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Un servizio di EWTN News

Diplomazia pontificia, Papa Francesco e il presidente del Kurdistan

L'arrivo del presidente del Kurdistan presso il Palazzo Apostolico, 13 aprile 2023

Non hanno avuto un bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, perché si trattava di due incontri privati, ma le udienze concesse dal Papa al presidente della Regione del Kurdistan Barzani e quella con i reali emeriti del Belgio Alberto II e Paola hanno il loro peso diplomatico.

L’incontro con Barzani rientra in un lungo percorso di amicizia tra la Santa Sede e il Kurdistan, che ha visto Papa Francesco toccare Erbil durante il viaggio in Iraq del 2021. Non si tratta della visita di un capo di Stato o di governo; dunque, la comunicazione è affidata a chi fa la visita, e non a chi ospita, ma questo non significa che non abbia la sua importanza.

Più particolare l’incontro il re Alberto II e la regina Paola del Belgio. Il re Alberto ha abdicato nel luglio 2013, ma è rimasto il legame tradizionale con la Sede Apostolica. Tra l’altro, i reali del Belgio sono reali cattolici. Anche in questo caso, visita strettamente privata, e dunque nessun bollettino di sorta.

Tra le notizie della settimana, continuano le polemiche di Kyiv sulla scelta di Papa Francesco alla Via Crucis del Venerdì Santo di avere un giovane russo e un giovane ucraino; e sono stati celebrati l’11 aprile scorso i 60 anni dell’enciclica Pacem in Terris. Interessante la visita del primo ministro indiano Modi alla cattedrale di Delhi.

                                                           FOCUS PAPA FRANCESCO

Papa Francesco incontra il presidente della Regione del Kurdistan iracheno

Lo scorso 13 aprile, Papa Francesco ha incontrato in udienza Nechirvan Barzani, presidente della regione del Kurdistan Iracheno.

Secondo un comunicato della presidenza del Kurdistan iracheno, Barzani ha “espresso compiacimento nel vedere il Papa in buona salute”, e ha poi presentato un “quadro generale della situazione della Regione del Kurdistan e dell’Iraq, ed evidenziato lo status delle comunità etniche e religiose nella nazione”.

Barzani ha anche ricordato “l’importanza e l’impatto della visita di Papa Francesco in Iraq e nella regione del Kurdistan”, e sottolineato che la regione “come sempre protegge i diritti e le libertà di tutte le comunità religiose ed etniche e resterà una nazione di pacifica coesistenza e tolleranza per tutti”.

Papa Francesco ha, da parte sua, “lodato la cultura di coesistenza pacifica e accettazione tra le comunità religiose ed etniche del Paese”, si legge ancora nella nota della presidenza curda. Il Papa ha chiesto che questa cultura “sia approfondita nella Regione del Kurdistan e nell’Iraq”,

Il presidente ha donato al Papa un dipinto fatto da un artista curdo che illustra la coesistenza tra comunità religiose ed etniche.

I reali del Belgio emeriti da Papa Francesco

Il 13 aprile, Papa Francesco ha ricevuto la coppia reale emerita del Belgio composta da re Alberto e la Regina Paola. Si erano conosciuti grazie ad un Papa.

Infatti, la Regina Paola era nata in Toscana come Principessa Ruffo di Calabria, ed era cresciuta a Roma. Nel 1958, aveva incontrato l’allora principe Aberto ad un evento in occasione dell’elezione di Giovanni XXIII, e lo ha sposato un anno dopo. I due sono stati la coppia reale regnale del Belgio dal 1993 al 2013.

All'udienza di giovedì, la regina è apparsa  con un abito nero, sebbene

le regine e le principesse cattoliche così come le mogli dei monarchi cattolici hanno il diritto di vestirsi di bianco durante un'udienza papale. Questo è dovuto al fatto che Paola non si considera più reale, e dunque ha fatto a meno del cosiddetto privilege du blanc.

L’ultima volta che Alberto e Paola erano stati in udienza papale era nel 2009, da Benedetto XVI. La Santa Sede e il Belgio intrattengono relazioni diplomatiche dal 1835.

