Beirut, 14 January, 2022 / 2:00 PM
Mentre l’arcivescovo Gallagher, Segretario dei rapporti con gli Stati, è atteso in Libano all'inizio di febbraio per una visita che secondo alcune fonti a Beirut preparerà quella di Papa Francesco e per partecipare ufficialmente al convegno su ‘Giovanni Paolo II e il Libano’, all’Université du Saint-Esprit, l’ateneo dell’Ordine maronita libanese a Kaslik (a nord di Beirut), la crisi libanese e del Medio Oriente è sempre più grave.
Le testimonianze di cristiani in fuga da diverse regioni si moltiplicano, le richieste di aiuto si intrecciano con la voglia di lasciare il proprio paese per sempre.
Giada della Associazione Operazione Colomba, parte della Comiunità Papa Giovanni XXIII, dal campo profughi di Tel Abbas, nella regione di Akkar, a nord del Paese, a circa 5 km dal confine con la Siria, racconta: “Arrivano molte richieste di aiuto, spesso finanziario per la cura dei tanti bambini ammalati, in un Paese dove la sanità è privata e la crisi economica schiacciante. Arrivano richieste di poter viaggiare verso l’Europa, nella speranza di un futuro migliore. Storie di donne, sole con i loro figli, perché il marito è stato arrestato in Siria”.
O c’è la storia di Djahra che ha scritto una lettera a Papa Francesco, raccontando la sua storia: “Qualche giorno fa sei venuto al campo di Mavrovouni per incontrarci, per porgerci la tua mano e per guardarci negli occhi. Sei venuto unicamente per noi, per dare voce a chi, come me, non ce l’ha. Io ero lì, a pochi passi da te. Non ho avuto la possibilità di parlarti e di raccontarti la mia storia, per questo motivo colgo l’occasione di farlo in questa lettera”.
Djahra è una ragazza afghana, di etnia hazara; ha 26 anni e vive con la famiglia nel campo profughi di Mavrovouni, a Lesbo, in un container: “Il mio sogno è quello di diventare professoressa. Però il tempo adesso è bloccato, non ho la possibilità di lavorare, di studiare, di vivere una vita normale e dignitosa.”
Alberto Capannini, cofondatore insieme a don Oreste Benzi dell’ ‘Operazione Colomba’ spiega che “singoli cittadini, associazioni e gruppi possono diventare i protagonisti nel sostenere e dare una casa alle proposte alternative alla guerra, proprio ora che stati, cancellerie internazionali e istituzioni sono fermi o si muovono con ambiguità, a volte condannando guerre e violenze e nello stesso tempo vendendo armi e appoggiando governi non democratici e direttamente responsabili di violenze e guerre”.
Perché non si può rimanere indifferenti?
“In realtà si può benissimo rimanere indifferenti, ma a prezzo di perdere la nostra umanità, che è la capacità di entrare in rapporto con gli altri, con chi è diverso da noi. Il Vangelo in questo aspetto è molto chiaro, non chiede un’adesione intellettuale al cristianesimo; nella famosa descrizione di Matteo della fine dei tempi dice che si salverà non chi pronuncerà il suo nome (chi dice: ‘Signore Signore…’) ma chi ha amato il più piccolo, il più povero, che ha vestito chi non aveva vestiti e dato da mangiare a chi non ne aveva. L’adesione al cristianesimo è una decisione molto concreta, non serve dichiararsi cristiani sono i fatti che definiscono chi sei”.
Cosa sta facendo l’Operazione Colomba nel Medio Oriente?
“La presenza di Operazione Colomba in Libano è iniziata nel settembre 2013. Dopo alcuni viaggi esplorativi in tutto il Paese, nell’aprile del 2014 è iniziata una presenza fissa nel villaggio di Tel Abbas e in uno dei campi profughi ad esso adiacenti. A Tel Abbas ci sono circa 3000 abitanti di cui 2000 cristiani ortodossi e 1000 musulmani sunniti. Negli ultimi due anni si sono aggiunti 2000 siriani musulmani sunniti.
La presenza si è concentrata sul campo ed è continuata perché effettivamente aiutava a mantenere basso il livello di tensione tra libanesi e siriani. E’ stata così costruita una tenda nel campo, come quelle siriane. Da allora i volontari vivono con loro condividendo la quotidianità. Il vivere al campo è diventato indirettamente fonte di sicurezza anche per i libanesi cristiani che, impauriti dalla presenza dell’ISIS nel territorio, vedevano in ogni siriano un potenziale terrorista.
Vivendo al campo si è ‘dimostrato’ che quel posto è privo di pericoli per loro. Si è iniziato inoltre a vivere anche insieme ai libanesi cristiani, qualche giorno al mese, per costruire con loro relazioni di amicizia e di fiducia che permettono ai volontari di fungere da mediatori e costruire ponti di dialogo tra le diverse comunità”.
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