Città del Vaticano , 23 March, 2024 / 11:00 AM
È stato giusto processo, quello sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano? No, rispondono tre pareri, diversi per fattura, dimensioni e angolazioni, ma concordi nel denunciare le falle di un procedimento penale che si è concluso con un dispositivo di sentenza controverso. La sentenza – attesa per la fine dell’anno, ma non c’è un termine preciso – permetterà di comprendere meglio le motivazioni dei giudici, ma certo i tre pareri pubblicati sono una spada di Damocle sul sistema giudiziario vaticano, il segno che le questioni rimarranno aperte e le domande senza risposta. E allora, alla fine, ci si dovrà chiedere se la Santa Sede sarà in grado di sostenere il peso di una campagna mediatica e internazionale sulla aderenza del suo sistema giudiziario agli standard internazionali.
I tre pareri vengono dal canonista Paolo Cavana; dalla canonista Geraldina Boni, coadiuvata da Manuel Ganarin e Alberto Tomer; e da Rodney Dixon, esperto di diritti umani inglese. Sono stati sollecitati da alcuni imputati del processo, e mettono in luce quelle che si ritengono le falle del sistema giudiziario vaticano, e il modo in cui è stato definito.
Tra limiti del diritto canonico e questioni internazionali
Andiamo con ordine. Il primo a pubblicare il suo parere è stato il professor Paolo Cavana, che insegna diritto canonico ed ecclesiastico alla Libera Università Maria Santissima Assunta di Roma. Allievo di Dalla Torre, ha pubblicato un saggio dal titolo asciutto – “Osservazioni sul processo vaticano contro il cardinale Becciu e altri imputati” – ma di interesse perché usa come metro di paragone la Convenzione Monetaria firmata dalla Santa Sede con l’Unione Europea nel 2009. Una Convenzione, alla fine, che includeva la Santa Sede nel panorama europeo, di fatto ponendo fine, almeno per alcune questioni, al principio di Roma Locuta Causa Finita, perché include un appello ulteriore, quello alla giustizia europea.
Nel suo saggio, Cavana mette in questione l’indipendenza dei giudici vaticani, perché questi, secondo la legislazione dello Stato di Città del Vaticano, “dipendono gerarchicamente dal Sommo Pontefice”, il quale li nomina liberamente e può revocarli ad libitum, e al quale tutti i magistrati vaticani, nell’atto di assumere le loro funzioni, sono tenuti a prestare giuramento.
“Sul piano normativo – nota Cavana – vi sono quindi una serie di elementi che potrebbero far dubitare dell’effettiva indipendenza dei giudici vaticani rispetto al potere sovrano”.
Nel testo, però, si nota che il Papa non era mai intervenuto durante il processo, come invece ha fatto Papa Francesco con quattro rescripta nel corso del procedimento, cioè quattro decisioni avvenute dopo una udienza personale del Papa.
Il primo rescritto è datato 2 luglio 2019, e permette all’Istituto delle Opere di Religione, da cui è partito la prima denuncia che ha dato il via alle indagini, “di agire in deroga agli obblighi di segnalazione alle autorità dello Stato” e che “dia dettagliata notizia al promotore di Giustizia e che il promotore di giustizia agisca con rito sommario”. In pratica, lo IOR era autorizzato a non segnalare una eventuale transazione sospetta all’Autorità di Informazione Finanziaria, ente vigilante dello stesso istituto, ma gli era richiesto di riportare al Promotore di Giustizia vaticano. Promotore di Giustizia che, tra l’altro, dovrebbe agire solo dopo l’attività di intelligence dell’Autorità di Informazione Finanziaria, quando questa ha disseminato all’ufficio il Rapporto di Segnalazione Sospetta.
Era il primo vulnus al sistema vaticano e a come si era delineato aderendo alle norme internazionali. Il 5 luglio, tre giorni dopo, Papa Francesco aumenta i poteri di indagine del Promotore di Giustizia, autorizzando anche le intercettazioni audio.
Il 9 ottobre 2019, Papa Francesco con un terzo rescritto autorizza il promotore di Giustizia a vedere tutte le carte sequestrate alla Autorità di Informazione Finanziaria e Segreteria di Stato vaticana. È il momento in cui la Santa Sede viene definitivamente “vaticanizzata”, perché i magistrati diventano più importanti dell’organo di governo e della autorità di intelligence. Ma è anche il momento che porta ad una crisi di credibilità internazionale, tanto che la Santa Sede viene sganciata dal circuito di comunicazioni sicure Egmont – che unisce in un network le autorità di intelligence finanziaria di tutto il mondo – proprio perché le carte sequestrate riguardano documenti confidenziali, e che da tali dovrebbero essere trattati. Ci volle un protocollo di intesa tra AIF e Tribunale Vaticano per regolamentare l’uso delle informazioni per far rientrare la crisi.