                                                           FOCUS UCRAINA

Via Crucis al Colosseo, Kyiv attacca ancora la Santa Sede

Questa volta, Papa Francesco non ha voluto sorprese per la Via Crucis al Colosseo, cui tra l’altro non ha partecipato per via del freddo. Non ha dato i testi in preparazione a nessuno all’esterno del Vaticano, ha preferito una raccolta di testimonianze che aveva ricevuto da teatri di guerra, e ha fatto divulgare i testi solo a tre ore dalla Via Crucis. E, anche quest’anno, ha voluto che le testimonianze di un ucraino e un russo fossero insieme, suscitando di nuovo le proteste di Kyiv. Proteste che non si sono potute tramutare in un cambiamento della Via Crucis (l’anno scorso, si optò per un momento di preghiera in silenzio), ma che sono arrivate forti e chiare, e che sembrano dare un altro colpo alla diplomazia del Papa in Ucraina.

Così, alla divulgazione dei testi della Via Crucis lo scorso 7 aprile, l’ambasciatore di Ucraina presso la Santa Sede Andryi Yurash aveva già lanciato una protesta nei suoi canali social. Poi, è stato Oleg Nikolenko, portavoce del Ministro degli Esteri ucraino, ad esprimersi con toni duri. “Purtroppo – ha detto in un post su Facebook – dobbiamo affermare che la mossa di quest’anno è stata ancora una volta eclissata dal tentativo di equiparare vittima e aggressore”.

Nikolenko ha ribadito “gratitudine al Papa per la sua preoccupazione per l’Ucraina”, ma allo stesso tempo si è detto deluso che “la Santa Sede non abbia tenuto conto delle argomentazioni ucraine sulla natura offensiva del gesto”, perché “la partecipazione congiunta di un ucraino e un russo distorce la realtà”, e allo stesso tempo “i tentativi di segnare l’uguaglianza tra l’Ucraina e la Russia non favoriscono la realtà”.

E ancora, Nikolenko aggiunge che “i tentativi di segnare l’uguaglianza tra l’Ucraina che soffre e la Russia non favoriscono la riconciliazione”, che – secondo il portavoce del ministro degli Esteri – “può arrivare solo dopo la vittoria ucraina, la punizione di tutti i delinquenti russi, il pentimento per le sofferenze causate e chiedere perdono agli ucraini”.

Nikolenko ha concluso dicendo di aspettarsi “che la Santa Sede continui a seguire un approccio basato su una profonda comprensione della giustizia e della responsabilità per il ripristino della pace in Ucraina e l’istituzione della giustizia”. 

(La storia continua sotto)

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                                                           FOCUS PACEM IN TERRIS

Sessanta anni della Pacem in Terris, il punto di vista dell’arcivescovo Caccia

Per l’arcivescovo Gabriele Caccia, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le nazioni Unite a New York, la Pacem In Terris è ancora “una stella polare” per l’impegno diplomatico. Lo ha sottolineato in una intervista con l’Osservatore Romano lo scorso 8 aprie.

L’arcivescovo Caccia ha sottolineato che l’enciclica contiene, tra le altre cose, “un chiaro monito a superare la logica della costruzione di rapporti basati sul timore dell’altro e dunque su un equilibrio del terrore, invece che sulla reciproca fiducia, pur con la necessità di strumenti di verifica che ne garantiscano la sincerità”.

Si trattava, ha spiegato, dell’idea di “disarmo integrale,” che si contrapponeva alla “allarmante corsa delle armi e specialmente quelle sempre più micidiali che possono colpire indiscriminatamente intere popolazioni e distruggere contemporaneamente la vita stessa del pianeta”.

È un appello che “purtroppo continua ad essere attuale in un contesto in cui alcuni importanti passi fatti nel passato per la riduzione degli armamenti nucleari, rischia di non trovare strade adeguate a rinnovarsi e portare a compimento quello che ancora rimane un obiettivo chiaro espresso con inequivoche parole dall’enciclica: «si mettano al bando le armi nucleari”.

L’arcivescovo Caccia nota che la Pacem In Terris è la prima enciclica che menziona l’ONU, e già nel 1964 la Santa Sede divenne Osservatore Permanente dell’Organizzazione con la nomina di monsignor Alberto Giovannetti, mentre in quello successivo, mentre il 4 ottobre 1965 Paolo VI fu il primo Papa a fare un discorso al Palazzo di Vetro.

