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Un servizio di EWTN News

Natale: l’Albero, il Presepe, la Stella dei Re Magi

Albero di Natale e Presepe in piazza San Pietro

L’albero di Natale e il presepe di piazza San Pietro non raccontano solo la storia più bella da raccontare, quella di un Dio che si fa bambino e si china sull’uomo. Hanno dentro anche la storia di secoli di rappresentazioni. In che modo l’uomo si immaginava fosse avvenuta la nascita di Gesù? E cosa sta a simboleggiare?

Per il Presepe è facile individuarne le radici profondamente cristiane. Tutti sanno che fu San Francesco d’Assisi a mettere in scena il primo Presepe vivente a Greccio nel 1223, riprendendo una tradizione antica delle raffigurazioni della Natività. Ma fu solo cinquanta anni dopo, nel 1283, che arrivò il Presepe con tutti i personaggi, fatto di statue di legno scolpite da Arnolfo da Cambio. E dalla Toscana, la tradizione del Presepe prese piede a Napoli, dove tra il 1600 e il 1700 furono introdotti anche personaggi immortalati nella vita di tutti i giorni. Tutto ha un senso, nel Presepe. Il bue e l’asinello sono i simboli del popolo ebreo e dei pagani, i pastori l’umanità di redimere, mentre i Magi sono considerati la rappresentazione delle tre età dell’uomo (gioventù, maturità e vecchiaia) oppure come le tre razze in cui si dividerebbe l’umanità secondo la Bibbia (la semita, la giapetica e la camita).

Ecco, i Magi. Sono una storia nella storia, all’interno del Presepe. Persino i loro doni hanno un significato simbolico profondo, perché l’oro è il dono riservato ai re, l’incenso rimanda alla divinità di Gesù, la mirra rimanda all’essere uomo. Ma è tutta la loro storia a intrecciarsi con la storia della rivelazione, a partire dai tempi di Abramo. Perché in fondo il percorso dei Magi ricalca il viaggio di Abramo, che da Ur si incammina verso la terra promessa, e rappresenta la ricerca di Dio da parte dell’uomo.

È stato Massimo Oldoni a scrivere una storia dei Magi, mettendo insieme varie leggende orientali e occidentali e incrociando le fonti. I tre Magi vedono la stella lucente sul monte Vaus. Melchiar, re di Nubia e di Arabia, Balthasar, re di Godolia e di Saba, e Jaspar, re di Tarsis e di Egriselus, partono per seguirla. Fanno strade differenti, e si incrociano a due miglia da Gerusalemme, nel trivio sotto il Calvario. È un momento profondamente simbolico, perché è come se Babele si ricomponesse: i tre Magi parlano tre lingue diverse, eppure si intendono, e comprendono di avere la stessa meta. Arrivano alla mangiatoia di Gesù, e lì depongono i loro doni. Tutti provengono dalla casa di Salomone e dal suo tempio, e sono appartenuti alla Regina di Saba e ad Alessandro Magno. Era proprio del condottiero macedone il pomo d’oro e i trenta denari d’oro deposti da Melchiar nella mangiatoia. Il pomo, appena Gesù lo tocca, si frantuma. Perché l’umiltà di Gesù e l’unicità della sua presenza erano destinati a mandare in mille pezzi le cose vecchie del mondo.

I trenta denari erano invece appartenuti ad Abramo. Li aveva portati da Ur fino ad Hebron, dove li aveva usati per comprare il campo per la sepoltura sua e dei suoi figli. Sono gli stessi denari che passano di mano in mano, e che gli Ismaeliti danno ai fratelli di Giuseppe quando questi lo vendono schiavo. Giuseppe diventa poi viceré d’Egitto, si ricongiunge con i fratelli, comincia un tempo di prosperità. Quando Giuseppe muore, i trenta denari vengono inviati alla Regina di Saba per acquisire aromi da mettere nel sepolcro del patriarca Giuseppe. Poi, la Regina di Saba andò in visita a Salomone, e prese i trenta denari dal tesoro regio per donarli al tempio di Gerusalemme. Al tempo di Re Roboamo, gli Arabi conquistano Gerusalemme, e depredano i tesori del tempio, e li portano nel tesoro del re degli Arabi. Lì li ha presi Melchiar.