Infine, il 13 febbraio 2020 Papa Francesco ha confermato per altri 60 giorni tutte le prerogative concesse.
Sono provvedimenti – nota il professor Cavana – “adottati senza essere mai stati pubblicati, in contrasto con il principio di legalità, che impone la previa pubblicazione degli atti aventi forza di legge prima della loro entrata in vigore sia nell’ordinamento vaticano che in quello canonico”. Gli stessi rescripta non sono nemmeno stati comunicati alle parti e sono “rimasti segreti fino alla loro produzione in giudizio da parte del promotore di Giustizia, avvenuta – su esplicita richiesta del Tribunale – solo molto tempo dopo la loro emanazione e il loro utilizzo”.
Questi rescripta - continua Cavana - mettono in crisi l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, e sono stati tra l’altro giustificati dai giudici del Tribunale Vaticano con la teorizzazione di “una concezione assolutista del potere sovrano che non trova più alcun riscontro negli ordinamenti giuridici moderni e contemporanei”.
Una situazione che va ad “incrinare la sostanziale affidabilità di cui ha goduto fino ad oggi la giurisdizione dello Stato della Città del Vaticano a livello internazionale”, e questo potrebbe mettere a rischio il riconoscimento della validità della sentenza in Italia, per non parlare del campo internazionale.
Insomma, la posta in gioco “non riguarda più soltanto la sorte degli imputati, la loro onorabilità e libertà, che meritano peraltro la massima attenzione e tutela, ma la stessa credibilità e coerenza della Santa Sede”, la cui stessa missione di pace “rischierebbe di risultare indebolita e meno efficace se principi fondamentali come quello dello stato di diritto o rule of law risultassero disattesi o contraddetti nella pratica giudiziaria e di governo dello Stato vaticano”.
Il parere di Geraldina Boni
Il parere pro veritate di Geraldina Boni, professoressa ordinaria di Diritto Canonico e di Diritto Ecclesiastico all’Alma Mater Studiorum di Bologna, ha invece come titolo “Il Processo del Secolo e le violazioni del diritto”. Il parere è stato sollecitato dal Cardinale Angelo Becciu, tra gli imputati del processo. In una lunga disamina che comincia proprio con i principi del diritto canonico, il testo mette in luce
Secondo Boni, il cosiddetto “processo del secolo” presenta un “plateale scollamento” della legge dello Stato della Città del Vaticano dai principi iscritti nel diritto canonico; mette in luce i limiti delle recenti riforme giudiziarie volute da Papa Francesco ed ipso facto di tutto il sistema giudiziario vaticano così come si è delineato; pone seri interrogativi sulla presenza di un giusto processo nel sistema vaticano; pone lo stesso Stato di Città del Vaticano in una posizione critica riguardo i suoi impegni internazionale, mettendo a rischio anche possibili contratti di appalto che, in presenza di dubbi sulla trasparenza del sistema giudiziario, potrebbero essere negati dai contraenti.
Anche in questo caso, viene fatto notare l’impatto dei rescripta del Papa, rimasti riservati, che hanno ampliato i poteri dell’accusa e danneggiato i principi dell’equo processo. E questo va contro anche ai principi del diritto canonico, prima fonte normativa.
Il parere nota che la divaricazione tra Stato della Città del Vaticano e interessi della Santa Sede, diritto canonico e diritto dello Stato sono il cuore pulsante delle problematiche del processo. Da qui, tuttavia, si diramano una serie di altre criticità, specialmente riguardo quei legami che giocoforza lo Stato vaticano è venuto intessendo negli anni nella comunità internazionale, in conseguenza dei quali - in via diretta o in via mediata - si trova a dover rendere conto della propria aderenza ai medesimi principi.
Il testo mette in luce il rischio che ora si possano aprire procedimenti di verifica sul giusto processo vaticano in ambito internazionale, e se pure questi criteri dovessero essere superati, questo consentirebbe alla Corte europea dei diritti dell’uomo di esprimersi sulla delibazione e, per suo tramite, sul procedimento originario, e i precedenti mostrano che l’approccio dei giudici di Strasburgo sulla vicenda non sarebbe accomodante.
Non solo. Il documento ricorda anche che il 4 dicembre 2023, a pochi giorni dalla sentenza, è arrivato l’ennesimo motu proprio di papa Francesco che ha parificato i giudici vaticani a degli officiali di alto livello del Vaticano, come se lavorassero a tempo pieno, con un sincronismo – scrive Boni – che “potrebbe indurre a percepire l’intervento normativo come una generosa ‘ricompensa’ ai giudici per il lavoro compiuto”.
Il parere di Dixon
Più asciutto, in Perfetto stile anglosassone, il parere di Rodney Dixon, un esperto avvocato internazionale sui diritti umani. In 19 pagine, punti molto precisi, ha preparato il suo parere su richiesta di Raffaele Mincione, uno degli imputati del processo, che fu il primo gestore dell’investimento della Segreteria di Stato nell’immobile di Londra.