Da sempre, la Santa Sede parla di una possibile riforma delle Nazioni Unite. Il nunzio parla di discussioni sul “ripensamento e allargamento del Consiglio di sicurezza, la questione del veto, il ruolo più incisivo dell’Assemblea generale, la partecipazione in modi adeguati della società civile, del mondo della cultura e del settore privato”, temi che possono avere realizzazione solo con “uno spirito adeguato”.

Notando che Papa Francesco ha più volte fatto rifermento alla Pacem Interris, ha ricordato come il tema della minaccia nucleare ha fatto passi avanti, tanto che Papa Francesco è arrivato ad esprimere una condanna non solo circa l’“uso”, ma anche il “possesso” delle armi nucleari.

                                                           FOCUS MEDIO ORIENTE

Libano, il Cardinale Rai denuncia la situazione delle armi illegali

Lo scorso 8 aprile, il Cardinale Boutros Bechara Rai, patriarca dei Maroniti, ha condannato il lancio di missili verso Israele dal Libano, alla vigilia di quella che potrebbe essere la più seria escalation al confine della guerra del 2006.

Nel suo messaggio pasquale, il Cardinale ha sottolineato che “armi illegali stanno portando il Libano e la sua popolazione a ricevere venti di guerra che non hanno né deciso né voluto, come è successo il 6 e 7 aprile sul confine Sud, nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite, e in particolare la risoluzione 1701.

Il Cardinale, che già dopo l’esplosione nel porto di Beirut del 2020 aveva delineato un piano per la “neutralità attiva” del Libano, e che non ha mai mancato di prendere posizioni nette nel mezzo di una crisi economica e politica che sembra senza fine, si è chiesto “fino a quando la terra libanese potrà essere violata da ogni persona armata, e fino a quando il Libano e le sue popolazioni porteranno le ripercussioni delle politiche estere che li stanno soffocando giorno dopo giorno”.

Il Patriarca Maronita ha anche ricordato “la presenza di 2,3 milioni di sfollati in Siria, che stanno esaurendo le risorse dello Stato, distruggendo la sicurezza sociale, competendo con i libanesi per reddito e andando in Siria e tornando passando il confine in maniera legale e illegale e in una maniera continua e visibile”.

Il Cardinale Rai ha denunciato che la comunità internazionale sta “proteggendo” questi rifugiati “alle spese del Libano, per ragioni politiche manifeste e nascoste”, e che dunque sarebbe “dovere urgente dei membri del Parlamento e degli officiali di lavorare con la comunità internazionale per riportarli nelle loro nazioni e assisterli lì”. Infine, ha chiesto la nomina di un presidente che abbia fiducia “nel Paese e all’estero”.

Guerra in Siria, le parole del nunzio Zenari

Parlando con il portale svizzero catt.ch, il Cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, ha ricordato che ormai in Siria sono 12 anni che si aspetta una Pasqua senza bombe, in una situazione che è aggravata dal terremoto terribile del febbraio scorso, che ha esacerbato le situazioni di povertà.

Nell’intervista, il Cardinale Zenari ha parlato di “una situazione disastrosa”, che conta oltre 7 milioni di sfollati interni, con centinaia di migliaia di siriani nelle tende, e due milioni e mezzo di bambini impossibilitati a studiare perché un edificio scolastico su tre è inagibile.

E ancora, “due terzi del personale sanitario è emigrato, mancano le medicine, diversi ospedali sono fuori uso”, mentre “in ampie aree del Paese la corrente viene erogata solo per due ore al giorno, mentre i gravi danni alle reti idriche provocano casi di colera”. Inoltre “i beni di prima necessità non si riescono a reperire e hanno raggiunto prezzi esorbitanti”.

Il cardinale concede che dopo il terremoto le autorità locali hanno “snellito alcune pratiche burocratiche”, permettendo l’arrivo di aiuti umanitari, ma nonostante questi gesti di buona volontà “la situazione resta complicata e faticosa”.

