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L’abito non fa il monaco? Semmai, è vero l’opposto

La copertina del libro "Dio tre volte sarto" di Alberto Fabio Ambrosio

Non è vero che l’abito non fa il monaco. È vero piuttosto che il modo in cui vestiamo dice molto di noi, della nostra personalità, di quello che vogliamo comunicare. Ma – ed è questa la sorpresa – dice anche molto di Dio, della sua presenza nella storia, del modo in cui si comunica. Non fu in fondo Dio a fare due tuniche di pelli per Adamo ed Eva, una volta che questi si erano accorti di essere nudi?

È questa la riflessione da cui parte il domenicano Alberto Fabio Ambrosio, che insegna al Luxembourg School of Religion & Society e il Collège des Bernardins. Con il suo “Dio tre volte sarto” (Edizioni Mimesis), padre Ambrosio inaugura un nuovo campo di ricerca: non una mera teologia del vestito, non una storia dell’abito, sia ecclesiastico o laico, ma una vera e propria teologia della moda, per comprendere come il linguaggio della moda influisca e racconti l’uomo. La moda, spiega nella premessa, sarà pure effimera, ma di certo non è frivola.

Perché Dio è tre volte sarto? Perché sono tre i momenti identificati come i momenti in cui Dio si fa sarto. Della Genesi, è stato detto. Il secondo momento è la tunica senza cuciture di Gesù, raccontata nel Vangelo di Giovanni. Una tunica che stava a raccontare uno status, ma che diceva anche molto della natura della nostra fede. E c’è infine il vestito lavato da coloro che devono partecipare alle nozze dell’Agnello e non possono presentarsi in maniera inadeguata. Perché il vestito, entrato nella vita dell’uomo, sarà anche parte di vita eterna.

Resta sorprendente pensare a quanto gli abiti possano raccontare dell’uomo, ma soprattutto avere parte nella storia. Il termine “cappella” viene dalla cappa di San Martino, divisa in due dal santo di Tours allora diciottenne e restituitagli intera da Dio. La cappa di Martino, chiamata “cappella” perché più corta di dimensioni fu considerata reliquia, conservata ad Aquisgrana nella città che sarà chiama Aachen (e Aix-en-Chapelle in francese) e darà il nome all’edificio che la contiene. Ormai, ogni chiesetta è chiamata cappella. E lo si deve ad un vestito.

Si comprende bene, allora, che il progetto di sviluppare una teologia della moda non è poi tanto peregrino. Anzi, è un percorso totalmente nuovo, che può anche portare a nuove forme di dialogo, perché il vestirsi è prerogativa di ogni parte del mondo e di ogni religione. Non a caso il Cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, nella prefazione del libro ricorda che padre Ambrosio ha lasciato per un momento il suo campo di ricerca prediletto, quello del sufismo, ma nota anche che sufi rimanda proprio a un abito in lana grezza che dà una forte identità a quella corrente islamica.

In questa riflessione, padre Ambrosio non è solo. E uno dei suoi alleati trova un insospettabile Pio XII, che, incontrando nel 1957 i partecipanti del I Congresso Mondiale di Alta Moda, disse: Il vestito, ha un suo proprio linguaggio multiforme ed efficace, talora spontaneo, e quindi fedele interprete di sentimenti e di costumi, tal altra convenzionale e artefatto, e per conseguenza scarsamente sincero. In ogni modo al vestito è dato di esprimere la gioia ed il lutto, l'autorità e la potenza, l'orgoglio e la semplicità, la ricchezza e la povertà, il sacro ed il profano”.

Continuava Pio XII: “La concretezza delle forme espressive dipende dalle tradizioni e dalla coltura di questo o quel popolo, mentre la loro mutevolezza è tanto più lenta, quanto più stabili sono le istituzioni, i caratteri e i sentimenti, che quelle fogge interpretano”.

Sono parole che rappresentano una sorta di guida silenziosa del lavoro di padre Ambrosio. Che non guarda alla moda in quanto tale. Guarda alla moda come uno dei mondi in cui l’essere umano si esprime. Guarda alla moda come un modo in cui anche Dio può entrare nella storia.

 

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