(La storia continua sotto)
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Dixon ha sottolineato che gli Stati dovrebbero rifiutare di cooperare con il Tribunale Vaticano, e anche rifiutare di rispettarne le sentenze, considerando che il processo è stato “rovinato da sostanziali violazioni di obblighi legali ben stabiliti applicabili a tutti i procedimenti penali”.
Anche Dixon ha messo in luce le anomalie create dai rescritti papali, ma anche il rifiuto del tribunale di permettere a Mincione di chiamare sette testimoni e il rifiuto del Promotore di Giustizia di fornire tutte le prove al difensore.
Dixon ha lamentato che Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale vaticano, ha continuamente respinto al mittente le accuse di non star presiedendo un giusto processo, arrivando a dire, in una ordinanza dell’1 marzo 2022, che la Santa Sede non ha, è vero, aderito ad alcune convenzioni dei diritti umani, ma che comunque le sue leggi incorporavano pienamente quei principi, notando come sia il tribunale italiano che quello svizzero avevano precedentemente riconosciuto l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici vaticani, e che i giudici sono soggetti “solo alla legge.
Certo, non veniva notato – ma è una nota a margine – che una sentenza a Londra, del giudice Tony Baumgartner, metteva in luce le anomalie del processo, arrivando a definire una mischaracterization dei fatti per come erano stati delineati dal promotore di Giustizia vaticano.
Le domande che restano aperte
Il lavoro dei canonisti e degli esperti dei diritti umani è solo l’inizio di quello che sarà probabilmente un grande dibattito nel campo del diritto internazionale. Ma come si calano nella realtà queste note critiche? Quali sono i fatti che sono all’origine di questo vulnus nel sistema vaticano?
Si è detto delle perquisizioni all’Autorità di Informazione Finanziaria e alla Segreteria di Stato che hanno portato alla sospensione della Santa Sede dal circuito delle comunicazioni sicure del Gruppo Egmont. È un dato che non va sottovalutato, perché le perquisizioni hanno riguardato documenti dell’organismo di governo e documenti di intelligence, i primi soggetti ad una naturale riservatezza, i secondi frutto dello scambio di informazione con Paesi terzi, che non possono essere soggette al vaglio dei magistrati vaticani. In che modo, dunque, la Santa Sede sarà credibile a livello internazionale? Come MONEYVAL, il comitato del Consiglio d’Europa alla cui valutazione la Santa Sede si sottopone per quanto riguarda gli standard di trasparenza finanziaria internazionale, valuterà gli sviluppi?
Tra l’altro, MONEYVAL aveva raccomandato che almeno uno dei giudici vaticani e dei promotori di giustizia fosse impiegato full time nello Stato. Questa disposizione era stata recepita nella riforma penale vaticana, ma poi cancellata da Papa Francesco con un colpo di penna nell’ultimo cambiamento all’ordinamento giudiziario il 12 aprile 2023. Se l'impiego part time di giudici e promotori di giustizia poteva essere giustificato con il fatto che il Vaticano fosse un micro-Stato e che la mole dei processi non fosse significativa, ora questa giustificazione non è più possibile. Ci sono processi ampi, che riguardano il diritto dello Stato di Città del Vaticano, e con indagini portate avanti in maniera massiva. Ci vogliono giudici e promotori di giustizia full time e completamente a proprio agio nell’ordinamento vaticano.
Tanto più che, a parte il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone, tutti i magistrati vaticani hanno incarichi in Italia o presso altre istituzioni sovrane come l’Ordine di Malta. A volte, sono avvocati in Italia e pubblica accusa di Vaticano, e così si trovano incredibilmente a difendere il giusto processo in Italia ma poi a favorire la procedura sommaria in Vaticano.
La terza questione, infatti, riguarda proprio il modo in cui sono state sia svolte le indagini che definiti i primi provvedimenti. Ci troviamo di fronte a officiali vaticani sospesi dal servizio con documenti senza firma dei superiori né alcun giudizio di condanna, come invece prevede la normativa della Santa Sede. Ci sono state perquisizioni in zone extraterritoriali della Santa Sede che, secondo l’articolo 15 del Trattato Lateranense, sono considerate territorio italiano e sul quale la Gendarmeria vaticana non avrebbe giurisdizione, perché vi si applica la legge italiana e ne sono competenti le autorità italiane. Ci sono state – lo hanno denunciato più volte gli avvocati in aula durante il processo – perquisizioni e sequestri senza fornire copia del verbale né la presenza dell’avvocato.