Nunzio in Siria dal 2009, Zenari vive la guerra dal 2011, e ha detto che l’unico modo per salvare la Siria è “farla rivivere trovando, finalmente, una soluzione politica che assicuri la pace e la ripresa economica. Ma questo temo sia un traguardo ancora lontano, anche a causa della situazione internazionale segnata dalla guerra in Ucraina e dai molti problemi che affliggono il Libano e altri Paesi dell’area”

Situazione in Terrasanta

In vista della celebrazione del Fuoco Santo (la Pasqua orientale si festeggia il 16 aprile), il Patriarcato Greco Ortodosso di Gerusalemme ha rilasciato una nota in cui lamenta le restrizioni imposte dalla polizia israeliana definendole “irragionevoli” e chiede un provvedimento governativo contro l’escalation di attacchi contro i cristiani osservata negli ultimi tempi.

“I pellegrini – si legge nella nota – viaggiano da tutto il modo per unirsi alle comunità cristiane in Terrasanta per assistere all’accensione miracolosa del Fuoco Santo nella tomba di Gesù, il Sacro Sepolcro, dallo Spirito Santo”.

Si tratta di una cerimonia “che ha avuto luogo sin dai primi anni della cristianità”, e che questa celebrazione è stata menzionata per la prima volta nel 328 d.C. dallo storico Eusebio. Quest’anno, però, sarà colpita da restrizioni che prevedono – denuncia il Patriarcato – 200 poliziotti nella Chiesa, checkpoint di sicurezza lungo tutta la Città Vecchia di Gerusalemme, accesso non consentito ai fedeli alla Chiesa del Sacro Sepolcro e alla processione, con limite posto a 2000 persone dalle 10 mila previste negli scorsi anni.

Sono restrizioni – si legge nella nota – “pesanti e non necessarie” che “avranno un influsso profondo sul benessere spirituale, sul morale e sulla libertà religiosa delle comunità cristiane e Gerusalemme, nonché dei credenti del mondo”.

Secondo il Patriarcato Greco Ortodosso, le restrizioni “non sono per la sicurezza” perché la chiesa “ha sempre affrontato in maniera sicura e tranquilla oltre cinque volte il numero di fedeli consentiti”, e dunque si tratta piuttosto di “un altro esempio dell’ambiente ostile che vivono i cristiani in Terrasanta”.

Il comunicato nota che “dal 2005, le autorità israeliane hanno cominciato a imporre checkpoint militari e barriere intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme, restringendo l’accesso alla cerimonia sotto il pretesto della sicurezza pubblica. Negli ultimi due anni, le restrizioni sono diventate sempre più pesanti e questo anno con limite a 1800 persone impedirà alla comunità locale e ai pellegrini di accedere alla chiesa, e nel frattempo le autorità appesantiscono le responsabilità delle Chiese dicendo che queste sono responsabili degli inviti”.

Cipro, l’arcivescovo Dal Toso presenta le sue lettere credenziali

L’11 aprile, l’arcivescovo Giovanni Pietro Dal Toso ha presentato le sue credenziali di nunzio apostolico a Cipro nelle mani del presidente della Repubblica Cipriota Nikos Christodoulides. Dal Toso è anche nunzio presso il Regno Hashemita di Giordania, e avrà la sua residenza ad Amman. Per la prima volta, la Giordania è slegata dall’Iraq, che ha un nunzio a Baghdad, e Cipro è slegata dalla nunziatura di Israele.

Dal 20 al 23 aprile, Nicosia ospiterà un simposio su “La Chiesa del Medio Oriente: una speranza che non si scrolla”. Il simposio è organizzato dal Dicastero delle Chiese Orientali in occasione del decimo anniversario della pubblicazione dell’esortazione post-sinodale Ecclesia In Medi Oriente, e vedrà la partecipazione di Patriarchi Cattolici dell’Est e i loro rappresentanti.

In una intervista all'Osservatore Romano dal 15 aprile, l'arcivescovo Dal Toso delle ferite ancora aperte di quella nazione, che ha una divisione che "risale al 1974, quando truppe turche, in un certo contesto storico, occuparono una parte significativa di Cipro, con conseguenze immaginabili per la popolazione (case e proprietà abbandonate), e per il retaggio culturale dell’isola, come gli stessi luoghi sacri".

Si tratta - ha detto - di "ferite ancora aperte, che lasciano una traccia profonda e che quindi non si possono semplicemente trascurare, come la questione delle 'missing persons'. Ne derivano serie difficoltà: per esempio, molte chiese ortodosse risultano abbandonate nel nord di Cipro". 

