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Un servizio di EWTN News

Un anno di guerra in Ucraina. Shevchuk: "Cosa significa essere cristiani in una guerra?"

Sua Beatitudine Shevchuk in un colloquio con i giornalisti

Cosa vuole dire essere cristiani in tempi di guerra? È la domanda esistenziale cui stanno cercando una risposta i cristiani in Ucraina, che sono da un anno alle prese con una guerra su vasta scala a seguito dell’aggressione russa. E, secondo l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, il magistero della Chiesa non dà “risposte sufficienti” per la guerra moderna, che “è peggiore, è diversa, è molto più distruttiva” di quella normalmente conosciuta, e intorno alla quale si è costruita anche la dottrina sociale cristiana.

Shevchuk ha parlato in un incontro con alcuni giornalisti, principalmente dei media cattolici, lo scorso 20 febbraio, mentre il presidente Joe Biden era arrivato in visita nel Paese. L’arcivescovo maggiore ha ricordato le sfide affrontate in un anno di guerra, ha parlato di nuovo della necessità di una difesa proporzionata, ha tratteggiato alcune delle sfide che si stanno affrontando.

Dall’inizio della guerra, ogni giorno manda brevi videomessaggi. Questi videomessaggi sono presto diventati mini trattati di dottrina sociale, in cui vengono affrontati anche temi difficili, come il perdono del nemico e la riconciliazione. Perché?

Adesso per noi cristiani in Ucraina sorge una domanda esistenziale: come possiamo essere cristiani in tempi di pace, e cosa vuol dire essere cristiani in tempi di guerra. E soprattutto cosa vuol dire essere vescovo in tempo di guerra, e di guerra moderna. Si sente il bisogno di una teologia sociale rinnovata sulle questioni di guerra e di pace nel mondo moderno. Ho insegnato per anni la teologia morale sociale nei seminari e all’università cattolica e conosco bene gli sviluppi della teologia sociale cattolica sulla guerra e sulla pace, ma allo stesso tempo vediamo che non troviamo delle risposte che possano essere guide esatte e chiare per le nuove circostanze. Mancano le guide per questa ‘terza guerra mondiale a pezzi’, che si chiama oggi guerra ibrida. È una guerra che non si combatte solo con le armi convenzionali. Anche l’economia diventa un’arma, lo stesso grano che l’Ucraina oggi cerca di esportare al mondo diventa un’arma. C'è bisogno di uno studio profondo su questo tema a livello scientifico, affinché il magistero della Chiesa sappia dare risposte adeguate.

Come si vive dopo un anno di guerra?

Ho due sentimenti contrapposti. Da una parte, un sentimento di gioia e gratitudine al signore perché siamo stati capaci di sopravvivere e di servire al nostro popolo tutto quello che abbiamo potuto e abbiamo saputo. E sono grato per l’immensa solidarietà universale che abbiamo sperimentato. Dall'altra c’è un sentimento di impotenza per non aver saputo prevenire questa guerra, di cui si intravedevano i fantasmi già alla fine del 2021. Ho cercato di sensibilizzare tante istituzioni, anche la Santa Sede, su questo pericolo, ma purtroppo né i meccanismi del diritto internazionale né gli strumenti diplomatici, e nemmeno lo stesso strumento del dialogo sono stati capaci di prevenire questa tragedia. Questa è una guerra cieca, assurda, sacrilega. Proprio di fronte all'uso della violenza cieca il mondo si dimostra impotente.

Come si può parlare di pace in questa sensazione di impotenza?

Grazie all’aiuto internazionale siamo stati capaci di prevedere una tragedia umanitaria e grazie a Dio, nessuno è morto di fame in Ucraina, laddove siamo riusciti ad arrivare con gli aiuti. Il piano pastorale della Chiesa Greco Cattolica Ucraina ora è quello della cura delle ferite, perché tutti siamo stati feriti, e chi almeno una volta nella vita è sotto un bombardamento vive una ferita che resta a lungo.

C'è speranza per un piano di pace?

Oggi si dice che si debba fare un compromesso, ma quando sento discorso su territori mi viene brivido di dolore: per noi non si tratta di territori, ma di persone. Dobbiamo liberare non i territori, ma le persone, i nostri fedeli. Nei territori occupati a volte non c’è nemmeno un sacerdote cattolico. Voglio ricordare i padri redentoristi di Bergyansk, padre Ivan e padre Bohdan che da cento giorni sono sottoposti a torture quotidiane. Nessun negoziato, nessuna diplomazia, nessuno strumento del dialogo è stato capace di alleviare i i loro dolori.

Ci sono statistiche riguardo i prigionieri di guerra e i sacerdoti feriti? 

Ci sono stati vari scambi di prigionieri, ma non sappiamo quanti russi e quanti ucraini sono stati presi come prigionieri di guerra, né abbiamo statistiche sui religiosi. Per il momento parliamo della nostra Chiesa: due sacerdoti della comunità dei Padri del Verbo Incarnato sono stati impriginati. Non posso precisare chi sono e dove sono ma vivono in una città occupata in una comunità clandestina. È un miracolo che stiano lì. Non possono esercitare il loro ministero ma stanno lì e pregano. La nostra cattedrale a Donetsk è danneggiata, ma regge, anche se non ci sono più sacerdoti lì. Hanno celebrato Natale ed epifania e sono stati costretti ad andare via. La nostra Chiesa non era numerosa in questi territori, ma il numero degli edifici distrutti è alto, si parla di 500 chiese, edifici di culto, case di preghiera di fratelli protestanti e così via.

Ci sono stati ritorni delle persone? 

La gente cerca di tornare a casa appena possibile. Posso dare le cifre di Kyiv: durante l’accerchiamento eravamo diventati 800 mila da 4 milioni, ma oggi ci sono circa un milione e mezzo di abitanti. Alcuni dicono che circa 5 milioni di ucraini che sono usciti dal Paese sono rientrati, ma questo è un flusso continuo. La gente torna per ragioni economiche, ma anche per un fenomeno psicologico:  si pensa che spostandosi dalle proprie città si ha paura succeda qualcosa alla propria casa.

Cosa fa la Chiesa? 

La Chiesa si prende cura di tutti, è stato inaugurato un giardino dell’infanzia per 120 persone in una parrocchia in Ivano Frantivsk. Mentre i russi distruggono, noi siamo stati in grado di costruire.

Ha una richiesta da fare? 

Non lasciateci soli, non abbandonateci. Tutti ci abbandonavano, tutte le rappresentanze diplomatiche fuggivano da Kyiv. Sono rimaste solo due rappresentanze: della Santa Sede e della Polonia. Tutti gli altri sono fuggiti. Ma tutti sono tornati e ora sono tutti con noi.

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