I rescripta di Papa Francesco, oltre al processo sommario e all’autorizzazione a compiere le indagini con ogni mezzo, prevedevano, come detto, anche l’ausilio di mezzi di intercettazione. Ma allora ci sono altre domande: le registrazioni sono state fatte solo in Vaticano o anche in Italia e in altri Paesi? In caso, in che modo ci si è interfacciati con le legislazioni degli altri Paesi?
E ancora: dove sono custoditi i file delle intercettazioni? Sono stati distrutti? Se sono stati distrutti, chi garantisce che questo sia avvenuto in coerenza al diritto alla privacy e all’oblio come previsti dal regolamento europeo?
Sono domande che bruciano, e che sono emerse tutte durante il processo. Tra l’altro, non avendo la Santa Sede firmato la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, non è possibile il vaglio delle sentenze, e questo non garantisce lo standard dell’articolo 6 della CEDU, in cui si legge che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”.
Già se il Promotore di Giustizia avesse seguito l’istruzione formale, invece di quella sommaria, avrebbe garantito un effettivo diritto alla difesa. Ma questo non è avvenuto.
Altre questioni riguardano l’intervento diretto di Papa Francesco su una specifica indagine condotta dal Promotore di Giustizia. In altre parole, è il sovrano che interviene sul pubblico ministero. Ma questo è coerente con il ruolo istituzionale del Santo Padre come Capo della Chiesa cattolica universale? E, soprattutto, garantisce la piena auto-nomia e indipendenza del Promotore di Giustizia?
Sono questioni che dovrebbero essere poste a livello internazionale, nelle sedi competenti, anche perché la Santa Sede non ha firmato molti strumenti internazionali che consentirebbero un monitoraggio della questione. Sarà un dibattito che potrebbe estendersi a Strasburgo, Bruxelles, Ginevra e New York.
La questione dei dossier
C’è poi un aspetto del processo vaticano che si collega con la recente indagine riguardo gli accessi illeciti nel sistema informatico della Direzione Nazionale Antimafia, che coinvolge il finanziere Pasquale Striano. Sulla questione si è soffermato l’ex magistrato Otello Lupacchini in un incontro su “La Giustizia nello Stato di Città del Vaticano e il caso Becciu” organizzato da Quaderni Radicali lo scorso 14 marzo.
Lupacchini si è chiesto come non considerare il fatto che i magistrati vaticani "provengono dall'Italia o assai spesso sono legati alla Guardia di Finanza, alla quale appartiene anche il luogotenente Striano”, specialmente alla luce del fatto che gli accessi abusivi riguardano anche personaggi coinvolti a vario titolo nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato – in particolare gli imputati Raffaele Mincione, Gianluigi Torzi, Fabrizio Tirabassi, Cecilia Marogna e anche il deputato Giancarlo Innocenzi Botti, il quale aveva portato sul tavolo una offerta per il palazzo di Londra riferita da Becciu al Papa e anche oggetto di uno scambio epistolare tra lo stesso Cardinale e Papa Francesco.
Lupacchini ha notato che gli accessi illeciti non sono “cose accadute quando ormai l’indagine era avviata e il processo in corso”, ma di cose “che hanno determinato l’insorgenza dell’indagine stessa perché queste introiezioni nel sistema avvengono a partire da una epoca antecedente al procedimento penale dell’inchiesta”.
Infatti, l’acquisizione delle informazioni abusive sui personaggi coinvolti nel processo vaticano iniziano il 22 luglio 2019 “ben quattro mesi prima della perquisizione negli uffici della Segreteria di Stato” – nota Lupacchini – e proseguono per il tempo successivo”.
La fuga di notizie sulle indagini vaticane porta alle dimissioni del comandante della Gendarmeria vaticana Domenico Giani il 15 ottobre 2019, e il Papa lamenta la sofferenza causata alle persone coinvolte. Lupacchini si chiede: “Cosa c'è dietro a quello che viene definito da Cantone un verminaio per gli accessi abusivi e l'estrazione di file su materie delicate sottratte alle banche dati a cui aveva accesso il luogotenente Striano presso la DNA? Noi non lo sappiamo, tuttavia sappiamo chi ne ha beneficiato e sappiamo quale uso sia stato fatto dai documenti: le denunce di operazioni sospette relative alla vicenda Becciu”.
Sulla vicenda è stato aperto un fascicolo dal Promotore di Giustizia vaticano.
Quello dell’asse Italia – Vaticano è una questione tutta da esplorare. Anche perché la Santa Sede aveva lavorato per anni per spostare i suoi interessi e il suo polo di interesse su un piano più internazionale di quello che si basava su un rapporto privilegiato con l’ingombrante vicino italiano. Uno sforzo che, oggi, sembra essere stato vanificato. Ci si trova di fronte a un sistema giudiziario profondamente dibattuto e ad una credibilità internazionale sempre più messa a rischio. Un passo indietro, in fondo, che potrebbe avere pesanti conseguenze.
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