Il nunzio ha parlato anche della presenza cattolica dell'isola, che è a maggioranza ortodossa. "La Chiesa cattolica - ha detto - conta una storica presenza di maroniti, con un arcivescovo alla guida, e di cattolici latini con un vicario patriarcale".

L'arcivescovo ha ricordato che "al momento i numerosi migranti di fede cattolica e di rito latino impegnano la Chiesa latina in un apprezzato lavoro pastorale. Anche per tale motivo il patriarcato di Gerusalemme dei latini, cui appartiene questo territorio, ha opportunamente strutturato la comunità locale in un vicariato con diversi servizi".

Quindi "ci sono poi due grandi scuole cattoliche, la cui qualità è particolarmente apprezzata. Una di esse viene gestita dai francescani minori fin dal XVII secolo. La Custodia di Terra Santa ha servito quest'isola in modo speciale nel corso dei secoli fino ad oggi. Durante le mie due visite come nunzio apostolico ho trovato un buono spirito di collaborazione tra le Chiese maronita e latina".

Per quanto riguarda le relazioni ecumeniche con la Chiesa ortodossa, queste - dice l'arcivescovo Dal Toso - "sono buone: la mia prima visita ufficiale è stata presso l’arcivescovo Georgios e ne conservo un ricordo forte. Un esempio di buona relazione è il fatto che chiese ortodosse vengono date in uso ai cattolici". 

                                                           FOCUS ASIA

Il Primo Ministro Indiano Modi in visita alla cattedrale del Sacro Cuore a Delhi

Lo scorso 9 aprile, in occasione della Pasqua, Narendra Modi, primo ministro indiano, ha fatto visita alla cattedrale del Sacro Cuore a Delhi, accolto dall’arcivescovo Anil Joseph Thomas Couto. Modi ha parlato con i fedeli, ha acceso una candela davanti all’immagine del Cristo Risorto e ha piantato un albero nel giardino del complesso. Si tratta di un gesto particolarmente importante e significativo in India, considerando che in questi anni di governo Modi, leader del partito nazionalista indù BJP, gli attacchi contro i cristiani sono rimasti, incessanti, anche a causa delle leggi anti-conversione applicate in 8 dei 28 Stati che compongono l’India.

Il fatto che lo stesso Modi avesse dato ampio risalto alla visita sui propri canali social, e poi avesse dedicato un pensiero di augurio ai cristiani nel giorno di Pasqua con un tweet erano un segnale di distensione.

L’arcidiocesi, a seguito della visita, ha rilasciato una dichiarazione. Padre Francis Swaminathan, che è parroco della cattedrale, ha definito la visita un “grande messaggio”, mentre gli osservatori della politica indiana hanno ricollegato il gesto allo slogan “Sabka Saath, Sabka Vikas”, lanciato dal premier in vista delle elezioni del 2024: un invito alla collaborazione tra le diverse comunità dell’India, Paese dove purtroppo spesso a fare notizia sono le divisioni confessionali alimentate dai nazionalisti indù.

Nei giorni scorsi Modi aveva avuto un incontro a Delhi con Baselios Marthoma Mathews III, la guida della chiesa ortodossa malankarese, di rito siriac, che lo aveva anche invitato a visitare la sua sede a Kottayam in Kerala.

Se il gesto è solo parte della campagna elettorale, sarà da vedere. Certo, gli estremismi nazionalisti sono presenti nello stesso partito di Modi.

Myanmar, l’appello del Cardinale Bo

Il Cardinale Charles Maung Bo, arcivesocvo di Yangon (Myanmar) ha inviato un appello pasquale per la pace e la libertà in Myanmar, dove decine di migliaia di persone, inclusi i cristiani, continuano a portare le conseguenze di una continua guerra civile tra i militari e i gruppi etnici ribelli.

“Come nazione e come popolo – scrive il Cardinale Bo -facciamo rotolare le pietre dell’odio e della sofferenza umana, e lasciamo che risuoni nei nostri cuori il messaggio che Gesù, principe della pace, è risorto”.

Il Cardinale ha anche auspicato che il messaggio pasquale “sia ascoltato in questa nazione” e che il Myamar “si risollevi di nuovo nella libertà e nella pace”. “Noi siamo persone di vita – ha detto il Cardinale Bo – noi siamo persone di resurrezione”.