Il viaggio dei trenta denari non è finito. La Sacra Famiglia è costretta a fuggire in Egitto, e nella fuga perde i trenta denari, che vengono ritrovati da un pastore beduino. Il quale anni dopo si ammala e va a Gerusalemme. Gesù lo risana, e il pastore vuole dare i trenta denari a Gesù. Ma Gesù ordina che tutto sia conservato nel tempio. Da lì, saranno prelevati dai sacerdoti del tempio per consegnarli a Giuda, come compenso per il tradimento di Gesù. Parte della mirra invece viene mescolata nell’aceto offerto a Gesù sulla croce, e una parte viene aggiunta da Nicodemo agli aromi profumati per il seppellimento del suo corpo.

E l’albero? Perché c’è un albero in piazza San Pietro, dato che per molti si tratta di una tradizione pagana? Perché la tradizione viene dal paganesimo, ma si sviluppa in ambito cristiano. Si torna alla storia delle Sacre Rappresentazioni, uno dei modi per raccontare la Bibbia a coloro che non potevano né leggere né scrivere. Il 24 dicembre, un tempo, si festeggiavano i “santi” Adamo ed Eva, perché la loro “felice colpa” aveva fatto sì che Dio inviasse il Salvatore, e per questo nei sagrati e nelle cattedrali venisse eretto a Natale un “albero del Paradiso”, con tanto di mele appese.

Scrive Oscar Cullman, teologo protestante e osservatore del Concilio Vaticano II, in un libricino tutto dedicato al Natale (“L’origine della festa del Natale”, Queriniana): “Solo la primissima forma cristiana è un rapporto con i riti pagani da un lato con il primordiale culto degli alberi, dall’altro con l’antica celebrazione del solstizio d’inverno”.

Vero è che l’albero di Natale ha delle parentele con i riti antichi. Per esempio, con il “frassino cosmico” Yggdrasil della mitologia cosmica, dalle cui foglie scende l’idromele (liquidi di vita) e ai cui piedi si radunano gli dei per decidere le sorti degli uomini. Oppure con il Kien Mu, l’albero dell’universo cinese, che ordina il mondo tra sopra e sotto, tra regno inferiore, umano e celeste. Oppure ancora con Asvattha, l’albero rovesciato dell’India, le cui radici convogliano dalle nubi verso il basso l’energia sacra (una dottrina che tra l’altro è stata ripresa da certe leggende ebraiche e islamiche) e in seguito identificato con il ficus sotto il quale Buddha ricevette l’illuminazione. Oppure ancora – e qui finiamo la carrellata di continenti – con il cubo aperto su cui crescono quattro grandi alberi cosmici, il simbolo azteco di Quetalcoatl; o con l’albero del Paradiso, proprio della mitologia Maya, personificazione del dio della pioggia Tlaloc (“colui che fa germogliare”).

Ma il fascino dell’albero è ben presente nelle società greche e romane. A Roma, per onorare Attis, si adornava l’abete sacro con oggetti votivi (cembali, piatti e fiasche). In Grecia, l’essenza di abete era dedicata alla dea lunare Artemide e se ne sventolavano i rami con una pigna in punta. Nell’antico Egitto l’abete era “l’albero della nascita”. E l’essenza di abete era consacrata al compleanno del Fanciullo Divino nel calendario celtico. Alfredo Cattabiani, un esperto del tema, scriveva che “Il legame fra l’albero e il solstizio  è documentato anche nei Paesi scandinavi germanici, nei quali nel medioevo ci si recava nel bosco a tagliare un abete da decorare con ghirlande, uova dipinte, dolciumi”.

Non è sorprendete, dunque, se anche i cristiani abbiamo preso la simbologia dell’albero, e l’abbiano fatta loro. Spiega Culmann: “II significato cristiano dell’albero di Natale non va fatto derivare dal solstizio d’inverno, che certo è anch’esso in questione, ma solo indirettamente. Esso ha un’origine propria e risale a una tradizione medievale e al suo significato religioso: le rappresentazioni dei ‘misteri’, che nella Santa Notte mettevano in scena davanti al portale delle chiese e delle cattedrali la storia del peccato originale nel paradiso terrestre. Esse sono la vera culla del nostro albero di Natale con la sua decorazione simbolica”.

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