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Concilio Vaticano II, una “semplice nota” che ha creato una grande storia

Paolo VI e l'allora arcivescovo Roger Etchegaray

L’allora monsignor Roger Etchegaray la definiva “una semplice nota”. E forse il nome semplice era opportuno, se si guardano le dimensioni di quel documento: due pagine, dattiloscritte, divise in punti molto rapidi ed agili, a fare una sintesi perfetta del pensiero di quei giorni. Eppure, da quella piccola nota nasce una ispirazione che porterà a formare il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, la rete dei presidenti delle Conferenze Episcopali Europee che oggi guarda ad una Europa unita e visibile sotto la matrice cristiana, dall’Atlantico agli Urali, al di là delle divisioni e persino oltre una guerra che oggi è nel cuore dell’Europa stessa.

In fondo, è probabilmente quella l’idea di San Giovanni XXIII quando, sessanta anni fa, indice il Concilio Vaticano II. Costruttore di ponti, delegato apostolico in Bulgaria e Turchia e nunzio a Parigi, conoscitore dei due polmoni di Europa come pochi (e non ha caso l’Esarchia bulgara è intitolata proprio a lui), Giovanni XXIII pensa ad un Concilio che sia ecumenico e che, in fondo, sia una occasione di incontro, di un rinnovamento per la Chiesa che parta dal basso.

Ma – ed è questo il dato prorompente – non in senso politico – dottrinale. L’idea non era cambiare la dottrina, ma ricostruire la Chiesa, andare oltre i muri, le divisioni, guardare ad un mondo riconciliato e riconciliato alla luce del Vangelo. Un mondo in cui tutti fossero Chiesa e la Chiesa fosse di tutti.

Era un clima nuovo, aperto. Un clima in cui si facevano incontri. Era una Chiesa sinodale senza che ancora il termine fosse abusato, e senza che nemmeno fosse stato istituito il Sinodo dei vescovi (quello lo farà San Paolo VI, al termine del Concilio Vaticano II). Era una Chiesa collegiale, in cui si ascoltavano le iniziative e, se davano frutto, venivano poi istituzionalizzate.

Così, tra i frutti del Concilio, c’è prima di tutto l’incontro dei vescovi di tutta Europa, che si fermano a parlare tra loro, si raccontano le loro iniziative e cominciano a pensare che c’è bisogno di farlo più spesso, di farlo in maniera costante e continuativa.

Era un periodo di fermento, in Europa. Prima di tutto, c’era l’esperienza di riconciliazione fatta dalla lettera di riconciliazione polacco-tedesca, pensata dal Cardinale Kominek, arcivescovo di Wroclaw. Poi, c’era l’esperienza dei preti operai. E poi, c’era l’esperienza delle cosiddette “Chiese del silenzio”, lì, al di là della Cortina di Ferro, perseguitate, marginalizzate, persino isolate.

È monsignor Roger Etchegaray, allora segretario generale della Conferenza Episcopale Francese, a prendere l’iniziativa. Questi sarà poi prima arcivescovo di Marsiglia, poi cardinale e, come guida del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, sarà l’organizzatore degli incontri di Assisi e l’inviato di Giovanni Paolo II nei posti più difficili per la Chiesa cattolica, dalla Cina all’Iraq pre-Seconda Guerra del Golfo.

La “semplice nota” porta la data del 4 novembre 1965. In quelle due pagine, monsignor Etchegaray mette in luce la molteplicità degli scambi che stavano avendo luogo in Europa. Sottolinea la necessità, venuta fuori dalle conversazioni, di cercare una collaborazione pastorale tra le Conferenze Episcopali di Europa.

Si tratta, scrive Etchegaray, di una nota che “non pretende di essere esaustiva” né cerca “di essere esclusiva”, ma che rappresenta piuttosto l’augurio che “un reale sforzo sia fatto per interessare il maggior numero possibile di Paesi in Europa.

Europa considerata come entità geografica, dall’Atlantico agli Urali, e non dunque come entità politica.