L’appello del Cardinale Bo è avvenuto mentre le forze militari stavano lanciando attacchi aerei nel tentativo di sgominare le nuove Forze di Difesa Popolari. I primi obiettivi della giunta militare restano chiese, ospitali e scuole negli Stati a maggioranza cristiana di Kayah, Chin, Karen e Jachin.

Il Cardinale, che è anche presidente della Conferenza Episcopale dell’Asia, ha sottolineato che “dobbiamo combattere per quelli che sono oppressi e marginalizzati, e lavorare per eliminare le forze sistematiche lasciano le persone in povertà e sofferenza e seppelliscono gli innocenti prima del loro tempo di morte”.

E ancora – ha aggiunto – “dobbiamo essere costruttori di pace. Dobbiamo lavorare per risolvere i conflitti e far avanzare la riconciliazione, nelle nostre relazioni personali e nel mondo”.

Il Papa ha visitato il Myanmar nel 2017, e ha menzionato più volte la situazione di crisi nel Myanmar al termine di udienze generali o dopo la preghiera dell’Angelus, nonché nell’Urbi et Orbi dell’ultima Pasqua.

Il nunzio in Armenia si incontra con il vicepresidente 

L'11 aprile, l'arcivescovo José Bettencourt, nunzio apostolico in Armenia, ha incontrato a Yerevan il viceministro degli Esteri di Armenia Paruyr Hovhannisyan, accompagnato dall'ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede Garen Nazarian. 

L'incontro faceva seguito ad una visita di Hovhannisyan, in Vaticano, lo scorso 27 febbraio, durante la quale aveva anche incontrato Monsignor Miroslaw Wachowski.

"Durante l’incontro - si leggeva in una nota dell'ambasciata - le parti hanno discusso i tradizionali rapporti calorosi armeno-vaticani ancorati ai valori cristiani, agli antichi legami storico culturali. Paruyr Hovhannisyan ha sottolineato gli approcci di principio adottati dalla Santa Sede, in particolare dal Sommo Pontefice, nel superare le sfide che incombono sull’Armenia e sul Nagorno Karabakh. Le parti hanno discusso anche le possibilità di espandere la collaborazione su piattaforme multilaterali, sulla base degli approcci simili che l’Armenia e la Santa Sede hanno su alcune questioni internazionali, tra cui la protezione del patrimonio spirituale e culturale".
 
Negli incontri, Hovhannisyan aveva anche "presentato le posizioni dell'Armenia volte a ristabilire la pace nella regione, la difficile situazione umanitaria creatasi a seguito del blocco illegale del Corridoio di Lachin, sottolineando l'importanza del recente provvedimento della Corte Internazionale di Giustizia e della sua immediata attuazione da parte dell'Azerbaigian".
 
La situazione nel corridoio di Lachin non si è ancora sbloccata, e il blocco, di cui aveva parlato anche il Papa in un Angelus di fine dicembre, non è stato ancora risolto. 
 
In una intervista con Agenzia Nova dello scorso 10 marzo, l'ambasciatore Nazarian aveva denunciato che "l’obiettivo di questa operazione è di sfollare i 120 mila armeni che rimangono ancora in Nagorno-Karabakh. Insomma, l’Azerbaigian prosegue la sua politica di spopolamento del Nagorno-Karabakh sottoponendo gli armeni del Nagorno-Karabakh ad una pulizia etnica. Per prevenirla occorre una condanna mirata da parte della comunità internazionale e, assieme, l’applicazione di meccanismi internazionali adeguati”.

                                                           FOCUS EUROPA

Irlanda, 25 anni dall’Accordo del Venerdì Santo

Papa Francesco lo ha ricordato nell’Angelus del 10 aprile: 25 anni fa, l’accordo del Venerdì Santo metteva fine alla lotta armata in Irlanda tra l’IRA e lo Stato irlandese. L’arcivescovo Eamon Martin di Armagh, primate della Chiesa Irlandese, ha parlato dell’accordo in un intervento alla conferenza “Vivere l’accordo – l’eredità conta”.

