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Letture, Mario Pomilio a cento anni dalla nascita

Di Mario Pomilio solo qualche settimana fa ricorreva il centenario della nascita, avvenuta a Orsogna, in provincia di Chieti, il 14 gennaio 1921. Una ricorrenza che, purtroppo, non ha avuto la rilevanza che meriterebbe. Occasione per ricordare, anzi celebrare, uno scrittore importante, ma non abbastanza letto e ricordato. Eppure, basterebbero tre soli romanzi per definirne l’importanza.

L’esordio di Pomilio in veste di romanziere risale al 1954 con L’uccello nella cupola, un libro che rende evidente un’inquietudine spirituale maturata anche attraverso la frequentazione di autori quali Georges Bernanos e François Mauriac. Il tema dominante appare subito quello del senso del dolore, soprattutto del dolore innocente.

Ma, allo stesso tempo, da queste pagine emerge il percorso personale dell’autore stesso, intrapreso proprio in questo periodo, come testimonia un altro testo-simbolo,  La lettera a una suora. Nel 1953 Pomilio e la moglie si trasferiscono dall’Abruzzo a Roma, si sentono soli, soffrono di solitudine: “Avevamo lasciato quella specie di nido caldo che erano le nostre famiglie e andavamo carichi di nostalgie stentando ad ambientarci”. In gioventù Pomilio era cresciuto in un ambiente cattolico con una certa lontananza e diffidenza. Aveva militato, nel dopoguerra, in partiti di sinistra. La  moglie viene colpita da una grave malattia che richiede un intervento chirurgico d’urgenza e in clinica marito e moglie conoscono una suora. “Pronta a sorriderci, a rincuorarci… Ci abituammo presto ad aspettarla. Arrivava lieve e rapida e subito si dedicava amorevole, sollecita, misteriosamente percettiva alle necessità di mia moglie che parlò di lei come di un angelo”. Pomilio è spinto a chiedersi che cosa rendesse quella suora tanto “speciale”, perché  il perché di tanta carità, tanta gioia e forza d’animo: che cosa o chi le dona una simile forza, riempie di senso una vita certamente dura, non facile…

Sono i primi passi verso una maturazione interiore e una nuova consapevolezza in quanto scrittore. Quell’incontro apre orizzonti sconosciuti: “Divenne un viaggio d’esplorazione all’interno di me stesso, nel corso del quale mi scoprii impensatamente ricco di mille cose che non sapevo di possedere, di risonanze e di versanti problematici tipicamente religiosi e perfino d’una cultura religiosa che ignoravo d’avere… Il mutamento che ne era derivato aveva avuto la sua prima origine dall’incontro con la suora, che mostrandomi in concreto che cos’è la carità cristiana e quale tesoro di valori essa contiene avevano sconvolto in me la visuale che avevo del cristianesimo… In breve, per opera sua, erano venuti in luce di me, l’io profondo e lo scrittore insieme”.

 Nel 1975 Pomilio scrive l’opera  in cui si rivelano compiutamente  la complessità e la grandezza della sua opera. Si tratta di Il Quinto evangelio,  in cui l’autore alterna  continuamente i registri della ricerca erudita, della fantasia, dell’invenzione,  della riflessione religiosa, che ruotano intorno alla inesausta ricerca dell’«Apocrifo degli Apocrifi ». Per arrivare alla rivelazione che rimanda  all’insegnamento originario di Gesù, come viene spiegato in uno dei passaggi-chiave del romanzo: “Ciò che facciamo in parole e in opere è l’evangelio che si sta scrivendo”.

All’altezza de Il Quinto evangelio sarà l’intenso e struggente Il Natale del 1833. È l’altro grande romanzo di Pomilio, quello che nel 1983 porta l’autore a vincere lo Strega. Torna qui il tema dolente della sofferenza che sembra schiantare il cuore dell’uomo, che lo trascina lungo la via tortuosa del Calvario, sotto il peso schiacciante della croce. L’autore racconta un  fondamentale momento della vita di Manzoni: la morte dell’amatissima moglie Enrichetta durante la festività natalizia del 1833, proprio nei giorni gioiosi delle feste. Pomilio parte dal componimento dello stesso Manzoni intitolato appunto Il Natale del 1833 per costruire un’opera romanzesca rispettosa della realtà storica, senza rinunciare all’arduo compito di esercitare la propria felice intuizione poetica.

L’autore utilizza alcune lettere della madre di Manzoni, Giulia Beccaria,  e altre testimonianze per raccontare il dolore dell’uomo di fronte alla  prova della perdita di una persona cara. Non sarà, del resto, il solo lutto a oscurare la vita di Manzoni: di lì a poco morirà la figlia Cristina, la madre, alcuni cari amici. La fede, tanto duramente conquistata, vacilla e lo scrittore sente dentro di sé l’inaridimento della propria energia creativa.
 Non è un caso che Manzoni pensi ad un lavoro su “Giobbe” poi lasciato allo stato di abbozzo.

Le domande si accavallano, il peso della sofferenza sembra farsi insopportabile. Ma davvero è questa l’ultima parola, la parola riservata al dolore? Pomilio fa pronunciare a Manzoni queste conclusive parole: “Ma perché ho detto che la storia delle vittime è la storia stessa di Dio? Ma perché ogni qualvolta un innocente è chiamato a soffrire egli recita la Passione? Che dico recitare? Egli è la Passione nel senso che è Dio stesso a crocifiggersi con lui… E la verità è questa, semplicemente: la Croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno e il dolore di ciascuno è la Croce di Dio”.

 

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