiché ho il poter di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo".
Il Cippo funerario di Abercio, un cristiano del II secolo, riporta questa iscrizione: “…io di nome Abercio, sono discepolo del santo Pastore che pascola greggi di pecore per monti e per valli, che ha occhi grandi, che dall’alto guardano per ogni dove”.
Abercio ci ricorda che il discepolo di Cristo non rimane in balia di forze oscure, di un destino inesorabile e crudele. Cristo ha grandi occhi capaci di scrutare il cuore di ogni uomo. Chi è da Lui “guardato” e accetta il suo amore non è abbandonato nella regione di morte, ma entra nella terra dei viventi.
Gesù, dunque, vede l’umanità come un gregge disperso e senza pastore, ne prova compassione e se ne prende cura. Accetta, in obbedienza alla volontà del Padre, di divenire “l’Agnello di Dio” che porta su di sé il peccato del mondo. Accetta, cioè, di mettere in gioco la sua stessa vita e di morire sulla croce per riparare la nostra miseria. Gesù è il buon pastore perché è anche l’Agnello di Dio. Contemplando il Cuore pieno di amore di Cristo e quanto Egli ha fatto per ciascuno di noi, non possiamo non fare nostre le parole di san Paolo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
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