L’arcivescovo ha notato che “quasi un migliaio di crimini di odio settari continuano ogni anno”, e che “i diritti umani e la dignità restano minacciati dall’attuale stile paramilitare di intimidazioni e punizioni”, mentre “troppe comunità restano barricate dietro i cosiddetti muri di pace”.

L’arcivescovo Martin ha sottolineato il ruolo dei cristiani nel guarire le divisioni settarie, ricordato che molti nascondono segreti, hanno “eseguito ordini o dato ordine di giustizia sommaria, morte o punizione”, e altri hanno invece volontariamente “guidato una auto, fatto il palo, diffuso paura, collezionato monete e informazioni, dato rifugio ai perpetratori di violenza, hanno torturato, forzato confessioni”.

Insomma, molti sanno la verità e c’è bisogno di “un processo efficace per ritrovare la verità” che possa “permettere a quelli che hanno partecipato ai conflitti violenti di trovare la loro guarigione e lasciare questo mondo in pace con Dio e con i loro fratelli e sorelle”.

L’arcivescovo Martin ha aggiunto che “a venticinque anni dall’Accordo del Venerdì Santo, è ovvio che non stiamo semplicemente gestendo come superare decenni di odio settario e sfiducia che è diventato scintilla per la violenza in così tante occasioni. I cristiani devono avere l’umiltà di riconoscere le nostre limitazioni umane, essere aperti all’ispirazione dello Spirito Santo, e cooperare con una grazia che costa nel fare qualcosa di nuovo”.

                                                           FOCUS MULTILATERALE

Dichiarazione sulla Dottrina della Scoperta, il commento dell’esperto ONU

Con una dichiarazione diffusa lo scorso 6 aprile, José Francisco Calì Tzai, relatore speciale delle Nazioni Unite per i Diritti dei Popoli Indigeni, ha espresso apprezzamento per la Dichiarazione del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale e del Dicastero per la Cultura e l’Educazione sulla cosiddetta “Dottrina della scoperta”.

La questione fu alla base di un vasto dibattito durante il viaggio di Papa Francesco in Canada, doveva gli veniva chiesto appunto di rinnegare la dottrina. Si basava su una bolla, la Romanus Pontifex del 1455, un cui si stabiliva che i sovrani cattolici che scoprivano terre non cattoliche potevano reclamare come loro. La questione della dottrina della scoperta è stata presente nel viaggio, anche con una protesta nella basilica di Saint Annne du Beaupre, ma va anche chiarito che va contestualizzata nel tempo. Tra l’altro, già con la bolla Pastorale Officium del 1537 la Chiesa sottolineava che nessun indigeno poteva essere ridotto in schiavitù, pena la scomunica.

La dichiarazione vaticana spiegava che comunque la Dottrina della Scoperta non era mai stata dottrina della Chiesa, una decisione che Cali Tzai ha definito “un importante passo verso la riconciliazione e la guarigione”.

Questo perché, ha aggiunto, “la dottrina della scoperta è ancora una ferita aperta per molte popolazioni indigene nel mondo” e la questione “deve essere affrontata come parte di un processo di riconciliazione tra le popolazioni indigene e gli Stati coloniali”.

Secondo Cali Tzai, il riconoscimento vaticano degli effetti dannosi della colonizzazione è da lodare, così come la decisione di Papa Francesco di abbandonare la mentalità coloniale e promuovere mutuo rispetto e dialogo.

Il relatore ONU ha dunque chiesto a tutti gli Stati che ancora sostengono la Dottrina della Scoperta di “seguire l’esempio vaticano nel ripudiare il decreto formalmente e rivedere tutta la giurisprudenza e la legislazione che si bassa su esso.

Calì Tzai è un relatore nominato dalle Nazioni Unite, ma non sono staff delle Nazioni Unite. Non ricevono compenso, e sono incaricati di monitorare e riportare su specifichi temi, come parte delle Procedure Speciali del Consiglio dei Diritti Umani.

La Santa Sede alle Nazioni Unite, su popolazione e sviluppo

L’11 aprile, l’arcivescovo Gabriele Caccia, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni unite a new York, è intervenuto alla 56esima sessione della Commissione per la Popolazione e lo Sviluppo, che aveva come tema “Popolazione, educazione e sviluppo sostenibile”.

