Città del Vaticano , 24 February, 2022 / 9:00 AM
“Il carnevale di Roma non è una festa che si offre al popolo, bensì una festa che il popolo offre a se stesso. Non ci sono fuochi d’artificio, né illuminazioni, né brillanti processioni. Tutto ciò che accade è che, ad un dato segnale, tutti hanno il permesso di essere pazzi e folli come gli piace, e quasi tutto, tranne pugni e pugnalate, è permesso”.
Parola di Johann Wolfgang von Goethe che descrive così una delle più antiche tradizioni romane nel suo Viaggio in Italia. Molto meno poeticamente, diremmo noi: “A carnevale, ogni scherzo vale”. Ma qual è l’origine di questa festa? Dobbiamo risalire alla serie di festeggiamenti in onore del dio Saturno nella Roma imperiale. Queste feste avevano il nome di Saturnalia e si svolgevano per sette giorni durante i quali ogni gerarchia sociale era sovvertita. Nel corso dei secoli, i Saturnalia, divennero ben altro: quello che oggi chiamiamo carnevale.
Le origini del famoso “Carnevale romano” risalgono invece al Medioevo: i giochi si svolgevano principalmente nella Platea in Agone, l'attuale Piazza Navona. Ma è solo nel XV secolo che il carnevale della Capitale trova il suo massimo splendore sotto il pontificato di Papa Paolo II Barbo (1464-1471), nativo di Venezia, città nota ancora oggi per il suo carnevale. Il pontefice volle che Roma non fosse da meno del capoluogo veneto e così istituì la cosiddetta “Corsa de’ berberi”: i cavalli berberi - razza equina di origini nordafricane, nota sin dall'antichità - correvano da Piazza del Popolo per l’intera Via Lata (ora Via del Corso) fino a giungere a Piazza Venezia, sede del palazzo omonimo - Palazzo Venezia - fatto costruire dal Barbo nel 1455 quando era cardinale.
Oltre ai cavalli, il Pontefice, pensò di aggiungere anche altre corse, di diversa tipologia, come: il primo lunedì correvano i cittadini romani di fede ebraica; il primo martedì i bambini di fede cattolica; nel giorno del Giovedì Grasso era la volta degli uomini di età superiore ai 60 anni; il secondo lunedì, gli asini; e, in ultimo, Martedì Grasso, per le vie del Corso si scatenavano le bufale.
Nel 1665, Papa Alessandro VII Chigi (1655-1667), fece addirittura abbattere un arco - il cosiddetto Arco del Portogallo - per allargare la strada. Tale intervento è ricordato da una targa visibile ancora oggi: Alessandro VII rendeva la via “libera e dritta per la comodità pubblica”, qualificando indicativamente Via del Corso come Urbis Hippodromum, l'ippodromo della città. Nel 1667 Papa Clemente IX Rospigliosi (1667-1669) decise di porre fine, invece, alle corse degli uomini dal momento che i cittadini lanciavano oggetti di ogni tipo contro coloro che correvano.
Ma Via Lata era diventata famosa non solo per queste fantasiose corse. Per i giorni del Carnevale, infatti, la famosa via del centro di Roma era luogo di magnifiche sfilate di carrozze dalle quali venivano gettati fiori e confetti. Tutti i balconi dei palazzi, inoltre, erano “vestiti a festa”: ornati di tappeti broccati dai ricchi e sfavillanti colori. Tante erano le sfilate ma quella inaugurale rappresentava un vero e proprio corteo trionfale destinato a mostrare la potenza e lo sfarzo del papa regnante. Oltre ai carri trionfali, spesso costruiti nelle stesse residenze papali, erano coinvolte nelle sfilate anche le varie rappresentanze della Chiesa, le magistrature, solennemente vestite da abiti che richiamavano l’impero romano; mentre, i musicisti, gli artisti e i poeti chiudevano il ricco corteo. Papa Paolo III, Alessandro Farnese (1468-1549), uomo di grande cultura e amante del mondo classico, fu uno dei Pontefici più importanti per lo sviluppo del Carnevale romano tanto da chiamare alla corte papale i più grandi artisti dell’epoca rinascimentale del calibro di Donatello, Brunelleschi, Sangallo, Bramante, Raffaello e Michelangelo: illustri nomi impegnati per realizzare i carri trionfali.
Altra usanza molto conosciuta era la “Corsa dei moccoletti”, una corsa serale in cui i partecipanti reggevano delle candele e stava a loro spegnerle agli avversari. Una testimonianza di questa gara la offre il poeta romano Giggi Zanazzo (1860 - 1911) che nel suo “Tradizioni popolari romane” scrive: “L’urtimo ggiorno de Carnovale ammalappena sonava l’Avemmaria (anticamente sparava puro er cannone), tutti quelli che sse trovaveno p’er Corso, sii a ppiede, sii in carozza, sii a ccavallo, sii a le finestre, accennéveno li moccoletti. Poi co’ le svèntole, co’ li mazzettacci de fiori, o co’ le cappellate, ognuno cercava de smorza’ er moccolo all’antro, dicènno: - Er móccolo e ssenza er móccolo!”.
Via Lata però non era l’unica strada in cui era possibile immergersi nel Carnevale Romano. Vi era, infatti, un altro luogo deputato per i festeggiamenti. Stiamo parlando del Monte Testaccio, uno dei più famosi quartieri della Capitale. Qui si svolgeva la singolare manifestazione della “Ruzzica de li Porci”: alcuni maiali erano posti su dei carri e fatti rotolare dall'altura del monte, mentre la folla sotto si contendeva gli animali.
I festeggiamenti a Roma non erano però sempre garantiti: ogni anno si doveva attendere l'editto del Pontefice che concedeva la licenza del loro svolgimento. In genere negli anni giubilari l'intero programma veniva soppresso e sostituito dalle celebrazioni liturgiche. Anche la morte di un Pontefice poteva far sospendere, ovviamente, la festa: un esempio, il carnevale del 1829, anno in cui morì Papa Leone XII.
La decadenza del Carnevale Romano iniziò nel 1870, con l'annessione di Roma al Regno d'Italia, quando i Piemontesi iniziarono a limitarne i festeggiamenti per ragioni di ordine pubblico.
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