L’ispirazione di far partire una iniziativa del genere trae forza dal paragrafo 5 del numero 37 Decreto Conciliare sulla missione pastorale dei vescovi nella Chiesa, il Christus Dominus. Si legge in quel paragrafo: “Se particolari circostanze lo richiedono, i vescovi di più nazioni, coll'approvazione della santa Sede, possono costituire un'unica conferenza. Si favoriscano altresì le relazioni tra le conferenze di diverse nazioni, per promuovere e assicurare un bene più grande”.

In quella che chiama “una nota pastorale”, Etchegaray pensa a “due misure pratiche”: lo stabilimento di una commissione composita, con vescovi delegati, e quella di instaurare un regolare scambio di informazioni tra le Conferenze Episcopali.

Il segretario generale della Conferenza Episcopale francese fa anche una disamina della situazione del tempo. La libera circolazione dei lavoratori permette “la moltiplicazione degli scambi europei”, ma non vanno sottovalutati i 45 milioni di “europei sempre in viaggio” che costituiscono “l’Europa delle vacanze”. E poi, “da tredici anni si assiste ad una fioritura delle istituzioni europee che porta ad una crescita dei funzionari europei”.

C’è, in quella nota “suggestiva” – come scrive Etchegaray in un altro passaggio – anche l’intuizione che la sempre maggiore diffusione dell’Eurovisione contribuisca ad una cultura europea, insieme alle cosiddette scuole europee, che sono fiorite nel continente in vari posti, da Lussemburgo all’Italia passando per il Belgio.

La nota è profetica sui problemi da affrontare. Prima di tutto, problemi “umani, sociali, religiosi sorti dalle migrazioni dei lavoratori”. Ma anche i problemi derivati da un “ateismo contemporaneo nato da una civiltà tecnica”. E ancora “il turismo e mescolanza dei popoli”, che si unisce alla “responsabilità dei cristiani d’Europa a favore dell’ecumenismo”.

Etchegaray mette in luce anche la “possibilità e rischi della presenza sempre più massiccia del mondo musulmano nell’Europa cristiana”, ed era un tema al tempo innovativo, oggi straordinariamente attuale.

Ma la nota non cade nel vuoto. Etchegaray menziona una serie di iniziative che già si erano sviluppate in quegli anni: il Colloquio Episcopale sulla evangelizzazione del mondo operaio di Tournai, che si era tenuto nel 1961 e 1962; i tre colloqui europei sulle parrocchie (Losanna 1961, Vienna 1963, Colonia 1965); il due Simposi sul turismo (Lugano 1963 e Monaco 1965) che avevano messo insieme 11 Conferenze Episcopali; il Congresso di formazione dei seminaristi che si era tenuto a Rothen, in Olanda, nel 1964; l’incontro dei direttori di riviste pastorali che si era tenuto a Friburgo in Brisgovia nel febbraio 1965. Va segnalata anche l’istituzione di una parrocchia europea in Lussemburgo; la nascita dell’Ufficio Cattolico di Informazione sui Problemi Europei nato nel 1956 e posto sotto l’autorità del vescovo di Strasburgo; i vari segretariati Europei.

Sono queste le iniziative da cui partire per pensare ad una “pastorale concertata”, scrive Etchegaray, che però eviti “di creare una soprastruttura o un organismo troppo pesante a servizio delle Conferenze Episcopale”, e che ponga tutto nella prospettiva della Chiesa universale

Da questa nota nacquero una serie di incontri, finché, nel 1971, San Paolo VI diede forma stabile ed istituzionale al Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa, il CCEE.

Questo ha una storia di cinquanta anni, e nel corso di cinque decenni ha contribuito a far parlare i vescovi di tutta Europa, in periodi di grande crisi ma anche di grande ispirazione, cercando di guardare oltre i tempi.

Ma la presenza stessa del CCEE racconta che i grandi frutti del Concilio Vaticano II sono, in fondo, dettati da incontri fortunati e felici, e da pastori sinceramente interessati all’evangelizzazione, vista come un compito ed una missione.

Un Concilio per un cambiamento d’epoca, con pastori nati per traghettare verso quel cambiamento d’epoca. Oggi, è una Europa diversa, eppure simile. Una Europa che deve comunque molto a quella semplice nota nata non dalle riunioni formali del Concilio, ma dalle riunioni informali di quanti partecipavano al Concilio. Era davvero una Chiesa in uscita.

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