Nel suo intervento, l’arcivescovo Caccia ha detto che l’obiettivo di assicurare che a tutti gli individui vengano date le stesse opportunità “richiede un modello di sviluppo che abbia la persona umana al suo centro e promuove la fioritura umana, in tutte le dimensione e in ogni momento della vita”.

Sono parole importanti, considerando che le conferenze su popolazione e sviluppo sono stati promossi i cosiddetti diritti sessuali e riproduttivi, che sono un eufemismo per giustificare l’inserimento del diritto umano come aborto.

L’arcivescovo Caccia infatti denuncia che “molte politiche di sviluppo continuano a riflettere una visione della persona umana o come ostacolo allo sviluppo o come mezzi di produzione da sfruttare secondo i principi del profitto e della massimizzazione dell’efficienza”.

La Santa Sede denuncia che le politiche della popolazione che vedono una crescita come forze distruttiva da contenere attraverso strategie di riduzione della fertilità, così come quelle che considerano gli esseri umani solo sulla base della loro utilità e produttività “sono entrambe l’opposto di quella che è l’inerente dignità della persona umana”, e piuttosto “alimentano quella che Papa Francesco ha così spesso descritto come cultura dello scarto”.

La Santa Sede afferma che “il rispetto della vita dal momento del concepimento alla morte naturale” così come “la promozione dello sviluppo umano integrale di ogni uomo, donna e bambino” debbano sempre “essere alla base delle politiche di sviluppo”, e a questo proposito è fondamentale l’educazione, da considerare come “più della trasmissione e accumulazione della conoscenza, e di un mezzo per preparare futuri lavoratori”.

L’educazione – spiega l’arcivescovo Caccia – è piuttosto “la chiave per la fioritura umana e un efficace antidoto alla povertà e all’esclusione sociale”. Per questo, c’è “urgente bisogno per un rinnovato impegno a modelli educativi che mantengano lo scopo intrinseco dell’educazione, e cioè di permettere ogni persona di realizzare il suo pieno potenziale, assimilare valori e virtù fondamentali e così facendo delineare il loro futuro”.

Per la Santa Sede, i genitori sono “educatori primari dei loro bambini”, il loro ruolo è “insostituibile e inalienabile”, ed è perciò essenziale “rispettare le responsabilità, i diritti e i doveri dei genitori” riguardo l’educazione dei loro figli, a partire dal diritto a dare ai figli l’educazione religiosa o morale che preferiscono.

La Santa Sede riconosce che alcune ideologie arrivano a “negare il diritto dei genitori di sciogliere il tipo di educazione per i loro bambini”, con l’idea di “promuovere il migliore interesse del bambino”, e questo diventa “ancora più preoccupante quando i bambini sono esposti, senza alcuna direzione o guida da genitori o custodi legali, a programmi educativi che “relativizzano e banalizzano l’esperienza dell’amore, esaltandone gli aspetti fugaci e oscurandone i valori fondamentali”.

Un nuovo nunzio in Inghilterra

L’arcivescovo spagnolo Miguel Maury Buendía, finora nunzio apostolico in Romania e Moldova, è il nuovo rappresentante pontificio in Gran Bretagna. Succede all’arcivescovo Claudio Gugerotti, nominato nel novembre scorso prefetto del Dicastero per le Chiese orientali.

Nato nel 1955 a Madrid, ordinato sacerdote nel 1980, è entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede il 13 luglio 1987 e ha prestato servizio come segretario presso le nunziature apostoliche di Ruanda, Uganda, Marocco e Nicaragua (1987-1996) e come consigliere presso quelle di Egitto, Slovenia e Irlanda (1996-2004).

Oltre all'attività diplomatica, è stato professore presso il Seminario nazionale del Nicaragua e il Liceo italiano del Cairo. È stato anche cappellano ausiliario dei Carabinieri e della residenza delle Piccole Sorelle degli Anziani Abbandonati a Roma.

Dal settembre 2004 è stato responsabile per il Sud-Est Europa della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato della Santa Sede.

Il 19 maggio 2008, Benedetto XVI lo ha nominato arcivescovo titolare di Italica e nunzio apostolico in Kazakhstan e a luglio dello stesso anno anche nunzio in Kirghizistan e Tagikistan. Era nunzio in Romania dal 2015, e nunzio in Moldavia dal 2016.

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